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Seme di cristiani

La paradossale sorgente della speranza per i nostri giorni

Tempo di frasi fatte. Tempo di discorsi superflui. Tempo di “augurî” meccanici. Fortuna che c’è chi inceppa l’abitudinaria macchina del Natale (che non si fermerà comunque prima che siamo tutti grassi e stanchi) e dà rilievo al grandioso fatto che nel calendario liturgico romano una data insanguinata troneggia nel cuore dell’ottava di Natale: onorare la memoria dei “Santi Innocenti” non significa solo commemorare una strage collaterale alla nascita di un bambino e al delirio di onnipotenza di un re, né basta estendere il pensiero anche alle innumerevoli piccole vittime di violenze varie, sevizie, aborto e infanticidio (cosa peraltro doverosa!); una data di sangue nel niveo candore natalizio significa ricordare quella misteriosa ombra d’incomprensione e di persecuzione che il nome di Cristo nella storia porta ben oltre gli eventi di Gesù.

Mentre i pensieri di routine si rivolgono “ai bambini meno fortunati” (è già appiccicosa questa sola litote!), il messaggio “Urbi et Orbi” di Benedetto XVI s’è volto a spendere una parola per i tanti cristiani che nel mondo vengono discriminati e perseguitati in ragione della loro fede. «La celebrazione della nascita del Redentore – ha detto il Pontefice – rafforzi lo spirito di fede, di pazienza e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza» (Benedetto XVI, Messaggio “Urbi et Orbi” per il Natale 2010). Tutto il mondo, più o meno “civile”, ha immaginato i grigî burocrati del governo pechinese pronti a oscurare con un click le trasmissioni natalizie casomai si fosse avvertito nell’aria qualche accento appena alludente a simili cose: il cannone digitale ha fatto fuoco, e nessuno – in tutta la Cina – ha potuto sapere che “il Pescatore” faceva loro coraggio. “Fede”, “pazienza”, “coraggio”! Che temibili armi di lotta politica! Vengono in mente i versi con cui si apre l’inno che in tutta la Chiesa si canta ogni sera dall’Epifania al Battesimo del Signore: «Hostis Herodes impie, / Christum venire quid times? / Non eripit mortalia / qui regna dat cælestia» [«Erode, empio nemico, / perché temi che il Cristo venga? / Non espugna i regni mortali / chi fa dono dei celesti»].

Ecco dove corre la finissima posizione cristiana quanto alla persecuzione subita: non la si cerca, non la si scansa; non se ne riconosce la legittimità, non se ne nega la salvificità. Fin dalle prime persecuzioni, le testimonianze letterarie prodotte dal genio cristiano si sono articolate in due generi ben distinti: mentre si protestava di fronte ai detentori del potere pubblico l’innocenza dei cristiani (con il genere dell’apologia), a quanti di questi si trovavano in situazione di persecuzione si prospettava (con trattati dal titolo variamente simile a “De martyrio” o “Ad martyras”) il grande vantaggio di poter completare in modo eccezionale l’imitazione di Cristo (tanto che quanti sopravvivevano agli strumenti mortiferi venivano ritenuti atti a celebrare l’eucaristia anche senza essere insigniti dell’ordine sacro). Il cuore della discussione è un evento storico che le categorie mondane possono afferrare solo parzialmente: questo evento infatti non accade con intenti politici, eppure parte dei suoi effetti investe senza scrupolo l’ambito politico.

È lampante l’abisso che separa il martirio del cristiano da quello, fanaticamente ricercato, del jahadista musulmano: nel primo si rivela l’amorosa speranza in un amore che si ritiene non poter deludere la fiducia confessatagli; nel secondo si manifesta il disperato tentativo di superare l’angoscia della parzialità e l’insidia dell’alterità, nonché quello, umanissimo, di aprirsi forzosamente una via di fuga verso ciò che tutti gli uomini desiderano.

Lo scenario permane quasi inalterato, da quando Tertulliano scriveva ai detentori del potere nell’Impero romano: «Non giova a nulla la più raffinata delle vostre crudeltà, anzi è piuttosto un’attrattiva verso la Chiesa: ogni volta che siamo da voi mietuti diventiamo più numerosi, perché il sangue dei martiri è seme di cristiani» (Apologeticus, 50). Ora, però, va riconosciuto che le ragioni di questo pensiero non sono verificabili che su larga scala, sia spazialmente sia temporalmente: negli anni ’90 del XX secolo i cristiani in Iraq erano circa un milione, e dopo soli vent’anni, spinti dalle persecuzioni violente e da quotidiane discriminazioni sociali, sono scesi a poco meno della metà. La risonanza che notizie come quella del massacro del 30 ottobre (nella Chiesa della Madonna del perpetuo soccorso a Baghdad) hanno in Occidente è minima, e non c’è bisogno di ricorrere, per spiegarcene la ragione, a rancorose congetture su presunte lobbies panarabe che comprerebbero il silenzio dei nostri giornali. No, più semplicemente è l’Occidente stesso che secerne in questo silenzio il fiele di un secolare risentimento verso la cristianità, dominante nel suo passato: dire ora che questo silenzio sega il ramo sul quale esso sta seduto da sempre è in parte degno della finezza concettuale di un talebano. Tuttavia, il declino appare in atto, e non s’intravede chi sappia fornire un tempestivo antidoto: «Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso». Così Benedetto XVI incontrando i membri della Curia Romana lo scorso 20 dicembre, e se vi sono provvedimenti che solo a quella particolare società che è la Chiesa spetta prendere, tutta la società è però investita dalla responsabilità di ricercarne con onesto vaglio critico le cause.

È in parte un cane che si morde la coda, perché il vero male è che non c’è la forza di ricercare le cause: c’è chi si concentra sulle numerose ideologie affastellate negli ultimi quarant’anni di storia del pensiero, c’è chi si richiama ai secoli precedenti, e come in ogni emergenza che si rispetti i risultati saranno verificati nella loro efficacia “dopo”.

Ciò che resta è lo sbalorditivo impatto che sempre può generare e genera la particolare pertinacia di chi conosce un amore vero, e per quello sa vivere e morire. «Quella stessa ostinazione che ci rimproverate – concludeva Tertulliano – fa da maestra. Chi, infatti, considerandola, non si sente scosso a ricercare che cosa ci sia in fondo alla cosa? E quando ha indagato, chi non vi accede? E quando vi è acceduto, chi non brama di patire, per esperire la pienezza della grazia di Dio, per ottenere intero da lui il perdono a prezzo del proprio sangue?» (Apologeticus, 50). Questa striscia purpurea è la più consona decorazione del bianco natalizio, ed è l’unica cosa che – paradossalmente – permette a una civiltà di sperare.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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