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Parabola di una parabola: L’enigma del nemico

Dai primi tre secoli, la contraddizione in cui è impossibile non cadere: chi è che sparge zizzania?

Particolare tratto da "Il seminatore" di François Millet (rielaborazione grafica)

Come abbiamo intravisto, allora, non solo in quella collezione di testi che chiamiamo comunemente “Bibbia” ci sono fondamenti per dottrine non di rado contraddittorie tra di loro, ma talvolta i medesimi testi vengono riutilizzati nella storia della loro interpretazione (quindi nella loro stessa storia) a fondamento di tesi contraddittorie tra loro. È il caso della meravigliosa “parabola del grano e della zizzania” (vedi link), e stavolta cominciamo a seguire alcuni punti salienti di questa storia (beninteso, facciamo una selezione che speriamo possa dare un idea del panorama pur senza alcuna pretesa di esaustività).

E bisogna sapere anzitutto che non è semplicemente il contesto, tout court, che influenza la rilettura di un testo, ma pure il suo “punto d’appoggio”. O meglio, visto che il testo è ormai piazzato in una tradizione scritta, il suo “punto di presa”: se si tengono presenti quei vaticinî rurali circa il sesso dei nascituri – che in alcune delle nostre regioni (ancora) si praticano – ci si può fare un’idea della faccenda. Si lascia cadere a terra un fazzoletto e si osserva come la gestante lo raccoglie, da che punto lo afferra. Pur senza voler dare il minimo credito a queste credenze, è un fatto invece che nella scienza delle interpretazioni abbia un rilievo capitale il “punto di presa” di un testo. La parabola è sempre quella, tramandata tale e quale (salvo qualche minima variante occasionale), ma un autore, o un’epoca, resterà tanto colpita dall’idea del campo, e volgerà tutto il resto del testo a ricavare un chiarimento di quel punto che tanto lo aveva interessato: che cosa indica il campo? E dire che il primo interprete della parabola aveva “già risposto” non risolve la faccenda: dire “è il mondo” non fa che rimandare a un’ulteriore domanda – “mondo in che senso”?

Ma per amore di verità e di correttezza bisogna dire che la “parabola di questa parabola” comincia da un altro “punto di presa”, ossia dalla misteriosa figura del “nemico” che viene di notte – «mentre tutti dormivano» – e se la spiegazione di Gesù – «è il diavolo» – può sembrare sufficientemente esaustiva, non lo era affatto nella cristianità dei primi secoli. Chi è, infatti, il nemico di Dio? Immaginiamo un contesto in cui la collezione dei testi biblici non è ancora ben definita, e in cui non si sa di preciso come conciliare questo Dio “nuovo” di cui parla Gesù con il “vecchio” e noto Dio delle tavole mosaiche. Qualche cristiano, di quelli che poi saranno chiamati “gnostici”, pensa allora che quel vecchio Dio (che sarebbe un figlio cattivo e incapace dell’unico Dio) è proprio il nemico del Dio di cui parla Gesù (quello vero), e che si è fatto passare per Dio alle spalle del vero. Clemente di Alessandria ci racconta che quei lettori della parabola dicevano: «<siccome chi ha dato le tavole della legge a Mosè ha seminato la zizzania, contrapponendoci al Padre>, noi a nostra volta ci contrapponiamo a lui per vendicare il Padre, agendo contro la volontà del secondo. E siccome egli ha detto: “Non commetterai adulterio” [Es. 20,13] noi […] commettiamo adulterio per annullare il suo comandamento» (Clemente, Stromati, IV,34,3). L’avreste mai detto? Alcuni tra i primi lettori della parabola (e tutt’altro che sciocchi) hanno creduto di poter e di dover vedere nei panni del diavolo di cui parla Gesù nientemeno che il Dio che noi chiamiamo “Padre di Gesù”, e quindi di dove “commettere peccati” per fare “un dispetto al diavolo”!

Dall’altro lato, invece, c’erano quelli che avevano il problema opposto: per loro quello della distanza tra le due visioni di Dio presenti nella Legge di Mosè e nelle parole di Gesù è un falso problema, e chi lo pone è propriamente il nemico. Il nemico di chi? Di Dio (l’unico vero: quello di Mosè e di Gesù!), della Chiesa (che è il popolo d’Israele, in cui tutti possono entrare obbedendo alla Legge) e del mondo intero – che dev’essere salvato da Dio mediante la Legge, che Gesù è venuto a completare e non – lo sottolineano con grande forza! – ad abolire. E così, nei Riconoscimenti del Corpo pseudoclementino abbiamo un racconto ambientato prima che scoppiasse la persecuzione giudaica a danno della “setta dei nazareni” (ancora oggi, in ebraico, i “cristiani” si chiamano così). In questo racconto, quando Giacomo ha finito di predicare nel tempio e per mezzo di lui addirittura Caifa, a capo del popolo, starebbe per farsi battezzare, sopraggiunge il giovane e ardente Saulo, che aggredisce Giacomo e disperde la folla, prima di convincere Caifa a farsi dare delle lettere che lo autorizzino a perseguitare quelli che avevano riconosciuto in Gesù il messia (At. 9,1-2). Chi fa, qui, la parte del nemico? Ma è Paolo, che viene descritto in tutto il romanzo (i Riconoscimenti costituiscono un particolare esemplare di romanzo ellenistico) come il nemico della fede (I,70,8 ; 71,3-4). Né c’è, per chi ha scritto questo testo, una differenza significativa tra il Saulo che perseguitava i cristiani e il Paolo che predicava il Cristo, perché – dal suo punto di vista – con la propria dottrina della legge, Paolo avrebbe mutilato Gesù e ne avrebbe presentato agli uomini una versione “annacquata” e inutile per la salvezza!

Termina la parte più difficile (perché meno abitualmente riflettuta): adesso però abbiamo un riferimento per capire contro chi scrivevano gli autori più grandi dei primi tre secoli cristiani. Ireneo e Tertulliano in Occidente, Clemente e Origene in Oriente, tutti davano addosso agli “eretici gnostici” – tra le tante ragioni anche perché ritenevano che l’uomo fosse da sempre e per sempre, nonché invariabilmente, buono o cattivo (quindi destinato alla salvezza oppure alla dannazione, a prescindere da tutto). Per questo scrive Ireneo: «Tutti all’inizio sono stati creati da un solo e medesimo Dio, ma quando obbediscono a lui […] sono figli di Dio, mentre quando si allontanano e trasgrediscono si uniscono al diavolo […]» (Contro le eresie, IV,41,3). Quindi non ci sono alcuni uomini creati da un “Dio” cattivo e incapace e altri che condividono la sostanza del vero Dio, e poco prima lo stesso Ireneo aveva introdotto un’altra idea – geniale! – a proposito della parabola: «Dio separò da qualunque rapporto con sé colui che di sua iniziativa aveva seminato di nascosto la zizzania, […] e invece ebbe pietà dell’uomo che per negligenza aveva colpevolmente accolto la disobbedienza» (IV,40,3). In questo modo il vescovo di Lione introduceva un’acuta riflessione – peraltro molto aderente al testo – su quanto differentemente vada considerato il diavolo dai disgraziati che cadono nei suoi tranelli. Rivoluzione: sono peccatori, sì, ma restano sempre figli di Dio. Che strano: Gesù non aveva detto che la zizzania sono “i figli del maligno”? «No – dice Ireneo! – perché non ci sono due dèi, ma un solo Dio!». Quindi – ci chiederemo – ha torto Gesù? Certo che no – replicherebbe Ireneo – è solo che se non capiamo come le medesime parole possano avere talvolta significati sensibilmente diversi ci ritroviamo con un Dio di troppo sul comodino!

Ma il passo ormai era fatto, e il campo già non significava più “il mondo”: o meglio, tutti leggevano “il mondo”, ma gli stessi pensavano alla chiesa e comprendevano che lì “mondo” stava per “chiesa”. Tertulliano, allora, geniale lettore e ricompositore di Ireneo, trovò una soluzione con cui tutti gli uomini erano ugualmente salvi dal sospetto di essere per natura figli del diavolo: la zizzania sono le eresie, e quindi il nemico che le sparge è di volta in volta questo o quell’eretico! E Tertulliano si dà certamente un gran daffare per sradicare le eresie, nonostante il Signore abbia chiesto di lasciar crescere “la zizzania” (qualunque cosa essa sia) con “il grano” (qualunque cosa essa sia). La grave contraddizione non è che si cerchi di combattere l’eresia, ma che si pretenda di doverlo fare perché nella parabola Gesù avrebbe indicato con “la zizzania” proprio l’eresia. Ironia della sorte, anche Tertulliano, nonostante il suo genio, avrebbe finito i suoi giorni simpatizzando per una setta eretica…

Per finire, però, (e per chiudere il cerchio), dobbiamo dire che v’era chi leggeva il passo in tutt’altra direzione, e si trovava nondimeno coi medesimi problemi! Che cosa strana: quando Ippolito e Novaziano, due tra i primi “antipapi” della storia – personaggî “vibranti” almeno quanto Tertulliano – bacchetteranno i papi romani per la loro indulgenza nei confronti di quelli che (laici o chierici) si macchiavano di peccati più o meno gravi, trovarono sulla loro via le penne (e il potere!) di Cornelio di Roma e Cipriano di Cartagine. Scrive Cipriano, farcendo la corrispondenza di versetti biblici: «Anche se è evidente nella chiesa la presenza della zizzania, la nostra fede e la nostra carità non devono tuttavia essere intralciate, sì che abbandoniamo la chiesa perché in essa c’è zizzania: dobbiamo invece soltanto adoprarci per poter essere frumento […]. Alcuni si arrogano più di quanto non chieda la indulgente giustizia e, comportandosi così, vanno perduti fuori della chiesa; si esaltano smoderatamente e perdono la luce della verità, accecati dalla loro stessa superbia» (Lettera 54,3).

Qual è il paradossale risultato? Che Cipriano e quelli che la pensano come lui sono, sì, teneramente misericordiosi con quelli contro cui altri userebbero ben più drastiche misure; ma tuttavia proprio questi ultimi sono considerati dai primi tali quali essi considerano quelli che i primi riaccolgono concilianti. Ovvero: se vuoi combattere gli eretici li consideri zizzania e cerchi di estirparli; se non vuoi combattere gli eretici consideri zizzania quelli che vogliono combatterli, e cerchi di estirpare loro. Ma… chi è il nemico?

Foto: Jean-François Millet, Il Seminatore, 1850. Dettaglio in rielaborazione grafica.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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