Ultime notizie

Leopardi all’opera – le Operette all’Opera

Dalla satira pungente del Genio di Recanati un’avvincente, persuasiva (e convincente) proposta. Per il teatro. Per la vita

L’esigenza di stabilire un linguaggio comico per la lingua “moderna” italiana è stata vivamente sentita da Giacomo Leopardi. Checché se ne dica, il genio recanatese fu tutt’altro che un triste individuo avvizzito sulle sue “sudate carte”, e il suo pur noto impegno di artigiano linguistico, svolto in area mitteleuropea con sapiente disinvoltura e prudente disillusione, seppe individuare nella vis comica (per dirla con la celebre espressione di Terenzio) un punto nevralgico di una lingua che si proponga come modello letterario internazionale.

Tutto questo è balenato con evidenza nella deliziosa edizione teatrale delle Operette morali allestita da Mario Martone e Ippolita di Majo per la Fondazione del Teatro Stabile di Torino: grandi attori (specialmente un superbo Maurizio Donadoni), buona musica, scenografia di rara raffinatezza hanno dato corpo, luce e ombra a uno dei capolavori massimi del poeta della ginestra. Il quale, a dispetto della sua gigantesca statura letteraria, viene sempre e solo appiattito su stereotipi biografici degni piuttosto dell’esile e gracile corporatura che egli sortì dalla natura matrigna: Il sabato del villaggio, A Silvia, le gobbe, la sfortuna in amore, e il quadretto del Leopardi è mediamente bell’e fatto, tutto confinato nel melodramma dell’intelligentone rachitico che si trova costretto a odiare tutti. Ebbe già in vita questa sorte, il meschino, ma chi ricordasse il suo straziante Ultimo canto di Saffo avrebbe l’indizio chiaro della sua ribellione al piccolo ruolo che l’intelligenza dei suoi lettori (il lato oscuro della fama!) gli affibbiava.

Tuttavia bisogna riconoscere che non è ai Paralipomeni alla Batracomiomachia che Leopardi deve la sua incorruttibile corona di gloria terrena, bensì al piccolo libretto dei Canti. La lirica fu dunque la dimensione che fin dai pochi decennî della vita parve dare al giovane poeta tanta visibilità quanta costrizione. Il periodo in cui egli si pose a gettare le basi delle sue Operette morali fu pure quello che – significativamente – lo vide sospendere la scrittura poetica. Leopardi era alla ricerca di un genere che godesse della malleabilità della prosa e della potenza evocativa della poesia: un genere in cui il fantastico, il mistico, il terribile, il grottesco e il comico potessero coesistere armoniosamente. Nacquero così, in varie fasi, i ventiquattro testi delle Operette, dialoghi o novelle, in cui venivano più o meno misericordiosamente bersagliate le più disparate attitudini e credenze del genere umano, e in cui venivano più o meno solennemente celebrate le paradossali glorie della stirpe umana.

Il testo affonda le radici nella drammaturgia e nella prosa “classica”, giacché in Luciano si ravvede il nume ispiratore del variegato genere dell’opera, ma portare in teatro un testo comprendente ventiquattro brevi pièces (o, con parola inglese, sketch) tali che la scenografia propria di uno sia lo scantinato di un anatomista e quella di un altro l’”ipouranio” dove Atlante sostiene la volta celeste non è stata una cosa semplice. Come accade di consueto, più la soluzione è geniale più è a portata di mano: «Lo spazio reale – scrive la fluente penna di Ippolita di Majo – è quello della biblioteca del padre Monaldo, a Recanati; è quella la scena in cui prendono corpo i fantasmi che accompagnano i giorni e le notti di Leopardi […]. Sono dèi, spiriti, uomini d’ingegno, filosofi antichi e moderni». Spesso il lettore resta fortemente sorpreso dall’ironia pungente di un Autore che ha imparato a conoscere per un inguaribile depresso: è lo stereotipo del depresso che rende ingiustizia al comico, e viceversa (chi s’immaginerebbe facilmente, del resto, le serate malinconiche di Mozart?). Eppure Leopardi annotava, nello Zibaldone, che «a volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente e durevolmente… deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante». Tanto basterebbe a dire perché i cinepanettoni lasciano il tempo che trovano, dopo aver pagato risate vuote con le solite quattro trovate da ostello, ma il programma di Leopardi si sporge fino a «portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali della calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, […] ec.».

Nella cornice scenica della biblioteca del padre la vera cornice risulta essere in realtà la solitaria scatola cranica del giovane Giacomo, circondata da ridde di idee, suggestioni, analisi, come lì – sulla ribalta – erano stati sistemati alcuni dei posti per il pubblico: in quella cornice i varî alter ego che nel corso delle Operette Leopardi si dava trovavano l’occasione per fondersi in un solo personaggio che, senza più alcun nome, ricalcava con le semplici fattezze la statura, i modi, l’arguzia e la sconsolata malinconia del Recanatese (interpretato da un bravissimo Roberto De Francesco).

Una scelta è stata operata pure in merito ai testi, che sono stati adattati ciascuno nella sua integrità (salvo l’Elogio degli uccelli), ma non tutti nell’insieme. La scelta, del resto, non dovette essere consigliata da soli motivi di brevità (diciotto temi su ventiquattro sono comunque stati rappresentati), ma anche dall’intento compositivo, che ha voluto dividere e disporre le tappe sceniche secondo un preciso intento.

È possibile infatti ravvisare nelle prime undici scene rappresentate la ricorrenza del tema classicamente formulato come “del pessimismo cosmico”, e parimenti nelle ultime sette una maggiore insistenza sugli argomenti classici del cosiddetto “pessimismo storico” – la cui disposizione inversa risulta però capace, forse non contro gli intenti dello stesso Leopardi, di risolversi alla fine nello schizzo di un umanesimo tragico, barcollante e ferito ma nobile e umilmente fiero della propria “vocazione all’assurdo” (in senso esistenziale, non religioso).

Giove stesso apre la scena ricapitolando con grave solennità la Storia del genere umano, destinato per arcaica colpa (non s’intenda “peccato originale”) a subire, nello sconfinare metastorico della classicità nella modernità, lo spietato dispotismo della verità, che esso aveva ingenuamente preteso conoscere. Il tono tragico viene immediatamente alleggerito dal Dialogo di Ercole e di Atlante sul mondo, sugli uomini (che fanno? sono ancora vivi?), durante il quale i due provano due lancî di baseball con il geoide degli uomini, tanto per “ammazzare l’eternità”.

L’indifferenza che la Terra mostra per i suoi abitanti, conversando in merito con la Luna, si rispecchia con la gelida accoglienza che la Natura riserva all’Islandese che la fugge: le miserie degli uomini, condannati a desiderare una felicità impossibile (Malambruno e Farfarello, Torquato Tasso e il suo genio familiare) trovano quiete solo nel sonno senza sogni, che più d’ogni cosa assomiglia alla morte – in cui tutto tace. Il mistero del baratro viene sfiorato dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, ma pure lì la cessazione di un prodigioso incantesimo riporta le mummie nel sonno delle cose un istante prima che possano rispondere alla domanda più alta del vivente.

Al passaggio tra le due parti la scaletta si volge a considerare non i flagelli ciechi della matrigna indifferente, ma le inspiegabili aberrazioni della razza umana: La scommessa di Prometeo porta un riso amarissimo tanto sulle ingenuità rousseauiane circa il “buon selvaggio” quanto su quelle comtiane in merito alle “magnifiche sorti e progressive” – schizofrenica autoillusione del “secol superbo e sciocco”. A mitigare l’amaro sono due sorelle, perché nel Dialogo della Moda e della Morte convivono insieme, e pianificando la medesima missione, il tormento degli uomini (ciò che anima la moda) e il loro estremo sollievo (tutto sommato, la morte).

Gli ultimi quattro pezzi rappresentati sono invece singolarmente disparati, e per essi viene precisamente delineato quel bozzetto d’umanesimo possibile e, solo, necessario, nella mente di Leopardi: il Venditore di almanacchi è costretto a confessare al Passeggere che, nonostante suo mestiere sia augurare “il tempo felice”, non c’è ancora stato per lui un tempo felice; la crisi viene rapidamente ricomposta nell’ordinario acquisto dell’almanacco. Che nella vita, quindi, si deve andare avanti, è detto nel modo più toccante possibile nello struggente Dialogo di Plotino e di Porfirio, in cui il discepolo confessa, sotto le pressioni del maestro, di star lungamente meditando il suicidio, e viene da questi ripreso con la fermezza dolce e supplicante di un padre: «…e senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro?». La penultima parola spetta a Tristano, estremo alter ego del genio di Recanati, che protesta per sé la libertà di essere “infelicissimo” nonostante il mondo paia sapersi dare tutte le ragioni d’apparire oltremodo felice. La scena finale, però, viene data al Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, dove il cielo, la terra e il mare, l’avere acqua sotto i piedi da mesi e l’essersi fatti sensibilissimi a ogni alito di brezza sono finissime metafore delle attitudini per cui gli uomini galleggiano tenacemente nell’oceano dell’essere.

Non ci sono promesse, non ricette né favole. C’è il fascinoso progetto di un’umanità aporetica ma dignitosa, nelle Operette morali, e il prodigio teatrale di Martone ce lo ha ricordato.

 

 

Foto: (da destra) Maurizio Donadoni e Renato Carpentieri nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
Contact: Website