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L’abito sporco

In bilico tra lo zelo e lo scandalo: la “tentazione pia” della Chiesa

Sono sicuro che durante le ultime due conversazioni (La frequenza dell’eterno e «Intimamente connessi») almeno qualcuno, tra voi lettori, avrà borbottato: «Ma di che sta parlando questo tizio? Le cose che dice saranno pure belle e ben scritte, ma che hanno a che vedere, sul serio, con la liturgia?». Lo capisco bene: il collegamento tra una cosa che viene normalmente esperita come asettica e noiosa e una che nutre l’immaginario comune di immagini vivide e sensuali è tutt’altro che scontato. E tuttavia l’abbiamo fatto, per le ragioni che abbiamo passato in rassegna nelle ultime due settimane. Ora, però, bisogna spezzare una lancia in favore di chi ha borbottato. Sì, perché anche chi ha borbottato ha le sue ragioni: effettivamente, seguendo quei discorsi così spiccatamente “estetizzanti” e dai rimandi un po’ “criptati”, si aveva ben ragione di chiedersi chi potesse mai accedere a tanto sublime patrimonio. Mi spiego: è evidente non solo che la presidenza di una celebrazione liturgica è normalmente ben lungi dal saper introdurre a tanta contemplazione, ma pure che la partecipazione dell’assemblea non è – normalmente – superiore alla “prestazione” del presidente d’assemblea (e non c’è molto da meravigliarsene, visto che un sacerdote viene scelto – riconosce già la Lettera agli Ebrei – «fra gli uomini […] per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» [5,1]). In breve, che dovremo dire di quelle messe “sciatte”, trascurate, affrettate, o in cui al contrario la cura dei dettagli è divenuta grossolanamente ipertrofica, in quanto fine a se stessa e pertanto dimentica di sé? Dobbiamo dire che esse non hanno valore?

Ma se dicessimo una cosa del genere staremmo mostrando di comprendere la liturgia come un mero esercizio della ragione estetica, un sofisticato programma d’allenamento per la finezza intellettuale che si sviluppa nell’articolare rimandi, riferimenti, suggestioni. E ci sbaglieremmo di grosso. Quello che, infatti, fa della liturgia una cosa degna di essere vissuta dagli uomini è che in essa brilla, tra le formule e i riti diversamente consolidatisi, un qualcosa di oggettivo, di realmente inerente alla cosa stessa, e che pertanto deve poter essere considerato presente anche nella più scalcinata delle celebrazioni. Questo vuol dire, inoltre, che il mistero stesso contempla l’eventualità del proprio permanere, passivo ma stabile, a fronte di un’intenzionalità incapace di fruirlo: l’espressione è complicata perché cerca di tornirsi adeguatamente, ma in soldoni intende che la delicatezza dei versi di una Emily Dickinson, ad esempio, o il vigore delle pennellate di un Rembrandt sul “suo” elmo d’oro, permangono intatte – quantunque infangate – davanti allo sguardo di un osservatore incapace di fruirne, di gioirne, di parteciparne. Anticipiamo fin d’ora che questa è la ragione per cui dire che “andare in chiesa la domenica significa partecipare alla liturgia eucaristica” è dire una cosa certamente vera, ma indubbiamente falsa.

Ci è utile rifarci a un testo molto particolare che il Santo Padre volle citare in quel famoso discorso natalizio alla Curia Romana cui abbiamo recentemente fatto più volte riferimento. In quel contesto, il Papa volle citare «una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. “Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: ‘Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!’

E proseguì: ‘Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha presa come sua sposa.

Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità’.

E sentii una voce dal cielo che diceva: ‘Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»’ (Mc 16,15)” (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale: PL 197, 269ss)».

È chiaro che il riferimento del Santo Padre è agli abusi operati da (mai troppo pochi) ecclesiastici, mentre il nostro argomento è un altro; il testo però non cade a sproposito nella nostra conversazione, se abbiamo ormai capito che la liturgia cristiana non è un rito estrinseco alla vita. Anzi, secondo l’intuizione di Paolo – «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, […] rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom. 12,1-2) – la liturgia cristiana è vita perché la vita cristiana è liturgia. E qui torniamo alla nostra considerazione, sulla scorta dell’immagine impressa nei sensi interiori di Ildegarda: come delle vesti e del volto di questa donna (la donna di Cristo) si predicano insieme cose contraddittorie, così in ogni atto della liturgia cristiana – nonostante tutto, e per la Grazia di Chi si comunica e si dona nei misteri della fede – brilla pur sempre “lo splendore della verità”.

E ora, perché quest’ampia digressione dovrebbe “spezzare una lancia” in favore di chi ha borbottato? Perché non è vero che non si sta partecipando ai sacri misteri se non ci si sente “spiritualmente coinvolti” (eppure è necessario un coinvolgimento mistico perché si partecipi effettivamente ai sacri misteri). Che s’ha da fare allora? Ci si deve “accontentare” di un “livello basso” di partecipazione, mentre alcuni arrivano a livelli d’altissima profondità? No, certo, nessuno può permettersi di fare meno di quanto le sue capacità gli consentono, nel cammino di conoscenza del mistero di Dio; ma parimenti nessuno (neanche la Santa Chiesa!) può permettersi di stabilire quale sia “la soglia minima” di accesso al mistero – perché il germe santo racchiuso nello scrigno delle sacre scritture e delle sacre liturgie, e facente capo in ultima istanza al mistero dell’annichilimento di Dio in Cristo (la fonte di ogni poetica), è in linea di principio inestinguibile.

E perché ho precisato: “neanche la Santa Chiesa!”? Perché questa – quella di stabilire mediante la “gerarchia delle verità” una gerarchia degli uomini, e quindi dei ministeri, e quindi una soglia minima riconoscibile di accesso a Dio – è stata (ed è sempre) una di quelle grandi e costanti tentazioni accovacciate ai piedi della Chiesa (e di ogni uomo): dai primi agli ultimi di questi venti secoli gli gnostici, i montanisti, i donatisti e i manichei, i catari, i calvinisti, per certi versi i giansenisti, e per finire i modernisti e i lefebvriani (per ricordarne alcuni senza pretesa d’esaustività), hanno preteso di poter indicare criterî d’individuazione dell’appartenenza effettiva alla Chiesa.

La tentazione è sempre ricorrente perché le membra del corpo di Cristo sono i figli di Adamo, ai quali il Nemico suggerisce continuamente di concentrarsi sui difetti dei membri più deboli della comunità (per potersi nettamente assicurare l’ingresso in una sempre più ristretta cerchia di eletti). La tentazione è però già da sempre vinta e superata, senza che ai singoli membri della Chiesa sia sottratta la possibilità di errori anche gravi, perché la sposa di Cristo che è il suo stesso corpo sa che se da un lato essa ha il dovere di non presentarsi alle nozze senza l’abito nuziale (cf. Matth. 22,12), e che da sempre è destinata a essere «senza ruga, né macchia, né alcunché di simile» (Eph. 5,26-27), dall’altro l’Unico che ha il potere di renderla tale ha il potere di sostenere anche il più debole dei suoi membri (cf. Rom. 14,1-13).

Ecco perché ciascuno si sforza, con la Grazia di Dio, di celebrare i divini misteri quanto più luminosamente e in purezza gli è possibile, senza gonfiarsi a credere che il proprio progresso dipenda direttamente ed esclusivamente dal proprio sforzo. Ecco che, davanti a quest’insidia incalzante, la Sposa di Cristo prega per i suoi figli – sangue del sangue del Redentore: «Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli, dei quali tu solo conosci la fede…» (cf. Messale Romano, Preghiere eucaristiche I e IV).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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