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«…il Governo che si merita»

Da Guicciardini a Prezzolini, intorno a una fiducia sfiduciata e sfiduciante

Il Parlamento italiano

Ore tristi, aria pesante a Roma ieri. Il centro blindato fin dal mattino, panettieri che borbottano scettici su quello che starà per accadere… “nel palazzo”. E si vede quanto sia fattivamente vero ciò che scrisse Guicciardini: «Tra la piazza e il palazzo è una nebbia sì folta…». Solo che Guicciardini scriveva dai corridoî dei palazzi, e sapeva bene che aspetto aveva la piazza vista di lassù (perché è molto più facile che un governante abbia una spia intrufolata nel popolino che il contrario). Era cinismo, il suo? Forse solo arte del buon governo. Realista, dura, ma vitale e animata di prospettive concrete.

Il panettiere parla col gelataio, e tutti e due convengono in una lenta alzata di spalle accompagnata da un’espressione circospetta: «Chissà…». La percezione della debolezza del Governo è dilagante, e il più grande problema di queste giornate è che nessuno sembra più interessato a parlare del tempo che fa: la grande visibilità del palcoscenico politico centrale illude da decennî quello che non si sa se chiamare opportunamente “popolo” o “i cittadini” o “i sudditi”. Parlare di politica sembra necessario, e non con la serena consapevolezza di chi sta semplicemente sfruttando un sempreverde tòpos di conversazione… Sembra invece che qualcosa cambî sul serio, preoccupandosene o non preoccupandosene. Sorprendente è pure che a pochissimi salti in testa la consapevolezza di non disporre delle benché minime basi teoriche e tecniche necessarie alla discussione “Politica” (in senso stretto). Ed ecco l’altra sorpresa: ci si rende conto che, in fin dei conti, la “Politica” non dev’essere una cosa così difficile, a vedere di cosa si occupa. Sarebbe troppo facile ricordare il recente, spumeggiante monologo di Benigni sul Presidente del Consiglio (quello per cui, parlando «solo di politica» s’arriva subito a «questa Ruby»), ma nulla la nostra penna vorrebbe meno che passare per una penna “di sinistra”: del resto, chiunque abbia la ventura di sfogliare la Gazzetta Ufficiale, o di seguire in diretta le discussioni in Parlamento, non trova necessariamente che il livello dei discorsi sia di molto superiore a quelli riscontrabili in un comunissimo bar (dalla tappezzeria lussuosa, per carità!).

Altre volte avevo avuto l’impressione, passeggiando “tra la piazza e il Palazzo”, che la vetrina mediatica in cui il Palazzo vive da diversi decennî una dimensione di pubblicità (grazie al Cielo resta esente, per ora, il Quirinale) fosse un semplice specchietto per le allodole: un “finto Palazzo” da pubblicare in piazza – come un appartamento in plexiglas collocato al centro di un incrocio. Ora invece sospetto una cosa per certi versi più inquietante: che l’osmosi tra piazza e palazzo sia diventata critica (ci torno subito), e che quella nebbia folta di Guicciardini s’infiltri per i corridoî del potere – quegli stessi che altrimenti hanno saputo sottoporre i potenti a una così severa ascesi da averli fatti quasi “monaci del dominio”. L’effetto di questo è non solo che le veline vengano portate in Parlamento (d’altronde da lì uscivano, se uno sapesse la storia di quella parola…), ma che il qualunquismo sia diventato il linguaggio politico per eccellenza – tanto che io posso permettermi il lusso di scrivere di politica, senza che si alzino voci capaci di screditare completamente la mia. Solo opinioni, tanto diverse quanto uguali – che differenza c’è? – nella generale svalutazione delle parole, nell’inflazione cronica delle idee.

E poi c’è la crisi, e pure ‘Nduccio (perché, non si può citare ‘Nduccio su una pagina culturale?) l’ha capito che con quest’espressione – “c’è la crisi” – «s’avem’ ‘mbarat’ ‘n’atra cos’» («abbiamo imparato un’altra cosa»). Ma cos’è, questa famigerata crisi che tutti possono tirare in ballo per spiegare come mai questo o quello non va? È che la benzina sale? È che neanche le cosce di Belen riescono a incrementare le vendite della Tim (e grandi quotidiani riempiono pagine di congetture sulla “bigotteria degli Italiani!”)? È che in Parlamento si tira coca oppure è il discorso sulle “pari opportunità” esteso ai più o meno contenuti vizietti della classe politica? Ecco il più plateale, e al contempo innocente, segno della crisi: che un Bersani campeggi in tutta Italia su manifesti che protestano che «l’Italia merita un governo migliore»! Prima di discutere su chi possa essere quell’Artù capace di estrarre dalla roccia della “crisi” la lama del buon governo, soffermiamoci a ragionare: si può essere tanto miopi? Abbiamo ancora bisogno di chi ci carezzi le ferite con queste ridicole pomatine emollienti? Il 21 novembre Montezemolo disse da Fazio (e tutte le testate lo riportarono) che «il Governo è un cinepanettone ai titoli di coda». Bell’immagine. Ma com’è che in Italia sottoprodotti come i cosiddetti “cinepanettoni” sono campioni d’incassi? Sarà colpa, anche questa, di Berlusconi? O non sarà piuttosto vero che – con duro realismo – ogni popolo ha il Governo che si merita? Giuseppe Prezzolini scriveva, nel Codice della vita italiana, che «l’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l’Italiano in generale ha della furbizia stessa, alla quale principalmente fa appello per la riscossa e per la vendetta». Nessuno che pensi che Prezzolini parlasse esclusivamente delle personalità politiche del teatrino di Montecitorio darebbe ragione al suo pensiero. Continua così: «Nella famiglia, nella scuola, nelle carriere, l’esempio e la dottrina corrente – che non si trova nei libri – insegnano i sistemi della furbizia. La vittima si lamenta della furbizia che l’ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un’altra occasione». Era il 1921.

Dicono poi che la crisi sia globale: bel colpaccio! Due parole à la page! Se è globale nel senso che “dipende da altri” (preferibilmente dei nemici pubblici condivisibili – almeno si può continuare a fabbricare bandiere!) la nostra contraddizione arriva al grottesco: è la Cina (una volta anche la Russia) o sono gli Stati Uniti, è la Chiesa o sono gli abortisti, “come a voi pare”… tanto per continuare a credere che il mondo va veramente come lo raccontiamo. Le foreste vengono disboscate e noi continuiamo a consumare carta (anche gli ecologisti, i radical-chic, e i marxisti-leninisti – senza dire che c’è proprio di tutto a questo mondo!); il riscaldamento del pianeta aumenta e noi facciamo spavaldamente a gara a chi ha l’“applicazione-condizionatore” sull’I-Phone; le guerre incendiano il mondo, e noi non ci degniamo di considerare gli investimenti che le “nostre” banche fanno coi nostri risparmî. Forse allora è davvero globale, la crisi: globale in quanto ognuno di noi è come un mondo, e questa crisi ci investe completamente, ma di più, sgorga da noi stessi. Basta andare a teatro una sera per capire che non è questione di partiti o di governi: gli attori protestano contro ininterrotti tagli al loro settore da quindici anni a questa parte (e se ne son visti di governi in quindici anni!), e chi dà loro visibilità? Applaudiamo e, parafrasando De Andre’: «Ci costerniamo, c’indigniamo, c’impegniamo e…», per finire, «gettiamo la spugna con gran dignità».

Ma sono migliori dei fantocci che li governano quei loro emuli che speravano di ottenere chissà cosa ieri in piazza? Al prendere contatto con la dura verità, poi, ossia che una manifestazione di protesta disturba il Governo poco più di una processione religiosa, scatta il “piano B”: «Daje aj sbirri!»… e torna ad aleggiare, dopo quasi quarant’anni, quel sinistro odore di piombo per le strade. È vero che la guerra è parte della politica, e talvolta perfino la guerra civile o la guerriglia possono esserlo. Ma questi tafferugli scriteriati, che c’entrano con la res publica? Ecco chi – e cosa – i nostri Governi (al plurale!) rappresentano.

Continuava, Prezzolini: «La diffidenza degli umili che si riscontra in quasi tutta l’Italia, è appunto l’effetto di un secolare dominio dei furbi, contro i quali la corbelleria dei più si è andata corazzando di una corteccia di silenzio e di ottuso sospetto, non sufficiente, però, a porli al riparo delle sempre nuove scaltrezze di quelli».

Ma che importa? Dove si va quest’inverno? A Sharm-el-Sheik oppure alle Canarie? Come? C’è la crisi? Ah, è vero… allora ci toccherà fare un mutuo. Per forza.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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