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La frequenza dell’eterno

Dalla festa che “tutte le feste presenta già” fino alla spirale che lega finito e infinito

Curioso, no, che si soglia dire, dell’Epifania, che «tutte le feste porta via»? A parte, infatti, che il tempo di Natale non termina con la solennità dell’Epifania ma con quella del Battesimo del Signore, c’è che il proverbio – una volta tanto – si sbaglia così di grosso che dice l’esatto contrario della verità: c’è una ragione per cui l’Epifania, anzi, “tutte le feste presenta già”, e di questa vogliamo occuparci per spendere finalmente due parole sul senso della liturgia (i lettori più affezionati ricorderanno quante volte abbiamo dovuto rimandare a oggi questi argomenti).

L’argomento è letteralmente incircoscrivibile, ma quello che è necessario dire perché ci si faccia un’idea può essere riassunto così: da relativamente poco tempo (poco più di un secolo) la “liturgia” è tornata in auge come problema sia accademico sia “pastorale” (parola con cui i preti sono soliti indicare ciò che riguarda veramente tutta la Chiesa), e con decennî di meticolosi studî, grandi incomprensioni e (per alcuni) indicibili sofferenze, s’è preparato quello che doveva poi germogliare nel Concilio Ecumenico Vaticano II e portare frutto nei tempi a venire. Quando si pensa, ora, a quello che “liturgia” vuole significare nella mens del Concilio, difficilmente ci si può figurare le pazienti ricerche di Odo Casel, e tantomeno i gruppi di universitarî radunati attorno a Romano Guardini: a mezzo secolo da quel grande evento ecclesiale (un soffio, nel tempo della Chiesa), ciò che resta del grande concetto di “actuosa participatio” [“prendere parte in modo attivo”] è di rado più che uno striminzito “sentire la messa in italiano. Su questo misero margine di comprensione i più si scannano, temendo ritorsioni restauratrici o progressismi scriteriati. Perdere la percezione del punto di partenza, in simili frangenti, aiuta a restare calmi tanto quanto il ritrovarsi lo sterzo staccato dalla vettura mentre si è ad alta velocità.

La seconda nota da fare, per risultare (si spera) succinti e compendiosi, è questa: al centro della polemica – anche se non a sua origine – si stagliano le scelte liturgiche di Benedetto XVI, accusate o difese a spada tratta. Per quello che posso capire della situazione, e contando che saranno i secoli a venire a dare giudizî più autorevoli su ciò che costituisce la nostra cronaca quotidiana, il Papa cerca propriamente d’illuminare ciò che “actuosa participatio” significa, ricordando che la liturgia «è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d’anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenerla attraverso un’adeguata formazione» (Costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” sulla Liturgia, 14).

Ma che significa “liturgia”? Alla lettera la parola sta per “azione del popolo” (un popolo ordinato e strutturato, non Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo), e questo può bastare se bilanciamo la gerarchizzazione intrinseca alla struttura ecclesiale con la consapevolezza che “fedeli” indica – nell’uso canonico – tutti i discepoli di Gesù Cristo senza distinzioni di grado e ufficio. La liturgia è quindi quella «prima e indispensabile fonte» dalla quale tutto il popolo cristiano (quello di cui parlavamo all’inizio dei nostri colloquî in merito alla “collezione” raccolta trasmessa) attinge ciò che lo fa essere ciò che è. La liturgia è la prima delle cose che fanno di un popolo la Chiesa: è chiaro che le sfumature che è possibile dare a questi concetti sono innumerevoli, e per provare a chiarirci è necessario tornare più decisamente a ciò che significa “actuosa participatio”, dove il proverbio da cui eravamo partiti potrà – rovesciato – venirci in aiuto.

Perché ogni anno, a Natale, capita di sentirsi chiedere da un bambino (meno male che ci sono loro a fare domande!) se Natale vuol dire che è il compleanno di Gesù (e nel caso quanti anni ha!?), o se Gesù nasce di nuovo (e nel caso come e dove?!). Le domande sono così naturali che, in un certo senso, esse disvelano tutte un lembo di ciò che ci copre la verità delle cose; d’altra parte esse sono tutte già in partenza fuori strada, perché non si tratta del solo Natale, né di una qualunque altra festa in particolare, ma più fondamentalmente del senso del celebrare più e più volte – in un ciclo indeterminato – un qualcosa di già accaduto in una pagina della storia umana. Ecco, in questi problemi s’intravedono le due grandi istanze della modernità che tanto hanno contribuito a scatenare quella valanga che agli inizî del XX secolo fu il “movimento liturgico” di cui dicevamo poco fa: la prima è la constatazione del “grande, spaventoso abisso” (Reimarus) spazio-temporale tra Gesù, profeta galileo attivo in Palestina nel I secolo dell’“era comune”, e tutta l’umanità (lo stesso abisso che c’è, del resto, tra noi e un Giulio Cesare qualunque). La seconda è la necessità di poter accedere a quello stesso profeta galileo attivo in Palestina nel I secolo, dal momento che – in una dimensione totalizzante della vita, che si chiama “fede” – lo si riconosce “Cristo” (ossia rilevante per la salvezza di tutti e di ciascuno). Detto in soldoni, posto un “grande, spaventoso abisso”, e posta pure la “necessità” di scavalcarlo, un ponte deve esserci, perché Cristo non può salvare nessuno se non può essere contemporaneo di tutti e di ciascuno.

Durante le celebrazioni eucaristiche della solennità dell’Epifania, viene cantata dopo il Vangelo una breve ma densissima sequenza chiamata “Annunzio del giorno di Pasqua” (clicca link per il testo completo). In questo testo, tutto ciò che ho tentato d’illustrare trova il suo fondamento e senz’altro la sua chiarificazione.

Il primo paragrafo riassume il problema che dicevamo or ora, evidenziando i tratti della sua soluzione: il manifestarsi storico continuo della “gloria del Signore” è “la prova” della possibilità di accedere a Dio a partire dal tempo, per così dire di “sintonizzarsi con la frequenza dell’eterno”. Ciò che si fa nella liturgia è insieme “ricordare” e “vivere” gli eventi salvifici della vita del Cristo – quegli stessi che ci sono trasmessi dalla comunità dei credenti attraverso le epoche. “Vivere” i misteri di Cristo non significa un vago e sdolcinato “portare nel cuore”, ma una reale e misteriosa partecipazione all’esperienza di Gesù.

Col terzo paragrafo si dice finalmente come questo avviene, o meglio in forza di cosa: la Pasqua di Gesù è tutto e solo ciò che la Chiesa celebra nella propria poetica liturgica. Ogni domenica, infatti, si celebra ininterrottamente dai tempi apostolici il memoriale ciclico della Pasqua: il fatto che abbiano lasciato sette giorni tra l’una e l’altra (mica erano obbligati a farlo!) è segno della comprensione della rilevanza che la Pasqua di Gesù – «questo grande evento»! – ha rispetto alla fondazione di tutte le cose (la creazione), e alla loro trasposizione in Dio.

Posta questa premessa, il resto segue senza scossoni: «dalla Pasqua scaturiscono tutti i giorni santi», che sono come il dispiegamento temporale delle sfaccettature di «questo grande evento». Il secondo derivato è semplicissimo per chi è riuscito a seguire la logica del testo fino a questo punto: nella gloria di Maria e di ognuno dei santi, come pure nella speranza che i fedeli vivi nutrono per la sorte dei fedeli defunti, nient’altro viene celebrato che la Grazia del Redentore, il quale « ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo» (2Tim. 1,10).

Sul chiudere, prima dell’appassionata lode all’invisibile eppure indubitabile signoria di Cristo sul tempo e sulla storia, la Chiesa professa una delle cose più vere che essa sa di sé: si riconosce pellegrina, girovaga di quelle realtà di cui il suo Signore e Sposo è l’astro fermo. Così, nella liturgia, i credenti condividono il girare in tondo di tutte le cose (cf. Qo. 1,6), il quale però per loro non è motivo d’inguaribile frustrazione: è come se, in realtà, l’irrompere di Dio nel mondo trasformasse l’anello sordo del tempo in una spirale che, a ben guardarla, mentre gira sale. Ecco cos’è quest’opera del popolo di Dio (semplicemente impossibile se non a partire dalla grazia divina): una scala a chiocciola in cui la ripetizione dell’identico non è un mero déja-vu ma la ricerca costante (“actuosa participatio”) della frequenza dell’eterno.

Foto: interno del faro di Sainte Marie de Ré, Poitou-Charentes, Francia (http://www.flickr.com/photos/lorensand/488671100).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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