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Parabola di una parabola: Puri come angeli, superbi come demonî

Ritorsioni, distorsioni e precisazioni tra gli “eretici cattolici” di Port-Royal

Ritratto di Mère Angélique

Abbiamo visto, la volta scorsa (clicca link), che il dettaglio del mondo riformato era ben più frastagliato di quanto certa stucchevole filmografia agiografica (anche i protestanti hanno i loro santi!) voglia far intendere, e lo abbiamo fatto tramite la prodigiosa lente della nostra parabola (clicca link) e delle sue plurisecolari vicende; tanto meno deve sorprendere che anche in ambito cattolico si diano di tali particolarismi.

Siamo passati dalla Germania alla Francia, e dal XVI al XVII secolo: un passaggio epocale è avvenuto – con la Pace di Westfalia (1648), che metteva fine alla guerra dei trent’anni e alla guerra degli ottant’anni, l’Europa ha ribadito il proprio ripudio per le guerre di religione (che invece avevano dilaniato il suo territorio in lungo e in largo per interminabili secoli) già pronunciato nel 1555 ad Augusta. Il “chiavistello di sicurezza” che la Pace di Augusta aveva voluto apporre a sigillo del suo alto proposito era il principio discretivo: “cuius regio, et eius religio” (che potremmo tradurre, con una scherzosa parafrasi: “Una religione per ogni territorio, e a ogni territorio la propria religione”). Il principio, quantunque suoni moderno, è molto più legato all’Ancien Règime di quanto spesso, citandolo superficialmente, lo si ritenga: non si pretende, infatti, che la religione vada relegata ad ambito privato (per arrivare a formulare queste tesi bisognerà aspettare il 1789 e il positivismo del XIX secolo), ma che il ruolo pubblico della religione vada ritenuto giusto e legittimo entro certi limiti territoriali. È evidente come la misura sia senz’altro discretiva: se alla base delle divisioni ecclesiali tra le confessioni cristiane, e di quelle tra religioni in senso proprio, ci sono delle questioni dottrinali, a che titolo il dato territoriale dovrebbe offrire un’occasione di risoluzione delle tensioni? A nessuno, evidentemente, ma questa “soluzione non-risolutiva” è sembrata comunque meglio – giustamente – che continuare a scannarsi in nome di Dio.

Del resto avevamo già visto, nel nostro lungo excursus, per quali laboriosi e complessi processi si era arrivati ad ammettere, legittimare e infine impugnare la violenza nella risoluzione delle questioni di fede – e ciascuno può giudicare l’entità dei frutti di quelle evoluzioni. La nostra parabola s’era mostrata allora un portentoso catalizzatore di riflessioni sulla condotta da tenersi con gli eretici; del resto, c’è da aspettarsi che anche la nuova impostazione politico-religiosa dell’Europa (risultante almeno dalla Riforma, dal Concilio Tridentino e dalle “Paci” di Augusta-Westfalia) abbia potuto incidere sulla recezione della parabola. Per esempio, il concetto di “regio” (regione) è molto vicino all’idea del campo (che però rappresenta tutto il mondo); il fatto che nel “campo” debbono sussistere “il grano” e “la zizzania” (qualunque cosa essi siano, e chiunque essi si ritrovino ad essere) non poteva più dare adito a quella disinvoltura di cui nei secoli precedenti abbiamo dovuto prendere atto.

Ma vi avevo promesso degli “eretici cattolici”, per oggi! Chi saranno mai, e che vorrà mai dire “eretici cattolici”? Con quest’espressione ossimorica intendo individuare quel variegato indirizzo religioso (teologico e spirituale) che cade comunemente sotto il nome di “giansenismo”. Troppo lungo sarebbe discutere qui le finissime distinzioni dottrinali che le dispute contro i giansenisti hanno richiesto: ci basti ricordare che il giansenismo ha la sua “origine” in tale Cornelio Otto Giansenio, vescovo di Ypres, il quale proponeva una teologia largamente e radicalmente ispirata a sant’Agostino (con cui noi abbiamo più volte avuto a che fare). Figurarsi che tra le proposizioni di Giansenio condannate ce n’era una che suonava così: «Una cosa è vera se l’ha detta Agostino». Ma anche Giansenio e i giansenisti non sfuggirono alla “maledizione degli interpreti”, ossia a quella fatale attitudine a proiettare se stessi in ciò che si legge e di cui ci si innamora: come si spiegherebbe altrimenti che i gesuiti e gli altri cattolici che più vivacemente osteggiarono i giansenisti rimproverarono loro di essere dei semipelagiani (e Pelagio era l’eretico più ampiamente osteggiato da Agostino!)?

Povero Agostino: il primo editore moderno delle sue opere, a Basilea, non sapeva più che pesci pigliare, e nella prefazione chiese scusa al lettore attento se per caso avesse trovato tra gli scritti passati sotto suo nome qualcosa che di Agostino non era – ma a lui tutti si richiamavano, a ragione o a torto. Ad Agostino si rifaceva follemente Giansenio, ma ad Agostino si era rifatto follemente anche Lutero. Quel che è peggio, nel caso del giansenismo, è che anche dopo la condanna (postuma) di Giansenio (Innocenzo X, Cum occasione, 1653) i giansenisti continuarono a sentirsi nel giusto, e non stavano venendo meno in niente alla disciplina ecclesiale e alla prassi sacramentale cattolica! Moltissimi intellettuali e grandi anime dell’epoca – si pensi a Blaise Pascal, la cui sorella Jacqueline fu monaca proprio a Port-Royal – videro nella scuola di Giansenio la reazione alla confusione in cui la cristianità europea versava, tra “Riforma” e “Controriforma”: la posizione gesuitica era blanda e lassista, ai loro occhî, e non avrebbe portato a quell’autentico rinnovamento della vita cristiana che tutti auspicavano, e in cui i giansenisti erano generalmente tanto impegnati da poter essere talvolta definiti “puri come angeli e superbi come demonî”. Basta questo per dire “cattolica” questa eresia? No, forse no, ma si aggiunga anche che le spire del pensiero (e del sentire) giansenistico arrivano ad alimentare per generazioni i pensatori cattolici (e anche i politici) anche mediante la meravigliosa statura umana e letteraria di Alessandro Manzoni.

Ma se il giansenismo è cosa che non omette di sfiorare perfino quel cattolicone del Manzoni, che cosa c’è che lo rende “eretico”? Volendo essere estremamente semplici (e sperando di non semplificare oltre la soglia della giustizia intellettuale) dovremmo dire che il giansenismo ritiene “cuore dell’agostinismo” (e quindi del cristianesimo!) la considerazione dell’immane gravità della condizione dell’uomo peccatore, e della sua irrecuperabilità al di là dell’azione redentrice di Gesù Cristo. Beh, questo è vero, certo: ma non abbiamo forse mostrato con dovizia di dettaglî che le migliori eresie sono quelle che portano in sé maggior percentuale di verità? Vediamo dunque, testi alla mano, dove questa verità, nel giansenismo, impazzisce.

Nicolas Fontaine scrisse (in un commento all’Explication de S. Augusti net des autres Pères latins sur le Nouveau Testament): «Bisogna che Gesù Cristo, il divino agricoltore delle nostre anime, avendo seminato in noi un qualche seme di virtù, noi teniamo incessantemente gli occhî protesi a lui, per pregarlo di portare a compimento quello che egli ha iniziato nel nostro cuore, e d’impedire che il demonio lo corrompa mediante la sua zizzania». Ragionevole, fin qui, ma sentite come procede: «Dovremmo pregare Gesù Cristo con gli Apostoli di spiegarci lui stesso questa parabola della zizzania, e di riempirci di un così grande terrore, spiegandocela, che essa ci faccia temere senza posa questo nemico delle nostre anime che veglia sempre per perderci» (pp. 89-90). Facilmente si potranno ritrovare in queste parole tracce delle peggiori deformazioni cui la dottrina cristiana sulla Grazia è mai arrivata, ma sentite fino a che punto giunge quest’autentica “teologia del terrore”: «Tutti gli uomini che nascono sulla terra non vi nascono se non come della zizzania che non è buona se non per essere gettata nel fuoco. Gesù Cristo mostra qui che è lui solo che opera la prima conversione nell’anima, e che da zizzania la rende buon grano per il potere del suo seme divino, ma il demonio cerca in seguito di corromperlo rendendolo – da buon grano e da figlio di Dio che per questa nascita divina era – figlio del mondo e del diavolo» (pp. 91-92). Ecco dunque che i nodi di questa pessima teologia vengono al pettine, e la sua grossolanità mascherata da devozione si palesa per ciò che è: sembra addirittura che non sia il diavolo a essere l’Anticristo, ma Cristo l’Antidiavolo, come se il demonio e la sua azione pervertitrice fossero originarie – tanto che l’interpretazione è portata a capovolgere la lettera del testo dicendo che Cristo semina in un campo in cui la zizzania (ossia noi tutti) già c’è!

Ma ora devo parlarvi almeno di un altro esponente della teologia portroyalista, altrimenti dovreste concludere che si tratta di una manica di pazzi, e non capireste cosa un uomo come Pascal poteva avere a che fare con siffatto modo di pensare. Parliamo di Pasquier Quesnel, anche lui condannato (Clemente XI, Unigenitus Dei Filius, 1713), il cui pensiero (notevolmente più fine e delicato di quello di Fontaine) ci porta a intravedere alcune delle considerazioni politico-religiose che accennavamo all’inizio: «Quando i giusti cominciano a far frutto, cominciano pure a provare su di sé la malizia degli empî. Le occasioni non rendono gli uomini cattivi, ma li fanno riconoscere per quello che sono». Distinguiamo subito un’eco dello stesso pessimismo antropologico, che si sviluppa ancora: «Egli [Dio] è il solo a sapere il bene che vuole tirarne fuori, e fino a dove deve arrivare la sua pazienza sull’empio, per la sua conversione, o per la sua condanna, o per la santificazione degli uomini dabbene». Per quest’unica ragione «bisogna moderare il proprio zelo per l’estirpazione degli eretici e dei malvagî», dal momento che «è decisamente essere contrapposti al suo Spirito, non preoccuparsi di strappare via del buon grano – ammesso e non concesso che si estirpi la zizzania!». Un buonuomo, il Quesnel, nonostante tutto: a parte i problemi sulla questione dell’inizio della fede e qualche spiffero urmodernista, aveva avuto la sensibilità e il buonsenso di ricordare che «la vera Chiesa non sarà liberata da tutte le occasioni di scandalo se non alla fine del mondo. Separarsene con il pretesto dei disordini è non conoscere né la Chiesa né le Scritture» (Le Nouveau Testament en français avec des réflexions morales sur chaque verset, pour en rendre la lecture plus utile, et la méditation plus aisée, I, pp. 167 ss.).

 

Foto: ritratto di Jacqueline-Marie-Angélique Arnauld, chiamata “La Mère Angélique”. Port-Royal des Champs.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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