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La vita tra disciplina e «calcio scommesse»

La cronaca, affetta da conclamata bulimia per i casi di «nera» che da Avetrana arrivano a Brembate di Sopra, ha trovato, in questi giorni, una valida alternativa nell’inchiesta denominata «calcio scommesse». Calciatori ed ex giocatori professionisti, dopo un’indagine durata mesi, sono stati indagati perchè ingranaggi di una vera e propria organizzazione criminale che, condizionando i risultati di alcuni incontri, effettuava poi puntate di consistenti somme di denaro attraverso i circuiti legali delle scommesse. Tra gli arrestati vi sono anche titolari di agenzie di scommesse sparse un po’ in tutta Italia, compresa Pescara. La vicenda è ancora tutta da accertare e, quindi, non indugiamo ulteriormente nei dettagli; tuttavia, visto che periodicamente siamo costretti a parlare di calcio, non per lo sport ma per la cronaca giudiziaria, proviamo a riflettere sul fenomeno, partendo da un’intervista rilasciata al SIR (clicca link) dal noto telecronista Bruno Pizzul. Pur esprimendosi con doverosa cautela, il giornalista non esita ad ammettere che il «calcio scommesse», come tutti gli altri casi di corruzione legati al calcio, rappresenti un profondo tradimento del sentire comune per il quale lo sport dovrebbe sempre essere caratterizzato da comportamenti virtuosi e, ancor di più, luogo privilegiato per la crescita non solo agonistica ma anche morale e civile dei giovani; Pizzul, tuttavia, libera il suo discorso da ogni possibile moralismo quando afferma, con sensata concretezza, che nessuno può, in ogni caso, dirsi sorpreso che, «laddove ci sono troppe attenzioni di carattere materiale ovvero troppi soldi e il risultato sportivo dà fama e ricchezza», scatti la tentazione di raggiungere l’obiettivo a tutti i costi anche ricorrendo alle vie illegali.

Questa contraddizione, evidenziata da Pizzul, per cui lo sport da una parte sarebbe capace di costruire e far transitare verso la società valori e virtù, dall’altra, invece, sarebbe fortemente condizionato dalla cultura del tempo e quindi esposto alla possibilità che siano i vizi della società a transitare verso di esso, se andiamo a ritroso nella storia, sembrerebbe non appartenere solo alla nostra epoca.

Già nelle Poleis greche lo sport – usiamo la parola sport per comodità espositiva, ma dovremmo parlare di paideia ginnica, si prefiggeva come obiettivo non solo di educare i giovani  (aristocratici, maschi e fisicamente perfetti) al conseguimento di eccezionali risultati agonistici, ma soprattutto ad una completa formazione umana, perseguendo la kalokagathia, il perfetto equilibrio tra armonia fisica e virtù (aretè). Tuttavia, come documenta lo storico K. W. Weeber, in un curioso libro dal titolo «Olimpia ed i suoi sponsor» (Garzanti, Milano 1992, pg. 43 e ss.), anche nell’antica Grecia l’agone sportivo era caratterizzato da «atti di corruzione e traffici loschi»:

-nel 388 a. C., il pugile Eupolo, per conquistare la vittoria olimpica, pagò grosse somme di denaro ai suoi avversari;

-nel 322 a. C., Callippo corruppe i suoi avversari per vincere una gara di pentathlon;

-nel 125 a. C., due pugilatori truccarono l’incontro.

Per combattere la corruzione nello sport, nell’antica Grecia, furono istituiti anche dei giudici chiamati «Ellanodici» che giuravano di «rendere il proprio verdetto senza dono e secondo giustizia». Quando si accertavano casi di corruzione, c’erano processi esemplari e si imponevano sanzioni pesanti consistenti nel pagamento di multe molto elevate. Con il denaro proveniente dal pagamento delle multe si costruivano, poi, delle statue dedicate a Zeus, chiamate “Zanes”.  Come prova definitiva della presenza di illeciti sportivi anche in epoca antica, ricordiamo che nel 393 d. C., del resto, l’imperatore romano Teodosio soppresse i giochi olimpici, su richiesta del vescovo di Milano, proprio perché questi era preoccupato per la diffusa corruzione e lo spirito di competizione accesa e di ambizione estrema presente tra gli atleti. Del resto, per corroborare quanto detto, basterebbe solo evocare la formula «panem et circenses», coniata dal poeta romano Decimus Iunius Iuvenalis nella sua opera Satire (10, 81), con la quale si voleva indicare che in una società decadente, qualora scomparissero anche tutti gli scopi più alti, certo rimarrebbe ciò di cui l’uomo non può fare a meno, appunto «pane e giochi del circo».

A questo punto, allora, rimane da chiedersi perché in ogni società antica o moderna, virtuosa o corrotta, lo sport abbia sempre esercitato questo indiscusso fascino tanto da osare, addirittura, rivendicare la stessa importanza del pane.

Questa domanda fu posta, non sorprendetevi, nel 1978, all’inizio del Campionato Mondiale di calcio disputato in Argentina, al cinquantunenne cardinale Joseph Ratzinger durante un intervento alla radio Bavarese («Zum Sonntag») (per i riferimenti bibliografici, clicca link), nel quale ebbe modo di esprimere il suo pensiero sul calcio e sullo sport in generale. Il cardinale sostenne, innanzitutto, che, poichè nessun altro avvenimento sulla terra riesce ad ottenere un simile coinvolgimento di tante persone come gli eventi sportivi e, in particolare, il calcio, questo attesta, inequivocabilmente, che il gioco si fonda su qualcosa di «umanamente primordiale». Il gioco coinciderebbe, infatti, con il tentativo dell’uomo di «oltrepassare la vita quotidiana» verso una sorta di «tentato ritorno nel paradiso»: attraverso il gioco l’uomo ricerca l’uscita dalla «serietà schiavizzante» della vita di tutti giorni e la soddisfazione dei suoi bisogni verso la «serietà libera» («freien Ernst»). Nel gioco, infatti, il superamento della vita quotidiana, la libertà, si realizza solo attraverso la disciplina: con il rispetto delle regole si esercitano lo stare insieme («Miteinander»), la competizione («Gegeneinander») e l’armonia con se stessi («Auskommen mit sich selbst»).

Gli spettatori, assistendo alla partita, s’identificano con il gioco e con i giocatori e, in questo modo, partecipano loro stessi al gioco nel suo aspetto comunitario e in quello competitivo, imparando «la serietà e la libertà del gioco nella disciplina». Tuttavia, questa suprema dignità del gioco, sottolinea Ratzinger, è sempre esposta al pericolo di essere corrotta facilmente da «uno spirito affaristico che sottomette tutto al denaro e che altera il gioco in un’industria nella quale si annidano pericoli e tentazioni». Ma proprio l’essere esposto a questo pericolo rende il gioco, ancora di più, una realistica scuola di vita che, paradigmaticamente, ne evidenzia tutte le caratteristiche fondamentali: l’uomo non vive solamente del pane, anzi, il mondo del pane è solo il primo stadio del veramente umano, cioè il mondo della libertà. «E la libertà, però, vive delle regole e della disciplina, che fanno imparare lo stare insieme («Miteinander») e la retta competizione («Gegeneinander»)».

Un’intervista, di più di trent’anni fa, dove un Papa scomodo per chi non lo conosce, sorprendente per chi lo legge, affermava che possiamo imparare a vivere dal gioco, perché, in fondo, la vita è un «gioco serio» nel quale bisogna imparare ad usare la libertà nella disciplina, schivando il pericolo, sempre incombente, di cadere in tutti i tipi di …«calcio scommesse».