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Encomio della maschera

L’avvocato del diavolo difende una delle “sue” più sante invenzioni.

«Portare una maschera» è un’espressione che ha assunto nel linguaggio comune – e non per questo necessariamente trascurato – un’accezione chiaramente negativa. La settimana grassa è invece il luogo dove storicamente sono state “confinate”, come relegate in un “esilio rituale”, le maschere. Questa “riserva protetta” delle maschere che da molti secoli si suole chiamare “carnevale” ha il tono e l’ambigua consistenza di un campo di concentramento: da un lato, infatti, le maschere sono state rinchiuse in essa perché non divaghino ovunque; dall’altro, invece, ben lungi dall’estinguersi, esse paiono godere di salute migliore di quella del loro angusto contenitore settimanale.

Il carnevale, in effetti, è una festa spiccatamente cristiana, anzi cattolica, e in quanto tale è in inesorabile ribasso. Il tramonto dell’antichità greco-pagana (ma anche di quella celtica, di cui troppo poco si tiene generalmente conto) nel mare della christianitas medievale aveva prodotto la trasformazione di lupercali, saturnali, di ogni sorta di riti dionisiaci e di manifestazioni menadiche, in un tempo – atteso, preparato, gustato e rimpianto dopo l’esasperata soddisfazione – accolto nella nicchia ebdomadaria degli ultimi giorni a ridosso del tempo penitenziale per eccellenza, la Quaresima. Tutto resta lo stesso, quando tutto cambia – è vero. Ma vale anche il contrario: quando tutto resta lo stesso, inesorabilmente tutto cambia. Nulla degli auspicî di fertilità tipici dei saturnalia latini è rimasto nelle licenze carnascialesche, così pure la sfrenatezza dell’euforia pre-quaresimale nulla ricorda del contorsionismo mistico-invasato delle menadi greche. Rispetto a queste feste pagane il carnevale può già essere letto come una secolarizzazione del sacro pre-cristiano operata dal cristianesimo: non sarebbe la prima volta, che il prodotto storico del cristianesimo si fa paradossalmente riconoscibile come “secolarizzazione”, e forse non è neppure l’ultima.

Dal fatto che il carnevale vive però da almeno un migliaio d’anni a ridosso del cristianesimo come un parassita (o – si perdoni la provocatoria irriverenza – viceversa) è scaturita recentemente una vivace discussione filosofica e antropologica: il rustico villano mitteleuropeo che nel XIV secolo si abbandonava a “ubriachezze e orge” sapeva di mettersi in rotta di collisione frontale col severo precetto paolino (Rom. 13,13), e in qualche modo acquistava piacere effimero “pagandolo a credito”, dal momento che sapeva che nel silenzioso rigore quaresimale avrebbe avuto modo di meditare sull’eccesso, sul disordine, sugli effetti deleterî (per la salute e per le finanze) degli stravizî carnascialeschi, “saldando il debito” – per così dire – entro Pasqua. Gli studî di Le Goff (i classici su La civiltà dell’Occidente medievale, sì, ma pure il più recente Il corpo nel medioevo) corroborano con godibilissima ricchezza queste considerazioni: la più interessante di queste è quella riguardante il grande valore che in tale Weltanschauung (quella dell’Occidente medievale) è implicitamente conferito al corpo umano. Sempre al centro di un vivo e vivificante interesse divino, esso non è mai “materia”, non è mai “cosa”: nelle privazioni e nelle elargizioni, nel digiuno o nella festa, è Dio che viene celebrato in esso – in quanto Creatore e in quanto Redentore, in quanto desiderato-desiderio-desiderante (nel digiuno) e in quanto nutriente-nutrimento-nutrito (nella festa).

Ecco perché, tra l’altro, Umberto Eco aveva scritto – su L’Espresso, il 17 febbraio del 2005 (vedi link) – che non gli restava che «sperare nella Quaresima» (sic!) per vincere l’angoscia dell’“orrendo carnevale”: «Oggi che anche il cittadino più povero (esclusi solo i barboni che dormono sulle panchine) può avere quasi ventiquattrore di Carnevale giornaliero alla televisione, e in ogni caso può godersi giochi, balli, carnascialate ogni sera dal tramonto in avanti? Quando dai muri delle case, e anche solo a passare davanti a una edicola, immagini di donne e uomini bellissimi invitano al divertimento, al lusso, e naturalmente a una sofisticatissima alterazione del corpo? Nel vecchio Carnevale, come nei trionfi o nei saturnali romani, ci si poteva permettere, una volta all’anno, di prendere in giro i potenti, mentre oggi essi si carnevalizzano da soli in trasmissioni circensi in cui si danno schiaffi in faccia come tanti Augusti e Clown Bianchi?». E concludeva: «Che senso ha celebrare il Carnevale in un mondo in cui il Carnevale viene proposto per trecento e sessantacinque giorni all’anno? E ancora, se nel Carnevale davvero ci si scatenasse contro il potere, si sovvertissero i rapporti di dominio, e ciascuno si prendesse le proprie rivincite. Ma no, ciascuno se ne va tristemente per strade scivolose di coriandoli umidicci, e si comperano su bancarelle dolciumi che durante l’anno intero si potrebbero trovare al supermercato, e con maggiori garanzie igieniche».

Addosso a questa provocazione s’è scaricato tutto l’armamentario di varî antropologi e psicologi (Ricordo solo Pier Pietro Brunelli, Carnevale e Psiche, Moretti & Vitali, 2008), e non è certo questa la sede per provare a prendere posizione in una disputa della quale, tuttavia, vale la pena almeno conoscere l’esistenza. Quello che può interessarci maggiormente è, invece, regalare qualche minuto di attenzione a quell’affascinante artefatto antropico che è la maschera. Diventata tratto distintivo del carnevale, di cui parlavamo sopra, essa è giunta a significare senza mezzi termini la doppiezza, la finzione, la menzogna e l’irriconoscibilità delle persone. È questo il curioso paradosso culturale cui pensiamo, perché le maschere non sono certo nate con il carnevale cristiano-cattolico, né prima di questo esse erano un appannaggio dei “pre-carnevali” pagani (anzi!): la maschera è nata anzitutto come strumento di lavoro.

Nessun attore si sarebbe mai sognato di recitare senza pròsopon (la parola greca per “maschera”), perché non avrebbe, letteralmente, im-personato nessuno (persona è invece la parola latina per “maschera”). Di qui l’altra caratteristica, insospettata, della maschera: ben lungi dal nascondere, essa dichiara apertamente la riconoscibilità di chi è in scena. Chiaro che, di qui, il passo fino all’irriconoscibilità è marcato soltanto dalla mancata corrispondenza “esistenziale” (diremmo) tra l’attore e il personaggio. Questa è una mera banalità: ciò che cattura l’interesse, invece, è che proprio il termine nato per significare la maschera è quello che è passato a indicare chi la porta. È pure il caso di ricordare che questo vistoso slittamento semantico non s’è dovuto a un plurisecolare processo di millimetriche fluttuazioni, bensì alle violente bordate che le questioni trinitaria e cristologica, nelle loro evoluzioni, si davano (ossia tra il III e il V secolo). Frattanto, la maschera era sempre chiamata col nome di “persona”, in latino, e di “pròsopon”, in greco: la parola “maschera” (coi suoi numerosi corrispondenti in molte lingue indoeuropee) non vede la luce che a cavallo tra i due primi millennî dell’era cristiana, e i dubbî sull’etimologia della sua radice (araba? gallico-celtica? germanica?) non ci lasciano avventurarci nel terreno delle supposizioni, se non con una buona dose di fantasia.

Ma perché elogiare quest’invenzione atavica e “diabolica” (visto che “separa”)? Perché la considerazione del fatto che l’esistenza, essendo anzitutto un essere-da-altro, è da sempre una chiamata a im-personare qualcuno, non esclude che quel qualcuno possa essere (e quindi debba essere) il proprio più autentico. Una delle grandi frustrazioni generate dalle fantasie sessantottine sta nel fatto che decine di milioni di persone sono state lanciate – nella seconda metà del secolo scorso – alla ricerca di “io autentici” fantomatici quanto l’araba fenice. Il presupposto fondamentale era nella categoria di alienazione: la società, il mercato, l’altro, il capitale, di volta in volta c’era qualcuno responsabile della condizione de-personalizzata in cui le masse erano venute a trovarsi. E la diagnosi era, per non pochi versi, corretta, né si può trascurare il rischio che ogni vita diventi trappola per la vitalità e che ogni personaggio si trasformi nella morte della personaMa per quale ragione si dovrebbe sistematicamente sospettare che il vero nucleo pulsante di un’individualità stia al di là di situazioni, legami, regole, convenzioni, professioni, relazioni?

L’encomio della maschera va tessuto perché essa è una delle prime grandi icone antropologiche, una delle prime “prosopografie” dell’umanità: nasconde e manifesta, rivela e vela – ogni uomo vive tanto meglio quanto migliore e più serena è la conoscenza che egli ha della propria.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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