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I poeti del Verbo

Malintesi e fraintendimenti prenatalizî: com’è che si fatica a ricordare che Dio è maschio e femmina?

Uno dei più tristi riduzionismi cui il cristianesimo è da qualche secolo ridotto è quello che ne fa una morale, ma anche meno – un’etichetta. Pare che essere cristiani significhi anzitutto e per lo più “comportarsi in un certo modo”. L’impasse perdura dallo sbriciolamento delle prodezze barocche, con qualche eccezione che non c’interessa ora considerare. Vorrei soltanto soffermarmi su un versetto della Lettera di Giacomo, che normalmente viene tradotto con: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (1,22). L’impasse di cui dicevo prima è particolarmente evidente nella prima parte del versetto, mentre la traduzione della seconda parte è sostanzialmente pulita: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola» manca invece di sottolineare due delicatezze del testo greco. La prima è questa: “quelli che mettono in pratica” è scritto con un unico termine – “poiétai” – che ha la stessa radice dell’italiano “poeta” e indica un modo di “fare” a metà tra il “do” e il “make” dell’inglese, e in qualche modo vicino al senso della creazione artistica. È qualcosa di più del lavoro dell’artigiano (che in greco si chiama “téchnos”): è un “fare” che mette in ciò che viene fatto una parte di sé – in questo evoca la creazione e tutto ciò che ad essa è correlato.

La seconda delicatezza che la traduzione italiana generalmente perde è che “siate” non è scritto col verbo essere, bensì col verbo “diventare” (“gìnesthai”): questo “plasmare il Verbo” non vede il tempo come un fastidioso accidente che “accade” mentre noi facciamo la cosa; no, “plasmare il Verbo” richiede il tempo così come le parole di una poesia richiedono il tempo in cui essere scandite e lo spazio in cui risuonare. «Diventate dunque poeti del Verbo, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi»: questo è dunque il testo che ci interessa, e alla fine del quale Giacomo aggiunge che «nella sua poesia» sarà felice chi offre il proprio tempo paziente a quest’opera.

Facciamo un salto altrove, ci servirà: «Perché nessuno capisce, nel cattolicesimo, che Dio è maschio e femmina?». Questa è una domanda che mi è stata rivolta tempo fa. «A dire il vero – ho risposto – molte pagine della Scrittura raccolgono questa intuizione, e in molti modi. I documenti del Magistero ecclesiastico, poi, non hanno mancato di evidenziare opportunamente questi spunti». Mi è stato ribattuto che «non si tratta di “scrivere” e “pensare”… si tratta di “sapere”, di “conoscere il sapore” di quella cosa». Ho dovuto allora dare ragione a chi mi parlava, perché «proprio questo non può essere comunicato né per iscritto né a voce, e quelli che “sanno” sono più di quelli che sospettiamo».

In un passo del Siddharta di Hesse il giovane principe osserva al grande Buddha: «La tua dottrina è perfetta. L’unica cosa che essa non contiene è il segreto della tua illuminazione». È vero che non esiste vita spirituale “senza maschio e femmina”, e che l’istante del loro incontro è irriducibile a ogni definizione (la vita sottrae quel momento all’osservazione dell’intelletto): il Figlio di Dio, nella Scrittura, chiama “la Parola” che Dio rivolge al mondo “sperma” (Lc. 8,11), ed è chiaro che ciò in cui essa cade dev’essere un elemento dotato di ricettività e fecondità femminili. Questo elemento, in ogni uomo, è l’humus della personalità arricchita dalle esperienze; è la storia personale in cui va a collocarsi il seme maschile della Rivelazione, audace e pro-vocante, per innescare di lì un processo di per sé destinato ad avanzare al di là delle intenzioni iniziali dell’accogliente humus. Ecco perché Paolo aveva inteso che «la lettera uccide; lo Spirito invece dà la vita» (2Cor. 3,6). Il maschile senza femminile è Marte senza Venere, ossia guerra senza pace, morte senza vita: «La lettera uccide». Lo Spirito è però per Paolo ben più del semplice femminile: lo Spirito è il segreto in cui avviene l’incontro del seme con la terra, ed è quel mistero che tiene saldamente unite la verità del contatto che si stabilisce con Dio e l’autentica valorizzazione del proprio apporto personale all’appello rivelativo di Dio.

È una religione infedele quella che ha così tanta ansia di omologare le esperienze di fede da trascurare che non s’è mai visto un seme germogliare fuori dalla terra, e c’è una tendenza nelle fedi (tendenza che potremmo chiamare “della mantide irreligiosa”) per la quale si forza l’elemento maschile a divorare quello femminile. Questa religione è, in definitiva, assassina (e prima di ammucchiare i cadaveri ammucchia le coscienze in un’indegna dabbenaggine spirituale).

Che c’entra però tutto questo con il diventare poeti del Verbo? Il fatto è che la “tendenza della mantide irreligiosa” rischia di spaventare le personalità dalla vivace recettività; così c’è il pericolo che anche l’autentica fecondità di tante persone (arricchite da molte e varie esperienze) venga lasciata a sfiorire in una sterilità indotta. La fede non può non avere il coraggio di pensarsi, e di farlo essendo accoglienza e custodia originale di un seme che non autonomamente ci si dà. Per questo motivo il celebre paragrafo di apertura della Costituzione Pastorale del Concilio Vaticano II ricorda che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). Proprio perché ogni uomo scopre, nel proprio femminile fecondato, che uno solo è il seme (che si è manifestato in sfolgorante pienezza nella persona di Gesù), il decreto sull’attività missionaria della Chiesa incoraggia i cristiani a sporgersi oltre i confini delle loro proprie culture di partenza, «lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti» (AG 11). Cristo si rivela come «la stella, quella luminosa, quella del mattino» (Apoc. 22,16) – ossia come ciò che è già presente come promessa di un fulgore sempre incomparabilmente maggiore.

Quando dunque i poeti del Verbo s’incontrano scoprono di recare nel proprio intimo (pur così radicalmente diverso da quello altrui) la medesima gravidanza divina, quando un araldo della verità viene a dir loro che «la verità germoglia dalla terra» (Sal. 85,11): per questo, infatti, il Figlio di Dio aveva ribattuto – a chi proclamava beato l’utero di sua madre e i suoi seni, che lo hanno portato e nutrito (Lc. 11,27) – che quindi sono beati «quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc. 11,28). Ora, qui sciupiamo del parole del Salvatore se ci limitiamo a intendervi che a quelli che “si comportano bene” (perché “ascoltare la parola di Dio e osservarla” significa, nell’omelia media, “fare i bravi”) Cristo vuole bene “come a sua madre”! Gesù ha detto, invece, con la radicalità che ama dare a certi temi, che «chiunque fa la volontà» di suo Padre (ecco l’“ascoltare la parola di Dio e osservarla”), letteralmente “è” per lui «fratello, sorella e madre» (Mt. 12,50). Il mistero di Dio è tale che, se la nostra debole umanità viene da molte simbologie ricondotta al femminile/vulnerabile/passibile/accogliente/capace, nondimeno essa non è destinata a restare semplicemente “sposa”: il Cristo è la parola/seme che feconda, ma si fa pure la carne/frutto che dalla terra (ossia da una vera e concretissima umanità) germoglia e cresce fino a maturità.

Due poeti del Verbo che scorgono l’uno nel fondo dell’altro il frutto del seme divino sono in qualche modo più vicini di quanto siano state Maria ed Elisabetta nel loro incontrarsi: pur nell’intuizione giubilante della perfetta armonia della proposta salvifica di Dio, entrambe avvertirono che i loro figli sarebbero stati individui ben distinti, peraltro provenienti da storie ed eventi incommensurabili (sebbene paralleli!). I poeti del Verbo, invece, che colgono nel fondo dell’altro il feto di Cristo restano a contemplare quella stessa persona che anch’essi accolgono e custodiscono. Nient’altro faceva Paolo, quando scriveva ai Galati che si contorceva nelle doglie, “finché non si fosse formato Cristo in loro” (cf. Gal. 4,19).

Essere figlie, spose e madri di Cristo: questo è ciò che è proposto a ogni uomo quando lo si invita a diventare poeta del Verbo. Chiaro che non ci sarà posto per alcun’ombra in chi diventa madre della Luce vera, ma ridurre il cristianesimo a etichetta è tanto distante dall’incontro con Dio quanto è abissalmente diverso chiedere a una donna di sferruzzare tutine da neonati o donarle di donare a noi e al mondo un figlio.

All’inizio della Messa di Natale si canta (meglio, si dovrebbe cantare): «Un bambino ci è nato, e un Figlio ci è dato». Il tempo di Natale è tempo in cui ci si ripresenta l’urgenza di diventare poeti del Verbo e madri di Cristo.

Foto: Giancarlo Rado (http://www.flickr.com/photos/23868213@N03/3133519453/)

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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