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L’infinitamente grande

Continuiamo a “gettare le basi” della nostra conversazione teologica: dire l’Immenso, con parole d’uomo.

«E ci parlammo ognuno per creare qualcosa; per lasciare qualcosa; per avere qualcosa»: hai centrato il punto, Gabriella, e difficilmente si sarebbe potuto dirlo più sinteticamente, più efficacemente. Mentre prendiamo confidenza reciproca, e distendiamo le nostre estensioni sulle lunghezze della conversazione, c’avventuriamo nel sentiero della teologia, di cui dicevamo la volta scorsa le radici eterne.

Torneremo ancora, a varie riprese, su quell’argomento. Oggi invece ci soffermiamo su un’altra questione, di enorme importanza: se abbiamo evocato le belle parole di Guccini nel dirci cosa speriamo possibile dal nostro conversare – noi “creiamo qualcosa”, “ci lasciamo qualcosa”, perfino “veniamo in possesso” di qualcosa che entra nel nostro piccolo bagaglio – dobbiamo chiederci che cosa questo abbia a che fare con la teologia. Non è questa piuttosto poesia?

Un mio caro amico mi ha più volte ripetuto, a mo’ di motteggio: «La poesia e la teologia hanno in comune la materia prima, che è la fantasia; il problema è che la prima la crea, la seconda la cerca in vecchî libri!». La battuta farebbe torto a chi l’ha detta e a chi ve la riporta, se non si tenesse conto del fatto che il mio amico è stato per molti decennî un eccellente professore di teologia (e ancora oggi, in pensione, scrive di teologia): egli ironizzava invece sul serio rischio che la teologia corre – di sclerotizzarsi in un vuoto manierismo dimentico dei suoi fini proprî. Ma questo, si potrebbe notare, è un rischio che non lascia illesa la poesia; vi ricorderete del Misantropo di Molière, che al nobilastro fanfarone, tronfio dei suoi versi melensi dice: «Potrei anch’io, per mia sventura, scrivere brutti versi, ma non andrei a declamarli in giro!».

Conserviamo questo sorriso per noi stessi, mentre ci rivolgiamo a considerare come e perché valga poi la pena di affrontare questo rischio, imbastendo una teo-logia online. Quello che il poeta e il teologo sanno bene, insieme, è che non possono esimersi dal dire quello che non può essere detto. Dobbiamo tollerare, credo, lo sguardo severo di Wittgenstein, che ci ricorderebbe che «tutto quello che si può dire va detto chiaramente – quello che invece non può essere detto va taciuto»: una parte della nostra anima, quella positivistica, assente gioiosa. Però ne resta un’altra, inespressa, cui presta voce Agostino: «Come potrò parlare di te, mio Dio? E tuttavia, come potrò tacerti?». Il poeta resta pensoso al rigore di Wittgenstein, ma s’infiamma di cuore alle parole di Agostino: lì, nelle motivazioni del teologo, ci sono cose che il cuore umano sa, e che il poeta vive per esprimere.

Il vecchio Aristotele diceva che la filosofia nasce dal pathos e dallo stupore: non che per la teologia sia propriamente lo stesso, ma le parole che ha usato Aristotele ci aiutano a capire che cos’è quella fantasia di cui si nutrono, insieme, la poesia e la teologia. Non è, chiaramente, la sbrigliata inventività, ma piuttosto l’intuitività. L’intuizione è pathos perché nasce da altro: come l’occhio, al mattino, sa bene che il prezzo della luce e dei colori è il piccolo dolorante restringersi della pupilla, così chiunque ha il brivido dell’ispirazione poetica – o della teofania – “patisce” l’impressione che questa stampa in lui.

Il risultato? Quando Jovanotti cantava «che la luce è sempre una sola, che si distende sulle cose / e le colora di rosso, di blu, di giallo e di lilla, / dalle tonalità di varietà infinita», aveva ben capito che parlare dei singoli colori è parlare della luce stessa. Ora, nella fattispecie vi ricorderete che lui scriveva con un chiaro intento sincretistico (ne parleremo a breve: l’argomento è tanto urgente quanto spinoso); quello che c’interessa, invece, è che si ammette che l’infinitamente grande compare nell’infinitamente piccolo, in forma di frammenti. Come il colore è una porzione di luce, così l’intuizione è una porzione di verità. L’indicibile, che “spinge” per essere detto – la verità “nasce”! – viene detto in poche parole, le quali non di rado sono le più semplici.

Ma allora come mai la teologia, che è così “naturale” e “necessaria”, richiede tante premesse, tanto metodo, tanta chiarezza? Perché una cosa così semplice è così difficile? Proprio per questo: ciò che ci colpisce in un’ispirazione è semplice, ma noi – che siamo complicati – ci sforziamo di risalire all’intuizione come una trota risale la corrente. Non sono lo stesso, “semplice” e “facile”. Quando leggi una bella poesia, non ti stupisci di come le parole che usi tutti i giorni abbiano potuto mostrarti le meraviglie che hai percepito? Così è la poesia, semplice e difficile. Così è la teologia. Ecco perché penso che nelle nostre conversazioni dovremo attingere molto spesso ai filoni della poesia, oltre che della teologia e della filosofia, e vorrei che lo facessimo con gioiosa semplicità, come se stessimo raccogliendo fiori.

Non solo, come abbiamo visto, tutta la poesia è costantemente protesa verso il proprio limite – il limite della poesia è quello in cui l’intuizione non è sorretta dal linguaggio e non riesce a codificarsi in esso: resta il silenzio – ma il medesimo processo è quello che va a comporre anche i libri della Sacra Scrittura, in cui i credenti ammettono di ritenere espressa, in vere parole umane, la vera Parola di Dio. Come un frammento – i Padri la chiamavano “la Parola abbreviata”.

È evidente quanto questo sia gravido d’importantissime implicazioni per chiunque voglia pensare la propria fede (e una fede che non si pensa è pericolosa): figuratevi che nel 1215 un importante Concilio Ecumenico (noto come “Lateranense IV”) ritenne opportuno occuparsi di questa faccenda, sintetizzando tutto quello che noi abbiamo detto nell’ermetica formula di “analogia entis”. Senza scendere in dettagli tecnici (che potranno comunque essere facilmente rintracciati in rete), quello che c’interessa è che i testi di quel Concilio seppero fondere in un concetto armonico ciò che in altre radici teologiche era stato detto in due modi distinti (“via eminentiæ” e “via negationis”). Per avere un’idea concreta di questo concetto – a dire il vero molto semplice, ma spiegata, come al solito, in modi difficili – vi propongo questo breve spezzone di un capolavoro di Kieslowskj.

Ora, la zia ha abbracciato il nipote chiedendo a lui di verbalizzare l’intuizione che del calore umano e dell’affetto della zia lui stava avendo: quando arrivano le semplicissime parole del bambino – «ti voglio bene» – la zia non fa che accoglierle. «Ecco – dice però – Lui è questo»: questa è purissima teo-logia; a condizione però che quando si fa un’affermazione simile ne innalziamo il significato all’infinito (perché Dio è infinitamente più di un qualsivoglia “ti voglio bene”, e questa è la “via eminentiæ”) e al contempo ne neghiamo completamente quello stesso significato (perché Dio è immensamente diverso da ogni tipo di locuzione umana, e questa è la “via negationis”).

Cosa ne otteniamo? Che tutto diventa una microscopica finestra aperta sull’immenso, e che – nell’immaginifico ma razionalissimo linguaggio dell’intuitività – l’infinitamente piccolo può “contenere” e “rap-presentare” l’infinitamente grande.

Foto: http://www.flickr.com/photos/lucacaos/

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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6 Comments on L’infinitamente grande

  1. Caro Simone, chi obietta non sono io, ma proprio Paolo, cui lascio tutte le parole e ogni spiegazione.

    «Cercate dunque di vivere nell’amore, ma desiderate intensamente anche i doni dello Spirito, soprattutto quello di essere profeta. Infatti, chi parla in lingue sconosciute, non parla agli uomini, ma a Dio, e nessuno lo capisce. Mosso dallo Spirito dice cose misteriose. Il profeta, invece, fa crescere spiritualmente la comunità, la esorta, la consola. Chi parla in lingue sconosciute fa bene soltanto a se stesso; il profeta, invece, fa crescere tutta la comunità. Io sono contento se tutti voi parlate in lingue sconosciute, ma lo sono ancor più se avete il dono della profezia. Perché il profeta è più utile di chi parla in lingue sconosciute, a meno che qualcuno le interpreti, e così l’assemblea ne ricava un beneficio. Fratelli: se io, quando vengo da voi, mi mettessi a parlare in lingue sconosciute, non sarei per voi un aiuto. Vi aiuto invece se vi comunico da parte di Dio una rivelazione o un messaggio o un insegnamento. […] Non so quante specie di lingue vi siano al mondo, ma so che tutte hanno un senso. Però, se io non conosco la lingua di chi mi parla, sono uno straniero per lui ed egli è uno straniero per me. Così, voi che desiderate intensamente i doni dello Spirito, cercate di avere in abbondanza quelli che servono alla crescita della comunità. Perciò, chi parla in una lingua sconosciuta, chieda a Dio anche la capacità di spiegarla. Se infatti io prego in una lingua sconosciuta, è il mio Spirito che prega, ma la mia mente rimane inattiva. Dunque, che cosa devo fare? Pregherò con lo Spirito, ma pregherò anche con la mente, canterò con il mio Spirito, ma canterò anche con la mia intelligenza. Altrimenti, se tu ringrazi Dio soltanto con lo Spirito, chi ti sta ad ascoltare senza capire, non potrà dire “Amen” al termine della tua preghiera, proprio perché non ha capito quel che dici. La tua preghiera sarà bellissima, ma gli altri non ne ricevono beneficio. Io ringrazio Dio perché parlo in lingue sconosciute più di tutti voi; ma quando la comunità è riunita, preferisco dire cinque parole che si capiscono, piuttosto che diecimila incomprensibili. Così posso istruire anche gli altri. Fratelli, non ragionate come bambini. Siate come bambini per quel che riguarda il male, ma siate adulti nel modo di ragionare. Nella Bibbia Dio dice: “Parlerò a questo popolo / per mezzo di persone / che parlano altre lingue, / per mezzo di stranieri. / Ma neppure così mi ascolterà”. Così, la capacità di parlare in lingue sconosciute è un segno non per i credenti, ma per gli increduli. Profetizzare invece, è un segno non per gli increduli ma per i credenti. Se la comunità si riunisce, e tutti si mettono a parlare in lingue sconosciute, quando entrano degli estranei o dei non credenti, che cosa accadrà? Diranno che siete pazzi! Se invece tutti fanno discorsi da profeta, ed entra un non credente o un estraneo, si sentirà rimproverato e giudicato da tutto quel che ascolta. I suoi pensieri segreti verranno posti in chiaro. Allora, si getterà faccia a terra e adorerà Dio dicendo: “Dio è veramente tra voi”» (1Cor 14)

  2. “L’infinitamente grande”…davvero molto potrebbe dirsi con un titolo tanto ampio, in grado di offrire spunti illimitati parlando di Dio. Se dovessi pensare a qualcosa di infinitamente grande, non potrei che pensare all’amore: “Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e vi abbiamo creduto. Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.”, perciò “Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”…la grandezza del proprio amore, quale infinitezza più ampia? Non c è teologia o parola umana che possa spigarla o esprimerla appieno ma ci sono Spiriti che possono gustare ben più di quanto una bocca ne possa enunciare, bella la teologia ma non rimane che una cornice, che non a caso rima con appendice di un contenuto che puro ed essenziale continua a rimanere più che sufficiente per ogni cosa. Anticipo chi obietta ponendo avanti l’ importanza della teologia per la comprensione profonda etc…ma PER ME non è importante, quanto l’ ispirazione dello Spirito Santo rispetto alla materia. Chi può dir che senza la folgorazione e la continua opera dello Spirito (1Corinzi 2:13) lo studio la conoscenza . Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo.

  3. “Il Dio ignoto” è un’espressione resa celebre, come sappiamo, da Paolo di Tarso nel suo discorso ad Atene (At 17,23): quello che l’uomo adora in cuor suo da sempre, anche senza saperlo nominare, Paolo ha la pretesa di predicarlo apertamente. Da dove gli viene quest’autorità? Egli protesta che gli derivi dall’aver conosciuto quel Gesù alla cui conoscenza non vuole anteporre nulla: per dirla con Gibran, quel Gesù sarebbe stato, prima di ogni altro, “l’infinitamente piccolo / e l’infinitamente grande / e la vita che li unisce”. In lui, poi, ogni uomo avrebbe trovato la forza di presume di “ficcar lo viso per la luce etterna” (Dante, Pd. XXXIII, 83).
    Cosa aggiunge Gesù, allora, a quello che di Dio potevamo dire senza conoscere lui (anche se non senza di lui)? Semplicemente questo: che il “Dio ignoto” è veramente “sempre più grande”, e che quindi le nostre teologie non fanno che balbettarne l’indicazione; ma pure che il “Dio ignoto” è veramente, già qui e ora, quello che noi sappiamo di lui – che ci si è rivelato.

    La rivelazione di Dio è vera, in tutti i sensi, eppure Dio resta più vero di ogni verissima verità teologica – di questo paradosso vive la teologia, come l’amore.

    “E per evitare che qualcuno si rallegri alla leggera di aver in qualche modo appreso la verità, è detto: Cercate sempre la sua faccia (Sal 104,4). E l’Apostolo dice: Se qualcuno crede di sapere qualcosa, non sa ancora in che modo bisogna sapere. Chiunque ama Dio, questi è conosciuto da lui (1Cor 8,2-3). Non dice: “Conosce Dio”, che è pericolosa presunzione, ma invece: è conosciuto da lui. Così, avendo detto in un altro passo: Ora che conoscete Dio, si corregge subito e dice: anzi, che siete stati conosciuti da Dio (Gal 4,9). Ma ecco il passo più significativo: Fratelli, non credo di averla ancora raggiunta, ma una sola cosa faccio: dimentico quello che è indietro e, proteso, con una tensione di tutto me stesso, verso ciò che è davanti, corro verso la meta, per il premio di quella suprema chiamata di Dio in Gesù Cristo. Quanti dunque siamo perfetti, cerchiamo di avere questi sentimenti (Fil 3,13-15). La perfezione in questa vita, secondo l’Apostolo, non è altra cosa che dimenticare ciò che è indietro e protendersi, per una tensione di tutto se stessi, verso ciò che sta davanti (Plotino, Enneadi, III, 7.11). Questa tensione nella ricerca è la via più sicura fino a quando non si abbia attinto ciò verso cui tendiamo e che ci estende al di là di noi stessi. Ma è retta solo la tensione che procede dalla fede. È la certezza della fede che, in qualche maniera, è inizio della conoscenza, ma la certezza della conoscenza non sarà compiuta che dopo questa vita, quando vedremo a faccia a faccia (1Cor 13,12). Abbiamo dunque questa intima convinzione e conosceremo che è più sicuro il sentimento che ci spinge a cercare la verità di quello che ci fa presumere di conoscere ciò che non conosciamo. Cerchiamo dunque con l’animo di chi sta per trovare e troviamo con l’animo di chi sta per cercare. Infatti: Quando l’uomo penserà di aver finito, allora incomincerà (Sir 18,6)”. (Agostino, La Trinità, IX, I.1.)

  4. Gabriella Di Vita // 9 Novembre 2010 a 06:37 //

    Se anche cantassi come gli angeli,
    ma non amassi il canto,
    non faresti altro che rendere sordi gli uomini
    alle voci del giorno e alle voci della notte.

    Kahlil Gibran “Il profeta”

    Noi stessi siamo l’infinitamente piccolo
    e l’infinitamemte grande
    e la vita che li unisce.

    Kahlil Gibran

  5. brunella // 7 Novembre 2010 a 17:05 //

    Questa mattina ho letto la poesia che vi propongo e che tanto mi ha fatto riflettere proprio nel senso “dell’infinitamente piccolo,(Dio conosciuto dall’uomo) che contiene l’infinitamente grande( il Dio nella sua pienezza al di là della nostra vita

    Occorre avere l’audacia

    di lasciare il Dio conosciuto

    per andare alla ricerca

    del Dio ignoto

    che sta sempre oltre,

    che non si lascia raggiungere mai.

    Arturo Paoli

  6. Federica // 7 Novembre 2010 a 16:11 //

    E’ questo che mi affascina della vita: l’infinitamente piccolo che cela l’infinitamente grande…
    E’ stupore, meraviglia, gratitudine…
    Per ottusità e superficialità spesso non vediamo cio’ che di grande muove tutto. C’è un senso semplice ma grandioso dietro ogni cosa. Ma è raro riuscire ad intuirlo… perchè?
    In realtà non servirebbe poi molto: è tutto così chiaro e semplice… ogni cosa porta stampato il marchio di chi ha voluto che fosse proprio così e non in un altro modo, di chi ha creato per noi e nessun altro.
    Ma siamo così arroganti da creare inutili artifici per spiegare cio’ che in realtà è già perfetto e chiaro per sua natura…complicando le cose e nascondendole dietro costruzioni imponenti ma fragili.
    E di tanto in tanto riceviamo una Grazia, un terremoto che fa crollare tali inutili artifici… e il bello si palesa in tutta la sua semplice perfezione. Facendoci sentire stupidi.
    Anelo questi terremoti, queste scosse che mi riportano al vero.
    Chi o cosa sarà il mezzo per la mia prossima scossa?

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