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Elogio del tradimento

C’è un’opera in cui libertà e fedeltà sono a un tempo coincidenti e contrapposte…

Nell’ultima settimana ho ricevuto diversi messaggi privati in cui mi veniva chiesto di chiarire questo o quel punto dei precedenti articoli della nostra rubrica teologica; naturalmente tutti noi, in Redazione, siamo ben lieti di constatare dai vostri interventi che gli argomenti e la trattazione sono di vostro gradimento, e ancora di più lo siamo di poter condividere con voi quelle che sono le nostre competenze e quelle che sono le nostre opinioni. Vi incoraggio pubblicamente, però, a non temere di scrivere nel blog invece che in messaggi privati: la domanda di ciascuno può essere la risposta dell’altro, e viceversa una risposta può essere il punto di partenza di una nuova ricerca, secondo quanto c’eravamo detti.

Gli argomenti che stiamo affrontando in questi primi passi, come si vede facilmente, sono “introduttivi” alla lunga chiacchierata teologica che abbiamo appena abbozzato: se da un lato quindi sono “propedeutici”, dall’altro però sono “fondamentali”. Qual è la differenza tra le due cose? Detto in parole povere, che una cosa “propedeutica” è quella che ti prepara a un’altra (che però non è ancora arrivata), mentre una cosa “fondamentale” è quella che è, sì, indispensabile, ma perché contiene i semi dell’intero discorso. Così quando noi ci siamo intrattenuti a vedere come e perché “Dio è teo-logia” (clicca link), e com’è possibile che il linguaggio umano sappia “dire l’indicibile” (clicca link), da un lato ci preparavamo a un discorso teologico almeno minimamente “attrezzato” – dall’altro, invece, sbirciavamo già il cuore della teologia delle teologie.

Ma dove ci portano le poesie che stavamo vagheggiando? Riescono a darci veramente qualche indizio importante su quello che siamo e sulla nostra identità? Guardate: solo a tratteggiare quei temi, diversi di noi hanno ritenuto di non star postando a sproposito delle parole scritte da qualcuno da qualche parte in un qualche tempo… Sarebbe come chiedere: che c’entrano le diverse madri dei “Calciatori Panini” col fatto che tutti i loro figli, e solo i loro figli (nati in luoghi e tempi diversi, da famiglie diverse e in circostanze diverse), sono finiti raffigurati in un unico album – che moltissimi bambini hanno? Quelle donne non hanno a che fare con quei bambini più di quanto Kahlil Gibran abbia a che fare con chi di noi lo ha reso presente nella nostra conversazione e con noi tutti… eppure il nome dei figli di quelle donne (ovvero dei calciatori) è letteralmente famigliare – proprio con la “gl” di “famiglia” – nelle case di quei bambini, che non hanno mai visto il viso di quelle signore. Proprio come noi non solo non conosciamo il volto di tutti i poeti che citiamo, ma neppure ne sentiamo grande bisogno: in parte ci pare, per quello che di loro leggiamo, di conoscerli così a fondo da poter considerare quanto non conosciamo poco più di un superficiale dettaglio – in parte, soprattutto, quello che di loro conosciamo è già “da sempre” così “nostro” che non c’è bisogno di aggiungere “documenti” al loro “diritto di cittadinanza” nel nostro mondo.

Così è il mondo degli uomini: dalle calze bucate ai capolavori artistici, dalla pasta ai rifiuti, dai gioielli ai fondi di bottiglia, noi distinguiamo, noi separiamo, noi cataloghiamo, noi scegliamo, abbiniamo e congiungiamo; scartiamo sempre qualcosa e conserviamo sempre qualcosa – tutti sappiamo che non esiste un oggetto tanto ridicolo che non possa diventare l’ambita meta della ricerca di un qualche collezionista. E certo ci sono delle passioni condivise e altre che lo sono meno: per esempio, se io mi dessi a collezionare, che so, zampe d’insetti, potrei anche realizzare una collezione unica al mondo, ma con ogni probabilità se scomparissi chi mi sopravvivesse la toglierebbe di mezzo con disgusto (e per di più chiedendosi che razza di uomo io sia stato!).

Consideriamo invece le “collezioni” che vengono tramandate di mano in mano oltre le montagne e gli oceani del nostro piccolo-grande pianeta, oltre le epoche della nostra piccola-grande storia – noi occidentali siamo soliti chiamare queste collezioni “classici”. Non è importante che stiamo a vedere da dove deriva la parola e perché questo concetto è solo parzialmente adatto al nostro discorso: l’importante è che ci poniamo a considerare l’immane sforzo collettivo che ha prodotto e “trasportato” queste collezioni fino a noi. Oltre i popoli e le ere, oltre i governi e le ideologie, l’ostacolo più radicale che queste “collezioni” hanno oltrepassato è stata la barriera linguistica. Com’è, per esempio, che hanno ritenuto l’Iliade e i Vangeli tanto significativi da meritare di sopravvivere alla scomparsa di popoli che conoscessero il greco? E com’è che noi stiamo proseguendo il medesimo, identico sforzo, ininterrottamente da allora? Una volta pensavo – con grande sicurezza, com’è sicura ogni ingenuità – che in nessun altro modo avrei potuto leggere un’opera che affrontandone il testo nella lingua originale. È stato poi un professore, uno dei migliori, a farmi riflettere dicendo: «In fondo, io ritengo un mio libro “nato a metà” finché non venga tradotto almeno una volta»!

E in effetti tradurre un testo è un po’ la versione più vistosa e complessa di quello che dicevamo delle poesie che ci scambiamo: dal momento che cito una poesia, essa appartiene almeno un po’ anche a me, e non solo all’autore; dal momento poi che la cito in un gruppo che l’accoglie corrispondendo ai miei sentimenti (e a quelli dell’autore), essa appartiene sempre di più a tutti noi, e non solo all’autore. E l’opera stessa, mano a mano che vive e ri-vive nei cuori di chi se ne appropria, è sempre più quello che l’autore sperava che fosse – anche se avesse ignorato il suo destino – perché quello che ogni artista spera per la sua opera, l’abbiamo visto, è che resti, per sempre e per tutti.

Tradurre un testo non è, però, soltanto un sostegno dato al testo perché questo si conservi fruibile anche ad altri: tradurre è già tramandare, ed entrambe le cose sono già – qui sta la cosa terribilmente bella – tradire.

E davvero, poi, la traduzione è un po’ una seconda nascita: ci sono pochi momenti dell’esistenza così pregni di contraddittorî come la nascita – dove vita e morte, bellezza e bruttezza, aria e acqua, sangue e carne, sono così potentemente sovrapposti. Così l’opera della traduzione (che è sempre necessariamente l’opera del tradimento perché è l’opera della trasmissione), mentre fa tutte quelle cose che proprio non possiamo esimerci dal fare (distinguere, scartare, conservare… le vedevamo più sopra) è insieme la vita e la morte del testo. In quest’opera libertà e fedeltà sono coincidenti e contrapposte, e la “collezione” che abbiamo ricevuto conserva la stessa fiamma mentre la passiamo ad altre mani solo a condizione che la lasciamo diventare nostra diventando noi, reciprocamente, suoi: come con la Volpe del Piccolo Principe, non si addomestica nessuno senza lasciarsi a propria volta addomesticare.

Così è ciò che si suole chiamare “Tradizione” (che è il nome teologico di “cultura”) – un concetto imprescindibile per qualsivoglia conversazione come la nostra spera di essere. Molto facilmente, adesso, qualcuno si chiederà: «Perché mai era necessario trattenersi così a lungo su una cosa così semplice?». Risponderei che, proprio perché le cose semplici ci sono più difficili di quelle complesse, normalmente tendiamo a sbrigare con un pensiero frettoloso la considerazione del concetto di “traduzione/tradizione/tradimento” – senza renderci conto di quanto queste dimensioni sono fondamentali nelle strutture della nostra vita (e non parlo solo di letteratura e arte).

Così possiamo accostarci, d’ora in avanti, in modo meno confuso e ambiguo, alle sterminate risorse dei testi biblici: non possiamo fare a meno di tradurre per noi quell’incredibile ed eterogenea collezione; non possiamo evitare di lasciarvi sopra le impronte digitali del nostro tocco, quando le consegneremo a chi ci seguirà, come noi dobbiamo confrontarci con le impronte del tocco di chi ce le ha date mentre le raccogliamo; non possiamo evitare che quest’opera sia un tradimento – tutto ciò che c’è dato è compierla con tale libertà da restarle fedeli.

Foto: http://www.flickr.com/photos/giallinovagabondo/844887420/#/

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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3 Comments on Elogio del tradimento

  1. Caro Simone, grazie per le importanti pro-vocazioni che fai. Sarebbe riduttivo risponderti in un post, anche perché diverse delle cose che ti direi le avrei pubblicate nel prossimo articolo della rubrica – che uscirà domenica, come di norma. Ti rimando a quello, dove riprenderò – senza troppi riferimenti personali ma con puntualità – quello che dici. A domenica.

  2. Anche questa volta Giovanni ha fatto centro. L’argomento per quanto esemplificato mantiene comunque una cortina sfocata che lo rende accessibile sì, ma non del tutto assimilabile. Premetto questo e mi unisco al pensiero di Gabriella ma ahimè devo dissentire dalla frase “Dio è teo-logia” , per il semplice motivo che per quanto sia corredata di link, va comunque a cozzare con quello che è la struttura base di Dio, cioè Amore (1Giovanni 4:8), dicendo questo non faccio certo teologia, ma confido e mi fido della Sua parola cui nulla può essere aggiunto o capito, o rivelato o tradotto, o tramandato o studiato, se non per mezzo dello Spirito Santo, intendendo uno studio non fine a se stesso. I santi, coloro che amavano e conoscevano Cristo predicavano non di prediche e dottrine, per arrivare dove poi? A Capire Dio, ad ad averne una concezione spaziale temporale o affettiva? Cos’è è la fede allora? La voglia di capire, o di partecipare al progetto di Dio, accettando la Grazia in Cristo?…cioè secondo me non è la nozione a permettermi di capire e gustare Cristo e le cose a Lui attorno, ma la rivelazione della Sua parola e della croce. Con questo non intendo dire di non studiare e di non capire e approfondire le scritture, e nemmeno di leggere solo la Bibbia in attesa della rivelazione, ma di accostarsi ad Essa con immenso rispetto attenzione e libertà…Il resto lo farà Dio concedendoci anche il desiderio di conoscere allettandoci sulla cose che Gli gravitano attorno. Wikipedia riporta “La teologia (dal greco antico θεός, theos, Dio [1] e λόγος, logos, “parola”, “discorso”, o “indagine”) è la disciplina che studia Dio, ovvero le divinità nei caratteri che le varie religioni riconoscono come propri del divino in quanto tale; accessoriamente, e in alcune religioni, si occupa di sviluppare elaborazioni teoretiche circa materie dogmatiche, oggetto della fede dei credenti. “…Semplicemente non è questo l’ approccio che vedo più conforme a me e alla mia visione di Dio, parlo da pentecostale lo so ma : “Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede… Guardate che nessuno vi faccia sua preda con la filosofia e con vano inganno, secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.”
    Venendo a noi che dire sull’argomento vero e proprio della discussione, “l’elogio del tradimento…”Tradurre un testo non è, però, soltanto un sostegno dato al testo perché questo si conservi fruibile anche ad altri:tradurre è già tramandare, ed entrambe le cose sono già – qui sta la cosa terribilmente bella – tradire. “…concettualmente impeccabile e come logica è innegabile, per un testo tanto unico e speciale, è vietato pronunciare ragionamenti logici e quadrati ma è importante inquadrare le cose sotto la volontà divina e il desiderio di Dio di farsi conoscere, di renderci la libertà in modo reale affinché si possa scegliere in questo consistette il Suo amore. Non credo sia importante fare semantica sull’argomento quanto più riconoscere il percorso che i testi hanno fatto per arrivare fino a noi…percorso che non ha visto mutamenti o tradimenti quanto più diffusione e rivelazione. Ma se di tradimenti vogliamo parlare facciamolo, discutendo sui libri apocrifi ad esempio che come dice S. Agostino : “Tali scritti sono da considerarsi apocrifi perché non sono suffragati da alcuna testimonianza e provengono da una non so quale fonte segreta, non so da quale spiriti presuntuosi”…Il purgatorio per dirne una: La Bibbia è totalmente estranea ad un tale insegnamento (Ecclesiaste 11: 3 ), ci dice che come l’uomo muore, così entra e rimane nell’eternità (Luca16: 46). La Bibbia non parla affatto di una purificazione nell’al di là; oltretutto ciò renderebbe incomprensibile la necessità della venuta di Cristo, invalidando così la Sua sufficiente opera di salvezza. La personale fede in Cristo, ci purga.. appieno da ogni peccato, e come Lui stesso dice:
    “..ha autorità sulla terra di rimettere i peccati”
    (Matteo 9:6; Marco2:10). (http://www.la-bibbia.it/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=11 )…Queste cose a mio avviso sono tradimento, tradimento a ciò che Cristo disse ma sopratutto Fece.

  3. Gabriella Di Vita // 14 Novembre 2010 a 18:22 //

    Perdonami se (so che non è questo il tuo scopo) devo complimentarmi con te,per quanto scrivi e per come lo scrivi.Sarà che scorgo, o forse ritrovo, alcuni temi di poeti,scrittori,cantanti….a me cari.O forse,sarà,che percepisco la vibrazione del comunicare per “lasciare qualcosa” che si muove tra le parole,o l’umile idea che si possa intravvedere Luce in opere umane,di speciale umanità,anche percorrendo le impervie strade del tradimento.

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