Ultime notizie

È mio fratello

Due edizioni di una perla unica della canzone italiana: Mimì e Claudio – un vero Gesù?

Abbiamo dedicato le ultime due settimane a considerare alcuni aspetti della religiosità di Fabrizio De Andre’ per come paiono emergere da notevoli prodotti del suo genio poetico (Si chiamava Gesù e La buona novella) ; in particolare – ormai sarà evidente – ci stiamo interessando alle modalità con cui la figura di Gesù emerge dalla produzione musicale contemporanea.

Il panorama italiano non può dirsi nemmeno abbozzato se non si fa riferimento a un’altra grande canzone, la quale ebbe una sorte se possibile ancora più travagliata di quelle di De Andre’. Per il Genovese, infatti, non ci fu solo la censura dei vecchî brontoloni, ma anche il sincero interesse che gli si rivolgeva da più parti, persino dallo stesso Paolo VI; non capitò lo stesso al pezzo che consideriamo oggi, il quale – ecco perché ancora non lo nominiamo – ebbe tre autori, due distinti interpreti, due titoli consecutivi e due versioni (persino scritte in due “lingue” differenti). Si chiamava Gesù è mio fratello, la canzone, interpretata e pubblicata da Mia Martini nel 1971, nell’album Oltre la collina; l’autore della musica era Antonio Coggio, mentre il testo fu scritto da un ancora semisconosciuto Claudio Baglioni (a quattro mani, pare, con tale “Oremus”*). È davvero difficile immaginarsi il clima di quegli anni, specie per chi (come me) non li ha vissuti, se si pensa che solo il titolo poté essere ragione di reprimende critiche e di strettoie radiofoniche: se per molti, del resto, non era inammissibile vedere striscioni che rappresentavano fianco a fianco Paolo VI ed Ernesto Che Guevara, per altri simili manifestazioni dovevano essere state causa di grande ansia e di una tensione che sfiorava il terrore: verso dove si stava andando?

Probabilmente, in ogni caso, i censori che si sono tanto scandalizzati del titolo (e che hanno portato gli autori e l’interprete a cambiarlo poco dopo in “Gesù, caro fratello”) non s’erano arrischiati nell’ascolto del pezzo, dal quale sarebbero rimasti invece semplicemente edificati. Può darsi, certo, che alla damnatio preventiva della canzone abbia contribuito anche la disordinata, inquieta vita dell’interprete, che pochi anni prima aveva esperito il carcere per detenzione di stupefacenti; è difficilmente immaginabile, però, una voce rauca e graffiante quanto quella della Martini, che ha forse potuto dare un’interpretazione tanto viscerale anche in virtù dei suoi conflitti e della sua ansiosa infelicità.

Il testo si rivela di buona portata culturale, dotato di grande sensibilità lessicale e provvisto di una sorprendente capacità di critica storica: la canzone comincia infatti, rivolgendosi direttamente a Gesù in un dialogo, dalla morte di Gesù e di suo Padre. No, non si tratta di rigurgiti di Patripassianismo (un’eresia trinitaria dei primi secoli, che voleva salvaguardare l’unità di Dio ammettendo che era lo stesso Dio “Padre” che s’era incarnato e manifestato come “Figlio”), ma più semplicemente di un riferimento all’ateismo moderno-postindustriale: «Ci dissero i padri» è formula tipica, dalla Scrittura alle definizioni dogmatiche, delle professioni di fede, e qui viene ironicamente capovolta a indicare “i maestri del sospetto” (Nietzsche, Freud, Marx…), che hanno insegnato ai loro figlî “la fede dell’ateismo”. La maledizione di Laio, però, e i colpi del conflitto generazionale, si abbattono anche sui maestri del sospetto, perché i loro figlî descrivono con crudo disincanto i frutti della mistificazione paterna: «Soli restammo chiusi / tra la noia e la paura. / Aggrappati a paradisi artificiali, trovati / in una stanza di luce nera».

La distanza tra l’ammissione dell’«e così […] ti abbiamo perduto» e la conquista dell’«abbiamo trovato te, ritrovato te» è riempita da due versi in cui si alterna per due volte il duplice moto dell’attesa di Dio e della sua ricerca; l’esito è tutto calcato dalla musica sul prefisso “ri-” di “ritrovato”, che la voce della Martini trasforma in un brivido. Le diverse tracce vocali sovrapposte, insieme con il tappeto sonoro dei vocalisti, formano un sound tipico di quegli anni (che si ritrova marcatamente anche ne La buona novella di De Andre’, in particolare nei movimenti corali come quello di Laudate hominem): è il sound con cui piaceva esprimere, tra l’altro, la ri-trovata e ri-approfondita coscienza comunitaria della vita religiosa.

Non manca niente all’appello dei luoghi in cui Gesù viene ritrovato: non manca la natura, non manca l’umanità (gioiosa e sofferente), non mancano la cultura e il genio (“le canzoni popolari” e “la musica di Bach”). L’effetto è dirompente: «Fu come riavere la vista dopo mille anni […] Fu come un giorno di pace, primo giorno di pace – è finita la guerra». Solo a questo punto, nella versione originale, Gesù viene chiamato “caro fratello” (“caro fratello ritrovato”): lo scarto che c’è tra quest’espressione e il “fratello anche mio” che rilevavamo in merito a La buona novella è rimarchevole, perché qui non si avverte affatto la bruciante incompatibilità tra il mistero trascendente di Cristo (Figlio di un Padre «che governa il cieli e il tempo») e il suo essere fratello degli uomini. Cristo è, qui, uno che può essere, sì, perduto, ma anche “ritrovato”, e che può dissolvere l’horror vacui che “i padri” avevano elevato a sistema. Un tratto tipico dell’idea di Gesù che in quegli anni si aveva, dentro e fuori dalla Chiesa, è dato infine dalla scelta del versetto emblematico delle “immense parole” di Gesù: «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una frase che Gesù ripete citando la legge mosaica (Lev 19,18), tanto che non tutti gli evangelisti la riportano sulle sue labbra (ma su quelle di un interlocutore), per distinguerla nettamente dalle parole proprie di Gesù. Sarebbe senz’altro esagerato – e possiamo trarne un sorriso distensivo – spingersi a ritenere che gli Autori avrebbero detto “di Gesù” queste parole in quanto nessun altri che il Figlio di Dio, non ancora incarnato, le avrebbe rivelate agli agiografi veterotestamentarî!

Sei anni dopo, invece, usciva Gesù, caro fratello nell’album Solo, di Baglioni. Per qualche ragione su cui a suo tempo molto si scrisse e che sarebbe interessante approfondire oggi a quattr’occhî con il cantante stesso, Baglioni non si limitò a interpretare il brano, ma ne riscrisse il testo – avvalendosi di un lessico marcatamente caratterizzato dal dialetto romanesco. In larghe parti si tratta semplicemente di una “traduzione”, ma i rimaneggiamenti sono più che significativi, tanto da spiegarsi a fatica da parte della stessa penna che aveva steso la prima versione. Con un’osservazione sommaria, ma non inesatta, si nota che è la seconda parte del testo quella che resta più volutamente fedele alla struttura della prima versione, talvolta “traducendo”, talvolta parafrasando largamente i concetti in romanesco: a parte l’interpretazione (il “ri-” della Martini, che dicevamo sopra, è quasi scomparso), l’intento generale pare proprio quello di alleggerire l’assetto culturale del primo testo. Così sparisce Bach, spariscono i pur banali tòpoi dell’ispirazione poetica («l’occhio delle stelle», il «sapore del mattino», «l’erba tenera dei prati») e restano gli aspetti più “popolari” dell’orizzonte in cui “le persone comuni” (altro mito degli anni ’70) possono vivere la fede esperendo la presenza di Cristo.

La vera differenza, però, è nelle prime strofe. La prima cambia totalmente registro (in accordo con quanto abbiamo appena detto sulla seconda parte) e riassume in poche disparatissime immagini uno scorcio delle più evidenti aberrazioni nell’uso del nome di Gesù: il commercio, spesso anche decontestualizzato da una pur minima parvenza di attinenza a temi cristiani (in fondo nella stessa vetrina stanno i crocifissi, le magliette del Che e le statuette del Duce); la politica e le sue “esigenze istituzionali”, che non di rado hanno scandalizzato gli anawîm; la propaganda guerrafondaia, che è stata capace di fare di Gesù un guerrigliero in nome di istanze giustizialiste certamente non attigue allo spirito evangelico; la terribile copertura religiosa che si può dare a ogni violenza e a ogni fanatismo. La strofa è difficile, ma non inaccettabile: la si sarebbe certo potuto accompagnare con una seconda strofa più all’altezza della prima. Questa evita, infatti, d’includere l’io lirico del testo nella cerchia di quanti possono operare le distorsioni di cui nella prima strofa: perché tra quelli che «t’hanno sbattuto addosso a ‘na croce / e poi dimenticato» non c’è anche il Poeta? Gli ultimi tre versi riecheggiano di lontanissimo la tragica determinazione ateo-religiosa del “grande inquisitore” di Dostoevskij, ma mi vergogno anche solo di aver azzardato il rimando.

Questo Gesù, del resto, “era certo troppo bono”, e quell’imperfetto è la buccia di banana su cui scivola tutto un brano che altrimenti sarebbe stato (con meno spessore “culturale”, forse) in piedi come l’altro: la bontà di Gesù pare così una qualità “accessoria”, per quanto peculiare, della sua personalità. È ciò che, in fin dei conti, l’ha portato indisgiungibilmente alla croce e alla fama immortale (marcata, peraltro, dalle tante contraddizioni che abbiamo già detto). Peccato che il secondo testo abbia perso quel basamento autenticamente religioso che nel primo non mancava: nulla permette di garantire, a questo punto, che il credere d’aver ritrovato Gesù sia meno illusorio del credere di averlo perduto; e se di illusione si tratta c’è ben poco per cui dire: «Cantamo ‘nsieme / la gioia d’ésse’ vivi».

Tantomeno c’è un motivo per lasciarsi persuadere dalle «immense parole: “Ama er prossimo tuo come te stesso…”».

 

 

 

*: Quanto al secondo autore del testo, la faccenda è un tantino misteriosa: tutte le fonti riportano questa parola, senza premettere alcuna iniziale puntata come si farebbe nel caso di un cognome preceduto dal nome. Che dire? Era il nome d’arte di un oscuro paroliere, cui non si dovrebbe più nient’altro che il nostro brano, o piuttosto c’è stato un dilagare di informazioni trascritte e ripetute in “ignorante buona fede”, dopo che un primo avrà preso per il nome di un autore qualcos’altro? O, ancora, Stephen Oremus scriveva testi in italiano prima di nascere?

 

Foto: Marc Chagall, Esodo, 1952-1966 (particolare).

«Un giorno, io lo so, mi accoglierai e della morte svanirà il ricordo ma non l’amore, e della vita svanirà il mistero ma non l’incanto. Ed al compagno delle mie paure potrò mostrare finalmente quanto – segretamente – io desideravo che mi fosse accanto nel giorno della Tua rivelazione» (Marc Chagall)

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
Contact: Website

2 Trackbacks & Pingbacks

  1. Un Salvatore disoccupato?
  2. Quei simpaticoni dei farisei

I commenti sono bloccati.