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Penuria di somari

L’emergenza educativa in un film contemporaneo e in merito a feconde simbologie archetipiche.

L’effetto più sicuro e forse duraturo dello star system del nostro mondo è probabilmente il culto della personalità: raschiando via un po’ di finezza nel giudizio si può senz’altro dire che quando le ragazze diventano anoressiche, i ragazzi dopati, i cosiddetti “adulti” depressi, siamo di fronte ad effetti del gran culto della personalità che ci è in qualche modo imposto. Non possiamo parlare di malati e tantomeno di anziani, di bruttezza e di deformità, perché tutto questo non è che un’imbarazzante anomalia del sistema; tanto più, però, si potrà ravvisare anche in ciò un corollario del “teorema della personalità (forte e vincente)”. Generazioni e generazioni, affette dalla “sindrome del pioniere” e dalla “mania del fondatore”, hanno prima scoperto di essere «la generazione di mezzo della storia» (così Chuck Palahniuk in “Fight Club”), quindi sono per tal via entrate in un’autentica crisi – una crisi “globale” quanto lo erano nel buon vecchio continente (quando l’Europa era un mondo) le periodiche epidemie di peste.

Critici del peso e del calibro di Fabio Ferzetti hanno trovato più di un pelo (vedi link) in “La bellezza del somaro”, l’ultimo uovo di casa Mazzantini-Castellitto (www.labellezzadelsomaro.it); ma anche questi devono confrontarsi – come tutti i loro colleghi – con la figura del critico di “8 ½”, che della categoria denuncia ferocemente l’irritante autoreferenzialità: sarebbe ad esempio da capire cosa vuol dire che «la commedia è arte del togliere, non dell’aggiungere». In realtà, l’ultimo film di Castellitto è una commedia solo in quanto è un dramma: lo stesso Enzo Jannacci (straordinariamente coinvolto nel cast, e per una parte centralissima) ha detto con Molière che «un comico come Castellitto è un tragico visto di spalle» (leggi l’intera intervista). Vero, tuttavia, che il tema è particolarmente ricorrente, nel cinema degli ultimi anni: se si pensa anche soltanto a “Il grande sogno” di Michele Placido e a “An education” di Lone Scherfig (entrambi dell’anno scorso), si possono registrare due dati importanti. Il primo è che l’argomento educativo si pro-pone precisamente come una “emergenza” (un qualcosa che emerge), e in questo non si può dimenticare l’italianissimo quanto amaro “Ricordati di me” di Gabriele Muccino (2003). Il secondo è che sembrano timidamente annunciarsi tempi di una lettura più serena e meno ideologica del fenomeno ’68: le ragioni, le utopie, le perversioni e le malizie di chi – per dirla con Vasco – «voleva / al potere la fantasia» appaiono investigabili al riparo dalle già feroci lame di letture faziose.

La deriva verso i Quarant’anni tratteggiata una decina d’anni fa dai tentativi cinematografici di Luciano Ligabue era forse un pre-sintomo di questi movimenti: l’emergere congiunto dei due temi mostra delle tracce di contatto, se non altro tra i conflitti generazionali vissuti dalla generazione di Castellitto in rapporto ai genitori e quelli “subiti” dalla stessa generazione in rapporto ai figli. «Quanno eravamo fiji noi i fiji non contavano ‘n cazzo, adesso semo genitori e non contano ‘n cazzo i genitori. È ‘na ruota…»: è la rude sintesi, non priva di una qualche vis comica, che un personaggio propone all’osservatore a buon punto della pellicola. La scommessa è riuscire a raccontare la sconfitta che accomuna le due generazioni in modo da porre delle basi fattive per una valorizzazione dei guadagni oggettivi: per fare questo serve però un osservatore quanto più possibile irriducibile alle forze in campo. Ecco allora fare capolino la fascinosa figura di Armando: una personalità da culto, sì, ma non presentata nella smagliante sagoma di un giovanotto, bensì da quella di un settantacinquenne. Armando è il personaggio che recita pubblicamente la parte del deus ex machina, e lo fa restando ambiguamente invischiato in un amore che è al tempo stesso sublime e meschino: “un serpente”, si definisce, che si carica archetipicamente di ogni biasimo, ma che ha il gran privilegio di poter sgusciare via dalla propria pelle e ricominciare daccapo. Armando è, al suo comparire nella storia, un nonno che dà a “una nipote” la solidità defraudatale dall’abdicazione pedagogica dei genitori, e lo fa nella forma di una singolare relazione amorosa; diventa sul finire il genitore del genitore, che nel frattempo ha mostrato le proprie ferite e ha cominciato a prendere coscienza della propria identità e del ruolo ad essa identità connesso. In questa e in altre evoluzioni dei personaggi c’è – effettivamente – qualcosa d’incompleto, di scricchiolante, ed è difficile dire se manchi semplicemente un dettaglio didascalico o un che di più sostanzialmente caratteriologico: come si fa poi a spiegarsi che il giovane Luca, da principio oppiomane tendenzialmente narcolettico, di punto in bianco viene ritrovato in una chiesetta di campagna lungo la Via Francigena, in ginocchio davanti a un’icona mariana?

Il nome di Dio non compare spesso nei testi, e tuttavia (come è tipico di Castellitto) la scarsezza dei numeri di statistica non toglie peso alle parole che ci sono: prima dei colori caldi della chiesetta con Luca in sosta dal Cammino per Santiago, proprio all’inizio del film si celebrava un funerale nella chiesa romana dedicata al “Dives in misericordia”. Quando poi proprio Luca (il “nuovo” Luca) chiede a Rosa (la ragazza): «Com’è stare con un nonno?», si sente rispondere: «È fico… è come Dio»; il nonno, da parte sua, restituendo alla giovanissima ragazza la propria indipendenza affettiva le dice: «Ecco perché stavi con me: ti piacciono i rifugî estremi!». Ma rifugî da cosa? Semplice: secondo Armando il problema sta principalmente nel fatto che «non ci sono più maestri; solo specialisti di settore». L’enigmatico “somaro” del titolo non è altro che il simbolo del maestro: paziente, silenzioso, operativo, dolce e pieno di fascino – di questo c’è tanto bisogno che una giovane (è parte della tesi del film) può perdere la testa per chi, anche se «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is. 53,2), emana la vibrante percezione della pacata ragionevolezza del tutto. Si può quindi ravvisare una profonda differenza tra gli asini e i somari: i primi sono in tutto simili ai secondi, ma dei secondi il nome dice che “portano la soma” – il somaro è un maestro, che ha l’umile e paziente forza di “sostenere il peso della vita”, mentre i professori e gli “esperti di settore” non sono che asini qualunque.

Un tale personaggio – un maestro – avrebbe del somaro la costanza nel lavoro, l’umiltà, il nascondimento; queste cose però restano le vere, come pure resta difficile gravitare attorno a questo personaggio senza temere di essere giudicati. Un simile maestro, in fin dei conti, dispiega il suo potere nel far sentire intorno a sé il semplice battito del “cuore universale”: in presenza di un cardiologo e di un architetto affetto da piccole aritmie cardiache, allora, le situazioni si complicano fino a sboccare nel parossismo di un’autentica “terapia di gruppo” (ma si direbbe forse meglio “colloquio socratico”). In un contesto in cui “le guide” (genitori assuefatti alla loro irrilevanza) hanno per massima educativa l’accettare, il somaro è la sorniona epifania della sussistenza delle differenze: tutto può essere accolto, ma non senza uno stile personale e deciso, e questo stile è la cartina di tornasole dell’autenticità di certi modi di vivere e dell’inautenticità di certi altri (mai però condannati apertis verbis!). A questo punto, tra la soddisfazione e lo sgomento, ricevere il primo schiaffo da un padre diventa una cosa invidiata, e l’invisibile assenza del padre del padre viene ancora una volta sanata in radice da Armando, che si premura di schiaffeggiare paternamente il padre di Rosa. A questi la figlia aveva dapprima, in un momento d’esasperazione, rivolto la domanda decisiva per l’identificazione di entrambi i ruoli: «Ma tu chi sei?».

Essere ammiratori, innamorati, seguaci o perfino apostoli di un maestro di tale sublimità, che «prese la terra per mano», è uno stato sempre soggetto all’incomprensione e allo scherno (si basti pensare all’accusa di onolatria spregiativamente rivolta ai cristiani nei primi secoli); il fascino immortale di un simile tipo di persone, però, sembra essere l’unica possibilità che pare intravedersi in risposta all’emergenza educativa – il mondo soffre per penuria di somari.

Foto: graffito caricaturale, rinvenuto sul colle Palatino, in cui i cristiani venivano derisi per la presunta ridicolaggine della loro fede (http://it.wikipedia.org/wiki/Onolatria).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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