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Parabola di una parabola: Intro

La storia dell’uomo e della Chiesa nella storia di un testo. Introduzione.

Oggi vi racconto una storia. Anzi no, tutta non ve la posso raccontare, sennò non si finisce più; però piano piano ve la racconterò, e vi piacerà – credo. È la storia di una storia, di una di quelle storie che Gesù raccontava, come abbiamo visto, non solo “per farsi capire”, ma anche perché la natura propria di quelle cose che esprimeva esigeva di essere detta con una poetica evocativa, più che meramente descrittiva – è la storia di una parabola.

Calma, non intendo che vi racconto la parabola, che verosimilmente avrete già sentito molte e molte volte: di per sé, il testo meriterebbe di essere riletto sempre una volta in più, ma quello che vorrei indicarvi è un accenno ad alcune vicende che questo racconto ha trascorso nel tempo che ci separa dai giorni in cui la parabola fu pronunciata e scritta. Come m’è nato questo sghiribizzo? Presto detto: qualche anno fa, studiando filosofia medievale, m’ero imbattuto in un documento pontificio del 1329, in cui papa Giovanni XXII condannava alcune proposizioni dagli scritti e dalle dottrine di Meister Eckart (un personaggio su cui prima o poi avremo il piacere di tornare). Ora, il paragrafo iniziale di quella costituzione – cito a memoria perché non ho il testo a disposizione – diceva pressappoco così: «Avendoci il Signore posto a coltivare il suo campo, non possiamo tollerare che la zizzania imperversi tra le spighe di grano…». «Ma che strano! – m’ero detto – E pensare che io me la ricordavo tutta diversa la parabola!». E avevo ragione: in effetti la parabola di Gesù volge in direzione diametralmente opposta a quella indicata dalla costituzione pontificia (ne riporto il testo, dalla versione C.E.I. 2008, in questo link). Da principio avevo attribuito la responsabilità della clamorosa contraddizione (oggi comparirebbe immediatamente una pagina su Facebook recante nel titolo le parole “Epic fail!”) alla persona di Giovanni XXII, per la quale non ho mai nutrito grande stima: sarà che con lui cominciò quel tristissimo periodo ricordato dalla storia col titolo di “Cattività avignonese”, sarà per altro, fatto sta che ritenevo che fosse stato lui talmente spregiudicato e cinico da “pervertire” di punto in bianco quella splendida ed enigmatica pagina evangelica.

Mi sbagliavo, e qui – come è spesso quando ci si sbaglia – viene il bello. Sì, perché la pagina è in sé così densa e misteriosa che fin da subito solleticò quell’ingegno tutto umano che produce la teologia – perfino da prima che venisse messa nero su bianco, a giudicare dal fatto che i discepoli di Gesù chiesero al Maestro di tornare ancora a parlarne. Avevo scoperto, tempo dopo, che appena un paio d’anni prima del mio singolare incontro con la costituzione di Giovanni XXII, un teologo di nome Giuseppe Ruggieri aveva raccolto su una rivista da lui curata (Cristianesimo nella storia, XXVI/1, Bologna 2005) un intero numero dedicato alla storia delle letture di questa parabola nei secoli! Incredibile: non solo avevo il piacere di vedere arricchita la mia comprensione di quel documento da una smentita, ma mi ritrovavo con un sacco di documenti alla mano che testimoniavano che la storia di certi testi è – di per sé – una cartina di tornasole dell’intera storia della Chiesa.

Ora, il nostro percorso dovrebbe averci abituati a pensare i testi biblici come ben altra cosa che dei semplici fili di “mediazione diretta” tra il lettore e il Mistero di Dio (tramite il mistero delle cose); in più, visto che di recente ci siamo trovati a parlare delle “tentazioni pie” della Chiesa (e di ogni uomo), un’escursione su questo tema capita quanto mai a proposito.

Cerchiamo d’inquadrare – per questa volta – soltanto “le grandi linee” della vicenda. Il racconto di Gesù è solo parzialmente interpretabile, perché su richiesta di alcuni ascoltatori già egli ne aveva fornito le coordinate essenziali, eppure di epoca in epoca ci troviamo davanti a “tradizioni” che avevano tanto palesemente “tradito” il testo da averne ricavato l’esatto contrario: non era Giovanni XXII soltanto ad aver sfruttato la parabola in quel modo (e non ce n’era bisogno: si sarebbero potuti citare tanti altri testi per giustificare la lotta contro le eresie!): a partire dal XII secolo almeno i testi s’erano tanto moltiplicati in questa direzione da aver portato la parabola della zizzania a diventare l’argomento classico della lotta alle eresie (e agli eretici). Ma poi, che cos’è che fa di un uomo un eretico? Diciamola grossolanamente, per il momento: è l’ostinata perseveranza in un’opinione chiaramente e gravemente erronea dal punto di vista della fede o della morale. Tradotto nel linguaggio della nostra conversazione: gli eretici sono persone che hanno “tradotto” le testimonianze della fede in un modo ritenuto inaccettabile da “tutta” la comunità che ha raccolto con lui dal passato quella stessa “tradizione”, e che ugualmente con lui è tenuta a sua volta a “tramandarla” (ma “senza tradirla”!) alle generazioni future (mi rendo conto che questo linguaggio è oscuro, se non inaccessibile, a quanti non abbiano seguito “Elogio del tradimento”, “Relativa-mente-dogmatica”,e “Teoria (dogmatica) della relatività”).

Va bene, ma se un eretico è questo, in che cosa differisce da quelli che lo condannano con simili basi? E in effetti il problema si fa intricato e spinosissimo: a studiare un pochino la storia delle eresie (e ancor più dell’Inquisizione), si fa evidente che il dialogo tra l’eretico e l’inquisitore non può essere ridotto alla pur giusta questione della libertà di coscienza. È comunque un vento di cime quello che spira tra i due durante il processo, e l’inquisitore tiene il coltello dalla parte del manico solo apparentemente e in ordine alla sentenza, ma nel dialogo e ancora negli atti del processo (che vengono conservati per i secoli) si combattono due interpretazioni di un testo (scritto o non scritto) su cui la verità dovrà dare un giudizio ulteriore, nel tempo. Potrà quindi facilissimamente capitare – diciamo così – che per un soffio di quel “vento di cime” sarà l’inquisitore a precipitare nell’eresia. E difatti è capitato molte volte, e ciò che l’incessante rilettura di quei testi ipnotici produce si declina in una di queste quattro eventualità: un decreto di condanna potrà essere sempre e solo confermato (come per i Catari e i Dolciniani), esso potrà vedere invertita la sentenza (come per Giovanna d’Arco), ancora sia l’eretico sia l’inquisitore potranno condividere l’assoluzione di giudizî più distesi (e sono molti, qui, a far compagnia a Cirillo e a Nestorio) oppure entrambi potranno essere riconosciuti come completamente lontani dalla verità (non mi viene in mente nessun esempio per questo gruppo, ma ciò non toglie che ve ne siano, o che possano esservene).

Una parabola che pare essere pensata apposta per raccontare il mistero delle cose buone che improvvisamente si pervertono: ognuno fa l’esperienza della marcescenza delle cose dentro di sé, nel rapporto con Dio, con le persone e con le cose, davanti alla propria vecchiaia e alla propria morte. Difatti le prime interpretazioni della parabola sono state legate principalmente a questi settori: la zizzania diventa allora immagine dei vizî che uno deve tener d’occhio nella consapevolezza dell’impossibilità di eliminarli “tutti e subito”; oppure essa diventa segno della caducità – per dirla con Ligabue – delle “cose che hai, che hanno te”.

Ma, in particolare da un certo momento in poi (più o meno dal III secolo), tutti questi spunti di comprensione del testo si sono come raggrumati in una problematica più grande, di cui abbiamo ultimamente già detto qualcosa: il campo diventa immagine del mondo e/o della Chiesa, e le questioni grosse sono allora quelle sulla condotta da tenersi con chi sembra grano ma potrebbe essere anche altro.

Che fare?

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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3 Comments on Parabola di una parabola: Intro

  1. La ringrazio per la risposta e per il chiarimento. Cercherò di rileggere gli articoli precedenti per avere un’idea più ampia delle tematiche. Al momento non riesco ancora a formulare una domanda specifica.

  2. Buonasera…. non riesco a comprendere bene il senso dell’articolo. Vorrei fare una domanda specifica ma non essendomi chiaro l’articolo non riesco a farlo.
    E’ possibile un aiuto ?
    grazie.
    vania

    • Buongiorno a lei, Vania. Il suo intervento è molto gradito, dal momento che potrebbe esprimere un disagio provato anche da altri lettori: in realtà, con questa rubrica stiamo cercando di seguire un percorso piuttosto preciso e graduale, come era stato annunciato nel primo articolo (“Teologia della Porzione”), quindi in un certo senso non c’è da stupirsi se una persona che comincia a leggere a un certo punto si trova un po’ spaesata. D’altro canto questo non è un corso accademico, quindi non vorremmo neanche “costringere” i lettori a tenere sempre a mente tutto “il programma”: dai riscontri che abbiamo da lettori affezionati vediamo che – nonostante qualche punto che occasionalmente va chiarito – il percorso risulta chiaro, e da parte mia cerco di linkare sempre gli articoli arretrati in cui si può agevolmente rinvenire quello di cui credo il nuovo lettore possa aver bisogno.
      Nella fattispecie, l’articolo voleva esemplificare (e continueremo a farlo nelle prossime settimane) come uno stesso breve testo evangelico abbia dato adito, nei secoli della storia cristiana, a una grande varietà di letture: non si tratta di una mera curiosità, ma di un rilievo significativo delle sensibilità delle chiese (e delle spiritualità dei singoli cristiani) attraverso i tempi. Tutto questo può aiutarci, credo, a farci sentire un po’ più “a casa nostra” nel cristianesimo.
      Riesce meglio, ora, a formulare la sua “domanda specifica”?

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