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Susanna per adulti

La matura prova letteraria di un’autrice per bambini grandi

«Intendevo scrivere un libro – disse Virginia Woolf parlando della sua Mrs. Dallowayche contenesse tutto: la vita e la morte, la gioia e il dolore». A questo può pensare uno, mentre chiude sull’ultima pagina la copertina di Per sempre di Susanna Tamaro: duecentoventidue pagine protese a raccogliere semplicemente “tutto”. Non si tratta dei “brevi cenni sull’universo” che capita di ascoltare andando a sentire qualche conferenziere poco stimolato dal tema: da principio, meglio, si può anche avere l’impressione che la penna della Tamaro sia “a resa incostante” (perché a un tratto l’ispirata descrizione di un paesaggio invernale perde mordente e ricorda un tema svolto “solo” con encomiabile diligenza), ma il progressivo scorrere delle pagine scandisce un’escalation di eventi per i quali «le trame nascoste della vita» s’addensano sempre più evidentemente agli occhî del lettore, più di una volta costretti alle lacrime.

Dalla quarta di copertina si ha la chiara sensazione che il romanzo ruoti attorno al vuoto lasciato da una donna nella vita di un uomo, e in pochissime pagine si arriva a capire che il non meglio precisato “tu” del flusso narrativo è precisamente quella donna. Ma cos’è? Una lettera scritta da un uomo abbandonato nella speranza di ravvivare un rapporto logoro? La sovraccoperta annuisce sorniona: «“Esiste il ‘per sempre’?” mi avevi chiesto. […] “Esiste solo il ‘per sempre’” ti avevo risposto».

Difficilmente con un’ossatura del genere il romanzo potrebbe sostenere le promesse evocatrici del titolo senza scadere nel patetismo. Difatti, già verso pagina cinquanta si comincia ad avere la sensazione che niente di tutti quei ricordi, di tutta quella ricapitolazione, sia scritto per essere spedito o comunque partecipato alla conoscenza di chicchessia; è bravissima, la Tamaro, a dosare in un paziente e tenue crescendo l’ansia e l’aspettativa (senza un vero e proprio batticuore) per altre cinquanta belle pagine, finché solo a una dozzina di righe viene affidato il racconto dell’incidente, della morte, del rogo.

A questo punto si è soltanto a metà del libro, e ci si chiede se sia pensabile che l’Autrice abbia voluto giocare così presto la carta principale del racconto. Naturalmente no, e proprio di lì si capisce – entrando a un diverso livello del racconto – che la morte della donna non è ciò che accade a un certo punto, ma ciò che sottostà all’intero racconto. Essa ne è l’origine e il fine, nonché lo stesso percorso (almeno nel suo rovescio), e nessun recensore ruba niente a nessun lettore anticipandone il motivo.

I nomi subentrano gradatamente ai pronomi o agli appellativi: la Tamaro mostra di aver conseguito una perizia espressiva globalmente proporzionata all’acutezza dell’introspezione e della “contemplazione”, indiscutibilmente grande. Grande è la sapienza con cui viene attesa, invocata ed evocata la voce di tutti gli esseri, distintamente prima e poi nel pentolone comune di un essere semper maior che impone al pensiero a un tempo audacia e modestia. «Quella notte, abbracciato a lei, sentendo l’odore dei boschi in cui era cresciuta, il profumo della legna bruciata che i suoi capelli ancora sprigionavano, ascoltando la sua voce argentina che, con la purezza del cristallo, si levava sulla pesantezza della mia, mi sono convinto di aver finalmente trovato il porto […]» (p. 166): il primitivo e il definitivo, il naturale e l’artefatto scorrono in un indifferenziato (ma distinto) flusso energetico. Non si tratta di new age – non c’è bisogno di regalare ad estranei i gioielli di famiglia – e pure la citazione di Teofilo d’Antiochia che apre il volume sta a ricordarlo: «Dio ha dato alla terra il soffio che la nutre. Il suo alito dà vita a tutte le cose. E se egli trattenesse il suo soffio, tutto si annienterebbe. Questo soffio vibra nel tuo, nella tua voce. È il soffio di Dio che tu respiri e non lo sai» (p. 5).

Quando dunque i personaggî emergono coi loro nomi dalla storia c’è un uomo, Matteo, sospeso tra una realtà trascorsa fatta di professionalità, efficienza, ruoli, e una presente fatta di pazienza, auscultazione, ritmi; davanti e attorno a lui c’è la donna di cui parlavamo all’inizio, Nora, cristallizzata in un’icona di fresca saggezza nonostante la libertà dei suoi movimenti nella rievocazione di Matteo. Ci sono Davide e il piccolo non nato, figlî della coppia, il cui ruolo sembra accessorio fino ai colpi di scena finali, se non ci si vuole ridurre ad ammettere che esistono per incupire il quadro tragico della morte di Nora. Ci sono i genitori di Matteo, un cieco immigrato dalla Croazia, bello e carismatico, e una marchigiana rotondetta infiammata d’entusiasmo per le meraviglie scaturite dall’industria del sintetico. Di entrambi si dice pochissime volte il nome, ma quello del padre – Guido – si fa sentire più incisivo, anche perché lo si è aspettato per quasi tutto il libro. Nel segno del padre avverrà il richiamo di Matteo alle proprie origini, la laboriosa rielaborazione della propria vicenda e anche il riconoscimento che brilla nelle ultime pagine.

Nell’apparentemente casuale e caotico intreccio di incontri, colloquî e situazioni, è duplice il tema dominante che emerge dal monologo indirizzato da Matteo a Nora: Dio e il male. La Tamaro non rinnega la sua schietta ispirazione cattolica, ma (meglio: proprio per questo) neppure nega al suo romanzo il contributo vario di altre esperienze, altre prospettive: non solo il Matteo “del passato” attraversa una variegata gradazione di stadî d’insofferenza in merito al divino e al religioso, ma la contrapposizione (forse un po’ troppo netta) tra religiosità ancestrale-contadina e dottrinale-ecclesiastica, il confronto “impari” con la fede gioiosa e serena di Nora, l’incontro con una medium e altri spunti di colloquî dànno l’idea di un mondo in cui le cose non sono “chiare e distinte” se non rarissimamente. In omaggio alla vita “vera”, in Per sempre non c’è una voce che dispensi veramente tutta la saggezza e la verità stagliandosi sulle altre: «la via è la vita», insegna Matteo (con vaga allusione evangelica): «“Come si fa a diventare cosi saggi?” mi ha chiesto una persona, una volta. “Si deve attraversare l’inferno” gli ho risposto. “Per andare in alto è necessario, prima, scendere molto in basso”». Seguire il racconto di Matteo significa essere indotti da pagine di fine mestiere scrittorio ad accostare fino all’identificazione il vecchio illuminato e accogliente con un personaggio oscuro e abbietto, che si rivela capace di premeditazioni tra le più ripugnanti. Per questo il dialogo continua: «“Ma come si fa ad uscire dall’inferno?” ha incalzato il mio ospite. “Bisogna affidarsi agli incontri”. Allora per trovare la strada, si deve prima perderla?” mi ha domandato perplesso. “Sì, come Pollicino nel bosco” ho sorriso. “È necessario perdersi per ritrovarsi”» (p. 180). Ora, questa necessità ha poco di fatalistico, se non nel senso che – come per la stessa situazione di Matteo in quanto voce narrante – è dovuta allo stato di deiezione in cui da sempre per qualche motivo tutti gli uomini sono. A questo proposito va segnalata una piccola incongruenza concettuale della Tamaro, forse una scelta infelice per un verbo: il programma di ritrovamento di sé parrebbe avere per fine il «tornare allo sguardo privo di malizia, di corruzione, quello sguardo che, davanti a ogni evento, invece di scorgere un mezzo, vede una possibilità d’amore» (p. 182); tuttavia non pare congruente, l’immagine del mero “ritorno” all’origine, con l’idea del traguardo posto al di là della perdizione. «“La natura allora è crudele” rispondono, indignati. “La crudeltà è la prima risposta”. “E la seconda?”. “La seconda è che ci chiede di comprenderla”» (p. 211).

Certamente autorevole, dal punto di vista religioso, la figura di don Marco, sacerdote anconetano dai tratti essenziali e sobrî, ma quella sua stessa sobrietà non pare venire da altro che dal sapiente buonsenso di costeggiare discretamente il dolore altrui senza approntare spiegazioncine posticce: «“Non si tratta più di volontà, ma della cecità di un destino. Ad un certo punto la scure si abbatte e…” “E lo fa nel mucchio…” conclusi io. “E non si fa domande, non guarda in faccia a nessuno. Sarebbe bello poterla dirigere, illudersi che ci sia una selezione – scende e recide la vita ai malvagi, agli stanchi, ai malati… Invece no, scende e distrugge i giusti, i giovani i forti, gli innamorati della vita. Non ci si può che ribellare a questo» (p. 116).

Ogni consolazione umana viene definita da don Marco «come mettere un cerotto sullo squarcio di un bazooka» (p. 117), eppure uno dei più importanti Leitmotive del libro è l’asserto per cui «bisogna farsene una ragione: c’è una ragione per ogni cosa» (pp. 114, 148, 189, 213). La conquista di quella ragione sta per Matteo nello scoprire che, a dispetto delle numerosissime persone con cui la sua storia lo ha portato ad avere a che fare, pochissime sono quelle davvero importanti: Guido, il padre, è l’unica di queste che non dipende da Nora, mentre le altre sono in un modo o nell’altro legate all’immagine di quella che Matteo vede come la parte migliore di sé. Il nome di Davide era stato dato al figlio nel semplice desiderio di dare al primogenito un nome regale, ma nel rimpianto per il nato e per il non nato perduti nel rogo Matteo scoprirà che quel nome si addice più a lui che al povero innocente: per la bontà d’animo della fanciullezza, per le risorse dispiegate con generosità nella giovinezza e per l’abisso della depravazione criminale, perlustrato palmo a palmo. La ragione delle cose brilla a Matteo/Davide con tutta la sua sfolgorante evidenza, quando si presenta a lui il suo personalissimo Nathan.

Impossibile, d’ora in poi, pensare a Susanna Tamaro semplicemente come a “quella di Va’ dove ti porta il cuore”.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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