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Il conto del padrone di tutto

Erri De Luca: cosa piega le ginocchia di un uomo e gli dona la pace cui è destinato

Quanto pesa una farfalla? Che forza si esercita, effettivamente, per la legge di gravitazione universale, su di un corpo il cui moto volatile pare mostrare, zigzagando, che la tensione superficiale sopra l’ala è sempre comunque uguale a quella inferiore? Sarebbe un assurdo, e di fatto non potrebbe sussistere alcun volo, in queste condizioni. Eppure l’improvviso e apparentemente casuale poggiarsi di una farfalla su un oggetto si rivela insospettabilmente capace di decretarne l’ora suprema, il momento decisivo. Questa è la farfalla di Erri De Luca, che non traluce nel suo testo, dopo il titolo, se non in filigrana (come in ogni parabola che si rispetti). Il testo è tanto breve (appena sessanta pagine) quanto denso e gustoso: una contenutissima opera cesellata con la cura di un maestro fiammingo. Invece è il montanaro di origine napoletana a dar voce al muto lògos delle cose, con l’inspiegabile esigenza di chi si professa schiettamente non credente e però non può fare a meno di vivere scrutando le Scritture d’Israele (nelle loro lingue originali, perfino).

Che cos’è, dunque, questa farfalla il cui peso De Luca ha ritenuto sufficientemente interessante da dedicare ad esso uno scritto così denso ed elaborato? Ogni risposta rischierebbe forse, per principio, di mostrarsi troppo didascalica a fronte dell’eloquenza poetica dell’autore partenopeo; la trama dei rimandi, però, le analogie e le antilogie, i parallelismi tra i personaggî, sono così tanti, così schietti e così curati, che si resta imbarazzati tra il rischio certo della noncuranza in cui potrebbero cadere nella lettura e il rischio certo dello spegnere la vitale bellezza del testo in una sterile vivisezione.

«Una farfalla bianca sta sul corno del re dei camosci, – scrive chi presenta il testo in copertina – un fucile sta a tracolla del vecchio cacciatore di montagna. Li attende un duello differito negli anni. Più che la loro sorte, qui si decide la verità di due esistenze opposte». Tutto vero, e nella sua concisione la chiave di lettura risulta ben congruente al contenuto, eccetto che per l’ultima parola: il testo di De Luca non conosce l’ingenua illusione romantica della superiorità degli animali agli uomini, o meglio, pur teorizzandola (p. 22) non riesce a non sentire un retrogusto scetticheggiante per questa posizione. Così il camoscio e il cacciatore risultano, in Il peso della farfalla, figure fortemente analogiche, tanto che entrambi vengono chiamati (con diverse accentuazioni) “il re dei camosci” (pp. 23-24). In realtà il personaggio animale e quello umano sono, in De Luca, sottoposti a un costante processo osmotico, che prosegue a oltranza pur nella certezza di non poter essere totale. C’è un divario incolmabile tra i due, quantunque il camoscio venga chiaramente antropomorfizzato dall’Autore e viceversa il cacciatore assuma non di rado tratti ferini (anche per il deliberato intento della sua coscienza letteraria): questo divario verrà improvvisamente colmato, in extremis, solo dalla portata semantica della farfalla, ed è correttissimo intuire nell’analogia tra il corno e il fucile quella, metonimica, tra il camoscio e il cacciatore. La farfalla è la cifra di questa analogia: essa è, nel suo moto incostante e imprevedibile per l’apparente casualità, il segno della grande similitudine in virtù della quale l’uomo si ritrova in tutte le cose e in tutte si legge e si scrive a parole (perché questo libro, come tutti gli altri, l’ha scritto un uomo e non un camoscio), e al contempo dell’irriducibile differenza tra sé e tutto il resto.

I due sono accomunati da un rapporto particolare con le leggi, della società e della natura: entrambi le hanno violate, guadagnandosi con bruta forza (la quale è sempre e solo, in “entrambi”, miscela di forza fisica e di phrònesis) il loro posto nel mondo. Entrambi hanno imparato cose che le loro specie non conoscono, e trasmetterle loro (ammesso che esse abbiano la capacità di apprenderle) non rientra tra le loro preoccupazioni: scavare con gli zoccoli dei ripari nella terra (pp. 25-26), cibarsi delle cime degli alberi (pp. 26-27), e poi lo scalare la roccia a mani nude, avendo in mente l’impossibile come mezzo, non come fine (pp. 19.13), e per questo compiendolo con nonchalance quasi insoddisfatta, perfino sprezzante. Il camoscio e il cacciatore sono in costante dialettica con le leggi (di gravità, della natura, della morale, della società), di modo che mentre le calpestano le dominano, e grazie ad esse sono ciò che sono: senzalegge, ovvero fuorilegge, quindi “sopralegge”. Ma il camoscio e il cacciatore sono figlî di una penna ormai non più bastantemente ingenua da riprodurre in bella copia lo schemino “servo-padrone”, e se pure a Hegel si deve il “culto della necessità”, che incalza tutte le pagine de Il peso della farfalla, esso è tutt’altro che risplendente dei fulgori della ragione idealista: tenebrosa è, misteriosa e perfino misterica. Tra di loro il peso dei trascorsi personali (pp. 15. 54) non spinge mai a determinare gli atteggiamenti reciproci: essi devono la loro consistenza e il loro orientamento, invece, alla consapevolezza che entrambi, prima di essere in relazione tra di loro, sono in relazione con l’oscura sorgente delle cose, che ne reclama irrevocabilmente il riassorbimento. Ecco perché il camoscio non è “orgoglioso” dell’essere di fatto padre di quasi tutti i camoscî del branco: «Non ne era orgoglioso, aveva fatto il volere della vita» (p. 14). L’orgoglio è sentimento “umano, troppo umano” per la maschera “animale” del superuomo che ha intravisto la cieca necessità dell’essere, (forse?) votata al nulla.

Che valore ha la colpa, in siffatto orizzonte di precomprensione? Ecco che De Luca apre, grazie alla rievocazione della giovinezza del cacciatore, un’inattesa serie di considerazioni sugli anni delle contestazioni sessantottine, cui il suo personaggio aveva condiviso i principî e – coerentemente – anche gli esiti più feroci: il tentativo sessantottino è visto, al di qua di ogni giudizio e di ogni valutazione, come il tentativo di darsi «una legge diversa da quella stabilita» (p. 17). «Voleva essere primizia di tempi opposti, dichiarava falsa ogni moneta. Non aveva diritto all’amore, pochi di loro ebbero figli durante gli anni rivoluzionari. Mai più si è visto un altro accanimento a rovesciare il piatto, in una gioventù. Un piatto sottosopra contiene poco però ha la base più larga, sta piantato meglio» (ibid.). Non c’è pentimento, nel passaggio dalla contestazione al bracconaggio, né indurimento: solo onesta, lucida e impassibile consequenzialità. E chi avrebbe stabilito la “legge stabilita”, che i due personaggî hanno violato per vivere e guadagnarsi il loro mondo? «Gli serviva credere che c’era un capomastro e che il mondo era il suo manufatto? Non serviva per parlargli, per crederlo in ascolto, però era un pensiero che teneva compagnia. Un padrone di tutto se c’era, non avrebbe permesso il guasto della sua roba, non l’avrebbe lasciata alla malora in mano alla specie degli uomini. Un padrone se c’era, s’era ubriacato e aveva perso la via di casa. Meglio se non c’era. L’uomo prosperava in sua assenza. Aveva imparato il bene e il male servendosi da solo. Era impossibile un padrone di tutto, però quell’impossibile teneva compagnia. Gli piaceva dire di fronte al cielo che calava in terra per la sera, un grazie al capomastro» (p. 42).

Questa vibrante (e dolorante) pagina è il cacciatore, sì, e certamente De Luca stesso: nessuno dei due avrà alcun utile nell’essere ripreso da un moralista qualunque, o da uno di quegli “avvocati di Dio” che – come gli amici di Giobbe – si fanno chiamare “teologi”. Nella zoomorfizzazione delle sue considerazioni, l’Autore stempera la partecipazione emotiva che porterebbe facilmente ad affrettate conclusioni moralistiche: la verità abita altrove, e la morale, visto che è stupido e fallimentare volerla negare, comunque non va ritenuta che una scala tarlata verso di essa.

Il personaggio umano si adatta rapidamente ad ammirare nel personaggio animale le nobili virtù rispondenti senza sforzo a una legge non scritta: nella contemplazione della necessità il cacciatore è però crivellato dalla questione del destino, ben più radicale di quella del futuro. «Sono scarsi i sensi in dotazione alla specie dell’uomo. Li migliora con il riassunto dell’intelligenza. Il cervello dell’uomo è ruminante, rimastica le informazioni dei sensi, le combina in probabilità. L’uomo è così capace di premeditare il tempo, di progettarlo. È pure la sua dannazione, perché dà la certezza di morire» (p. 25). Il futuro risulta dunque appannaggio dell’uomo, ma quella del destino è la questione irrisolta che viene generata proprio dalla soluzione di quella del futuro: data la certezza di morire, perché vivere? E poi “perché” nel duplice senso della causa e del fine: De Luca annota finemente, in questo ricamo di meditazioni psicologiche, che l’uomo cerca il senso, ovvero il destino, nel passato e nel futuro, ma si ritrova così sempre esposto alla possibilità di trascurare l’istante presente come sorgente di verità. Così, significativamente, la farfalla resta attaccata, nel suo ipnotico zigzagare, al corno insanguinato del camoscio (p. 11), ma non trova corrispondenza con l’asettica canna del fucile: «Il suo volo spezzettato, ad angoli, era l’opposto della palla di piombo caricata nel buio della palla lucente, con la sua linea dritta al bersaglio grosso. Una farfalla sopra un fucile lo prende in giro. La sua mira è derisa dal volo spezzettato che dovunque cade, porta con sé il centro raggiunto. Dove si posa la farfalla, è il centro» (p. 30).

Ecco perché il cacciatore non può “pentirsi”: abbisognerebbe, per un’impresa tale, della visuale delle cose che si ha a partire da quel centro semovente e ipoteticamente ubiquo che egli non immagina minimamente poter avere qualcosa a che fare con “il padrone di tutte le cose”. Da questi il cacciatore attende “il conto”: «I debiti si pagano alla fine, una volta per tutte» (p. 40). E alla fine il conto arriva, scritto sulle ali impalpabili di una farfalla: per l’ennesima volta all’uomo era sfuggito un presente – quello che la bestia aveva interpretato con dignità regale offrendosi sovranamente al proprio destino di morte – e stava già rimuginandolo nel più recente dei suoi passati. La propria proiezione più alta e prossima era giunta a destina-zione, e lo aveva lasciato indietro, nel malinconico rito della sepoltura. La farfalla è il conto del padrone di tutto, che veniva erroneamente atteso per il futuro e invece irrompe nel presente: per il suo peso il cacciatore si accascia sotto la sua preda, insospettabilmente restituito alla propria miserevole dignità di vittima, finalmente riunito alla parte migliore di sé, quella proiezione ferina vestita del «vento di Helohìm» (p. 45), il vento stesso «vestito di zampe e di corna» (p. 55), il «signore delle tempeste, uscito allo scoperto» (p. 46).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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5 Comments on Il conto del padrone di tutto

  1. Luca M // 25 Luglio 2011 a 02:50 //

    Mi chiedo perchè ha scelto la farfalla: leggera, dalle ali impalpabili, dal volo incerto…

    De Luca ricama l’uomo che cerca il destino “nel passato e nel futuro, ma si ritrova così sempre esposto alla possibilità di trascurare l’istante presente come sorgente di verità”, però ogni volta che infila l’ago ti obbliga a gustare dense immagini del presente. Neanche una foto o un film riuscirebbero a comunicare questa valanga di sottili immagini.

  2. caterina c. // 23 Luglio 2011 a 22:50 //

    ottime e sagge riflessioni!Quanto può realmente pesare una piccola leggiadra farfallina?Noi molto spesso,anzi quasi sempre,siamo superficiali nei confronti di ciò che ci circonda perchè non ci accorgiamo che ogni cosa si trova sulla terra è un dono del Signore,come la nostra stessa vita!Infatti a volte non diamo neanche peso alla presenza di un piccolo esserino come la farfalla.Ma non bisogna essere superiori,ma umili ed apprezzare e prendersi cura di ogni cosa che troviamo sul nostro cammino perchè anche scoprire che un animale piccolo come la farfalla possa volare ci può dare gioia!

    • Luca M // 25 Luglio 2011 a 02:52 //

      Penso che tutto quello che ci circonda è da ammirare non per la firma dell’Architetto, ma per la propria fantastica essenza! Il pane non è buono perchè è fatto da un bravo fornaio, al massimo (ma non è il punto che volevo dire) il fornaio è bravo perchè ha fatto un buon pane.

      • Vero, è proprio così. Ma l’essenza delle cose è precisamente che c’è un loro “perché”, ossia un loro “per chi”, quindi un “da chi”. Sotto a questo livello, “gioiscono” delle cose (ma non della loro essenza) anche i ruminanti. 😉

  3. annamaria b. // 20 Luglio 2011 a 12:51 //

    bella recensione. Ho letto il libro qualche mese fa e ne ho semplicemente goduto la lettura, come sempre la prima volta che prendo in mano un libro. Approfitterò delle vacanze estive per rileggerlo con calma anche alla luce di queste riflessioni
    “data la certezza di morire, perché vivere? E poi “perché” nel duplice senso della causa e del fine: De Luca annota finemente, in questo ricamo di meditazioni psicologiche, che l’uomo cerca il senso, ovvero il destino, nel passato e nel futuro, ma si ritrova così sempre esposto alla possibilità di trascurare l’istante presente come sorgente di verità”

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