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«…qui natus hodie»

Bagliori di luce eterna nella necessaria guerra attorno alla mangiatoia. Il mistero del Natale.

È davvero «segno di contraddizione» (Lc. 2,35) quello che è nato oggi: una volta di più, all’ombra delle fioche luci degli addobbi, si scontrano senza esclusione di colpi la retorica del Natale, l’anti-retorica del Natale, la retorica dell’anti-Natale e l’anti-retorica dell’anti-Natale. Ripassiamole con ordine: la prima è quella che si riempie la bocca dell’importanza della famiglia, del cenone, del comportarsi bene; la seconda è quella che critica la prima, ricordando affettatamente che «il Natale è ben altra cosa!» (non di rado tralascia di spiegare che cosa); la terza è quella che (ancora) rimesta rabbiose sciocchezze sulla presunta insulsaggine di una festa che si vorrebbe essere stata introdotta nel calendario per soppiantare consolidate feste pagane; la quarta è quella che ostenta un sonoro disinteresse per tutto ciò che significa “Natale” seppellendolo sotto un’eloquente montagna di silenzio.

Evidente che non se ne viene fuori: in un quadrato composto da due contraddizioni incrociate, ognuno dovrà in qualche modo ricadere su uno dei quattro lati or ora delineati. Allora, per esercitare un minimo d’onestà intellettuale, diciamo subito che noi cerchiamo di schierarci nella seconda truppa, con moderazione però: il Natale sarà pure “ben altra cosa” rispetto a ciò che viene decantato o condannato, ma vogliamo provare a dire qualcosa di questo “ben altro” senza ricadere nella trappola delle nostalgie e degli isterismi moralistici. Cominciamo a tener fede a quest’intenzione proprio mentre diciamo che non è male che vi sia tanta guerra attorno alla mangiatoia di Cristo: certo, nessuno vorrà dire che la guerra è un bene (anche se l’oscuro Eraclito, in altri contesti, si spinse a tanto), e tuttavia ci ricordiamo che la prudenza consigliò a Tommaso d’Aquino di ritenere che “non è un male, che vi sia il male”. Le melasse del nostro fraseggio natalizio medio sono totalmente estranee a queste considerazioni, ma pre-dire oggi che «egli sarà segno di contraddizione» significa precisamente anticipare ciò che Gesù stesso dirà in merito al suo non essere venuto «a portare la pace, ma la spada» (Mt. 10,34).

Vale a dire che è perciò necessario che ci sia quest’infinita diatriba di chiacchiere umane al centro della quale giace ormai inerme l’infinita Parola di Dio, confinata per sempre nella carne: «Dio ha scelto le cose che non sono – lumeggerà Paolo – per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor. 1,28). “È necessario” che gli uomini si facciano guerra davanti alla culla del Figlio di Dio, come “è necessario” che il Figlio di Dio patisca e muoia per entrare nella sua gloria (Lc. 24,26), e come “è necessario” che avvengano degli scandali (Mt. 18,7). I misteri dell’annientamento di Dio in Cristo (cf. 2Cor. 8,9) e della libertà che gli uomini hanno di diventare ricchi della povertà di Dio (o no) sono saldamente congiunti in un nodo inestricabile. Questo lo sapevano bene innumerevoli generazioni di cristiani (che forse non leggevano le Scritture ma certamente “sapevano” il cuore del Vangelo), abituate com’erano a riconoscere nelle fasce del Dio-bambino le bende del Cristo crocifisso e sepolto, nonché ad affrescare e dipingere la mangiatoia a forma di sepolcro. Del resto, quando sant’Alfonso stese il testo di “Tu scendi dalle stelle”, forse scrisse: «Perché tanto patir / per amor mio?», solo pensando alla paglia della mangiatoia?

Se questa è la notte in cui diciamo essere nato “il Salvatore” (Lc. 2,11), di certo in questa notte ci sarà qualcosa di ciò per cui Gesù è – appunto – “il Salvatore”, ossia la sua Pasqua. Visto che questo è normalmente un tema tanto importante quanto trascurato, ho pensato di farci accompagnare nella nostra conversazione da un poco conosciuto capolavoro della musica corale natalizia contemporanea: “Christus est” fu scritto da Domenico Bartolucci durante un viaggio in treno. Tanto essenziale nel testo (e nella melodia) quanto riccamente ricamato nell’armonia polifonica, il brano presenta come degli squarci di presepe, indugiando nella riflessione musicale sopra poche densissime frasette. Nell’esecuzione che vi propongo (diretta dallo stesso Bartolucci e impreziosita da una nostra lettrice!) mancano due strofe (quelle che nel testo – clicca link – trovate tra parentesi quadre).

A metà della prima strofa risuona la parola più indefinita e misteriosa – “hodie/oggi”. Certo Cristo è nato più di venti secoli fa, e Maria non lo ha partorito che una sola volta: in che senso, quindi, è sensato e corretto (nonché doveroso) riconoscere che “è nato oggi”? In parte lo abbiamo già visto (clicca link) considerando un aspetto della provocante avance che nel Natale viene fatta a ogni uomo, ma dovremo ancora tornare, e più dettagliatamente, sul senso dell’eventualità liturgica. Questo neonato, che «è il Cristo» (si tratta di un predicato, non di un nome!), detiene la regalità su tutto ciò che la parola “cielo” evoca, e lo fa in forza della sua origine arcana.

Il ben noto canto degli angeli, nella seconda strofa, ricorda che in quel nodo che dicevamo sopra sono indissolubilmente connesse anche la gloria di Dio e la pace degli uomini: il fatto che il senso del genitivo “bonæ voluntatis” sia un rebus non autorizza a rendere autonoma la pace degli uomini dalla gloria di Dio. Anzi, come “l’audacia di Dio” (l’espressione, indiscutibilmente gagliarda, è di Benedetto XVI) sta nel fatto che in Cristo la prerogativa più propria di Dio viene legata all’instabile fluttuazione delle concordie umane, così l’arditezza della fede (che all’audacia di Dio corrisponde) è quella che riconosce che la pace degli uomini non sta in nient’altro che nella gloria di Dio. Questo, certi cristianesimi tendono a scordarselo.

La difficoltà della resa della terza strofa è tutta nella parola “verbum”, che può dare adito a tre diverse traduzioni, in italiano: la prima si riferisce semplicemente alla parola dell’angelo che invia a Betlemme; la seconda, secondo un uso giudaizzante del sostantivo, può riferirsi direttamente a ciò che la parola indica, ossia all’evento stesso; la terza, invece, starebbe in una lettura propriamente cristologica della parola “Verbo” (secondo il Prologo di Giovanni, per intenderci), ma Bartolucci ha scritto la parola con la minuscola, quindi questa fascinosa possibilità possiamo risparmiarcela.

La quarta strofa non è nell’esecuzione che vi proponiamo, ma vale la pena soffermarsi anche solo sul testo: a parte il riferimento al “giacere in panni” che, come in “Adeste fideles”, fa riferimento alle già ricordate bende sepolcrali, c’è quella preziosa parola – “iumenta” – a dire chi sono i compagni di Gesù. Non si tratta di semplici “animali”, ma di “animali che portano pesi”: questi, come di recente abbiamo avuto modo di apprezzare (clicca link), sono gli amici dell’Agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo (Gv. 1,29).

La delicatezza della quinta strofa, che ci porta già alle tradizionali ritualità del 6 gennaio, è tutta nella musica, che porta i coristi a ripetere “et mirram ferunt” (“e mirra portano”) in una declinazione meditativa che già butta l’occhio sul cadavere del Figlio di Dio che la mirra ungerà.

La sesta strofa (anche questa assente nella nostra versione) ha la sacrosanta sfacciataggine di declamare a tutta la “Stille Nacht” il peso civile e politico del Messia, cui vengono dati i titoli di “Re dei re” e “principe del mondo”: con buona pace di chi dimentica che il fatto che a Cesare vada dato qualcosa non toglie che a Dio spetta tutto.

Ma è sul finale che il genio poetico di Bartolucci ha concepito per noi la sua perla migliore: la settima strofa è una brevissima stanza di chiusura dedicata proprio alla notte santa. Il verbo con cui si dice il “consegnare” è quello stesso che costruisce la parola “proditor” (“traditore”): ecco che la notte di Natale è misticamente unita (clicca link) alla notte della Pasqua mediante il verbo del tradimento (clicca link). Dio consegna il Figlio, il Figlio consegna se stesso, il Padre e il Figlio consegnano lo Spirito: la storia della salvezza è racchiusa in questo ambiguo verbo come in un seme, di cui va sorvegliato il germinare e lo sviluppo, visto che non ogni tradimento sarà santo e salvifico (si pensi a Giuda). Il fatto è che un modo per raccontare tutto l’evangelo è questa frase di Giovanni, che pone tra gli uomini tutto il necessario perché si salvino, e nulla di tra loro asporta perché non possano ignorare la salvezza, proprio come il Dio-bambino nel presepe: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv. 3,16).

Santo Natale a tutti voi.

Foto: Bradi Barth, Natività.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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