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Concerto a due voci, prima della passione

Leggere il lamento amoroso del Dio che si fida di Dio

Paul Claudel scrisse a Jacques Rivière, un caro amico tormentato da dubbî nella fede: «La liturgia e le celebrazioni t’insegneranno più dei libri. Immergiti in questo immenso bagno di gloria, di certezza, di poesia». Né Claudel né Rivière erano degli esperti liturgisti, eppure non furono i soli a esprimere quanto lo stupore che nasceva dall’armonia dei gesti sapeva informare la fede – la semplice fede della vita quotidiana. Il contesto contemporaneo vive con difficoltà, e non senza attriti, il confronto su questo argomento: comunemente, quando si parla di “nuova evangelizzazione” s’intende anzitutto e per lo più incontri di formazione, cicli di catechesi concettuali e così via. Ora, io risulterei l’essere meno credibile della terra se volessi spacciarmi per un avversario dell’importanza di questo tipo di formazione – il diritto più calpestato dei cristiani (del “primo mondo”) è quello all’istruzione religiosa, piena e integrale – eppure pare che un primato vada rivendicato a quella magnifica esperienza di mistica, di estetica e di comunione fraterna che è la preghiera comune. Pare? E chi lo dice? Tanto per non uscire dai nostri giorni e dai contesti a noi più familiari (si fa presto a dire “Chiesa”: la Chiesa è diffusa su tutta la terra!) possiamo pensare al documento programmatico degli Orientamenti pastorali per il decennio appena trascorso, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: i vescovi italiani, che si dicono preoccupati di come rendersi comprensibili al contesto in cui viviamo, scrivono che «comunicare il Vangelo è il compito fondamentale della Chiesa. Questo si attua in primo luogo facendo il possibile perché attraverso la preghiera liturgica la Parola del Signore contenuta nelle Scritture si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione del cuore dei credenti» (n. 4).

Non di rado, a partire da questo, frettolosamente si conclude: «Bene! Quindi dobbiamo fare più spesso la lectio divina!». Proposito encomiabile, certo, ma quello che i vescovi italiani hanno raccomandato alle loro chiese non è che si passi semplicemente “più tempo” a spiegare, commentare e illustrare le Scritture: a fronte di una diffusa e grave ignoranza delle Scritture, il rimedio non è visto nell’inculcare “cultura biblica”, ma nel far sì che in Chiesa tutto trasudi Parola di Dio, laddove i riti risplendono «per nobile semplicità».

Dove voglio arrivare con questa premessa? A illustrare ed esemplificare come e quanto i testi della liturgia della Messa grondino Parola di Dio, dalla prima all’ultima sillaba. E partiamo proprio dalla prima, e dalle prime parole della prima domenica di Passione. Quasi nessuno sa, ad esempio, che per ogni formulario di ogni messa del Messale Romano pubblicato dopo il Vaticano II c’è una “raccolta di canti consigliati”. Sono brevissimi ma ci sono, e sono tanto brevi quanto densi. Oggi vi propongo l’antifona d’introito (ossia il “canto d’ingresso”) della Quinta domenica di Quaresima: il file che vi offro riporta tutta la partitura gregoriana (mentre un’esecuzione relativamente decente si può trovare qui). La traduzione invece la scrivo di seguito, anche perché è brevissima e su questa dovremo soffermarci più accuratamente: «Giudicami, o Dio, e distingui la mia causa dalla gente empia. / Strappami dall’uomo ingiusto e ingannatore, / perché tu sei il mio Dio e la mia fortezza. // Manda la tua luce e la tua verità: / proprio esse mi hanno liberato e mi hanno condotto / al tuo santo monte e ai tuoi tabernacoli».

Quello che è chiaro è che si tratta di due soli versetti del Salmo 42 (43), il primo e il terzo. Quanto a un frequentatore della poesia biblica riesce poi di un’evidenza lampante è che ci sono delle sensibili variazioni rispetto al testo di partenza: sul primo versetto, anzi, il latino e il greco sono una traduzione letterale e fedelissima del testo ebraico. Il terzo versetto, invece, suona nel nostro testo, il quale raccoglie la versione del latino e del greco, in modo decisamente diverso dall’ebraico: «Manda la tua luce e la tua verità: / siano esse a guidarmi, / mi portino al tuo monte santo / e alle tue tende». Dov’è la differenza fondamentale? Chiaramente nel fatto che dove l’ebraico esprime un sospiro di speranza con un imperfetto, il greco prima e il latino poi hanno sostituito l’aoristo e il perfetto del modo indicativo per esprimere il memoriale di una salvezza avvenuta.

Come mai questo anomalo cambiamento? È facile ipotizzare che dal periodo della composizione a quello della prima traduzione greca (verso il II secolo a.C.) il testo abbia già preso a essere usato in ambiente liturgico (giudaico, naturalmente), e che quindi la rilettura che ne è stata fatta sia volta a ricordare e celebrare le meraviglie con cui Dio si è già rivelato al popolo, ossia non solo il passaggio del Mar Rosso ma le successive alleanze – Giosué, Davide, Salomone, Giosia… – una più ricca e forte dell’altra.

Ma poi? Che è successo in ambiente cristiano? Beh, è chiaro che la “scala delle alleanze” culmina, nella percezione di un cristiano, con la “nuova ed eterna alleanza” di Gesù: così la luce e la verità vengono rilette semplicemente come nomi del Cristo. Sulla portata di questi nomi torniamo dopo: ora osserviamo che il passaggio dal contesto liturgico giudaico a quello liturgico cristiano ha portato un ulteriore cambiamento. Il terzo versetto contiene infatti l’ormai famosa parola ebraica per “tenda” – shekinàh – al plurale: il greco traduce con fedeltà letterale (skenòmata) e lo stesso fa il latino (tabernacula). Ma qui che succede? Che la stessa parola, nel corso dei secoli, è stata riservata a designare con onore il luogo in cui, nelle Chiese e negli Oratorî, viene conservata la riserva eucaristica (il Santissimo Sacramento); assistiamo quindi a un arricchimento del portato testuale dovuto a cause in parte indipendenti dallo stesso testo – così abbiamo preferito tradurre, per chiarezza, con “tabernacoli” e non con “tende”, lasciando che il senso delle parole prenda una chiarissima connotazione cristiana (a scapito della sfumatura delle lingue antiche, certo).

E veniamo alla questione più interessante di tutte: quest’antifona è pensata per essere cantata all’inizio della celebrazione eucaristica, ma c’è una cosa che dobbiamo chiederci, rileggendo il testo – chi è che può dire simili parole? Intendo, chi è che può rivendicare davanti a Dio la propria giustizia e la propria innocenza? Non c’è pure un Salmo che recita: «Non chiamare in giudizio il tuo servo / perché nessun vivente davanti a te è giusto» (142 (143),2)? I due brani sono chiaramente contraddittorî, ma una mente credente non accetterà mai di leggere una contraddizione nel messaggio di Dio – e farà bene: ciò che bisogna fare è individuare il livello di lettura nel quale i brani non si contraddicono. Uno degli strumenti più potenti, per fare questo, fu elaborato a partire da Origene di Alessandria (detto “l’uomo d’acciaio”): egli aveva inteso che, se Cristo è la Parola stessa di Dio incarnata, e se gli uomini raccolti nella sua Chiesa sono le membra vive del suo vero corpo, allora la Scrittura non può che contenere le parole di Cristo – ora inteso come capo, ora inteso come membra.

Una vera chiave di volta! Un pensiero semplice e lineare, come sono tutti i pensieri veramente geniali: da Origene in poi tutti, sfogliando i Salmi, si eserciteranno nel distinguere e accordare nell’unica voce della Chiesa le parole del Capo e quelle delle membra. Così anche noi possiamo lasciar risuonare Cristo vivo e vero dentro di noi in questo introito: è sua infatti la voce che protesta innocenza e invoca il giudizio divino a sua difesa. È Cristo solo che può chiedere che il suo caso non sia confuso fino in fondo con quello di gente empia, quali tutti gli uomini sono, a prescindere dalla sua azione salvifica. Ed è proprio di quel Cristo che ha insegnato a pregare: «Liberaci dal male» (che può essere correttamente tradotto anche: “dal maligno” o “dall’uomo malvagio”) l’accusa di ingiustizia e di dolo contro il suo nemico. Il dramma sacro dell’uomo-Dio viene evocato con sublime altezza da pochi versi. Ma chi è che canta la seconda parte, quella che nella partitura è assegnata a un solista? Nessun altro che l’insieme delle membra del corpo di Cristo – ossia la Chiesa – può dichiarare di essere già stato condotto ai tabernacoli del monte di Dio (vedi link): e perché la Chiesa chiede che le sia inviato Cristo, che ha detto di sé essere la luce e la verità, se proprio Cristo l’ha già condotta dove doveva andare? Ecco che in un passaggio di due versetti appena è riprodotta tutta la dinamica dei salmi 42 e 43, da cui queste poche parole sono estratte: nel momento in cui la minaccia dell’arresto incombe sul Cristo, alla Chiesa si rammenta che così si perpetua fino all’ultimo giorno l’altalenante apparire e scomparire della percezione di Dio. Se il Dio in cui la Chiesa crede e amorevolmente spera sa mostrarsi assente, questo Dio non è un immenso giocattolo che l’anima umana s’è data da sé: è il Dio vivo e vero.

«Attendi poi in timore che passi:

contando prima i vuoti di Dio.

Certo che passa, ma quando e per dove?

Né mai è certo il modo, e se torna».

(D.M. Turoldo, Torna alla grotta, in Il Canto della Rana)

Foto: Michelangelo, Ragazzo rannicchiato, particolare.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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