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Il colabrodo invisibile

Visita guidata nell’ecclesiologia dei “veri cristiani”

È difficile che si trovino, andando al mercato, sacchetti di frutta in cui tutti i pezzi sono sodi, polposi, non marcî e che non si siano ammaccati durante una qualche tappa del viaggio dall’albero alla fruttiera domestica. Se questo è difficile, è praticamente impossibile che accada il contrario, ovvero che ci sia un sacchetto in cui tutti i frutti sono acerbi, marcî o ammaccati. L’ideale sarebbe sapere in anticipo, attraverso una sorta di lenti a raggi X, quali sono i frutti rispondenti alle aspettative del consumatore e quali no. Detto questo, dichiariamo solennemente che quella frutta che non riporta segni di macerazione, né risulta acerba, né pare deturpata dagli sballottolamenti del trasporto, quella frutta e solo quella è “la frutta” – il resto no, tant’è che non la mangiamo volentieri. «Ma non si può vedere dentro i sacchetti»: obietterete voi. Perfetto: allora dichiariamo che la vera frutta è invisibile e tagliamo la testa al toro, così sono contenti tutti.

Se questa fosse un’ecclesiologia, ovvero se fosse scritta più seriosamente e si riferisse a contenuti di tipo teologico invece che ortofrutticolo, questa sarebbe l’ecclesiologia che qualche tempo fa, in un commento su una di queste pagine, Giuseppe Petrelli ci ha proposto (e che per comodità noi vi riproponiamo qui in allegato). Giuseppe aveva esordito criticando la pretesa della chiesa romana di porre su tutte le chiese del mondo il proprio arbitrato, e aveva poi proseguito lasciando questo suo interessante testo come più larga e piana esposizione del suo pensiero. Poiché s’era detto desideroso di farci conoscere il suo pensiero, e di conoscere il nostro, proviamo adesso a ottemperare al suo desiderio – spero di farlo in quello spirito di accoglienza e reciprocità di cui dicevamo recentemente. Proponendoci di recensire il contenuto di venticinque pagine in meno di un ottavo di quell’estensione, va da sé che cercherò d’individuare la struttura portante del testo e delle idee, restando poi disponibile a discutere i dettaglî.

Sì, perché di discussione si tratta, fin dal primo momento: non posso cominciare questa recensione senza dire che c’è una non lieve contraddizione nelle esternazioni di chi dapprima pretende di dire “come le cose stanno in realtà” (pretesa che trovo in linea di principio legittima per chiunque) e poi tira indietro la mano – quando il sasso è giunto a destinazione – dicendosi disinteressato a «dispute dottrinali e beghe chiesastiche». No, queste non sono le premesse per un dialogo onesto, serio e bilateralmente aperto, quale vorrei che fosse invece instaurato.

Un’ulteriore nota devo premettere, a beneficio dei nostri lettori, i quali probabilmente approcceranno le pagine del Petrelli: malgrado ogni impressione che si possa avere sul testo, esse sono state scritte da un uomo contemporaneo e tuttora vivente; chi conosce anche solo superficialmente la realtà delle comunità ecclesiali di matrice evangelica (oh, sì, checché ne dicano, questa è una religione!) avrà già avuto modo di stupirsi della coriacea sopravvivenza di un italiano fossile, nelle loro parole scritte, su carta o in rete. La causa è molto semplice, e non c’è nulla di male in essa: la traduzione della Scrittura cui solitamente fanno riferimento è la Diodati, o una sua revisione – in ogni caso la lingua del loro testo sacro è perlopiù un buon italiano ambientabile nella prima metà del Novecento. Probabilmente per non creare disomogeneità tra le citazioni e il corpo degli scritti, non potendo “aggiornare” la Sacra Pagina, essi modulano la loro lingua sul calco di quella: è la curiosa ironia della storia, che quelli che si vantano (peraltro a torto) di aver “restituito la Sacra Scrittura all’intelligenza delle masse” si ritrovino nell’arco di poche generazioni a cristallizzare una lingua artificiale e semplicemente demodée come “lingua religiosa ufficiale”*.

Detto questo, ammetto con gioia di aver trascorso quelle pagine con una lettura piacevole, e mi sono anche ritrovato ad annotare alcune belle suggestioni: la natura del testo non è interamente dedicata a tematiche ecclesiologiche, e anche dove lo è (essenzialmente due punti) si sente chiara la marca di una spiccata esegesi allegorica. L’esegesi allegorica (che non ha matrice biblica, bensì platonica – e a me la cosa va benissimo) riempie di sé parte non indifferente della monumentale Exégèse médièvale di Henry De Lubac, e in questo senso Giuseppe Petrelli è “solo” uno dei tantissimi prosecutori degli insuperabili modelli di Clemente d’Alessandria e soprattutto Origene. Il principio su cui si regge è la profonda intelligenza di una stretta connessione tra la cristologia e l’epistemologia, che il nostro Giuseppe ha così ben sintetizzato: «C’è un tempo quando noi vediamo solamente Gesù Uomo: il giorno viene che vediamo Iddio in quell’Uomo. L’Apostolo Paolo scrive: “Noi da quest’ora non conosciamo nessuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2° Corinzi 5:16). Fra i vari significati c’è questo: Per un tempo noi conosciamo solo gli eventi materiali, come ce li riporta il Vangelo, ma il giorno viene che vediamo, nelle semplici narrative, i misteri ed ammaestramenti profetici di ciò che avverrà nella Chiesa, nella quale la vita di Cristo deve essere rincarnata e rivissuta» (p. 11).

In sintesi, come Gesù può essere anche preso per un semplice uomo, prima che per l’uomo-Dio che la Grazia dà di riconoscere in lui, così anche il lettore delle Scritture viene gradualmente inoltrato nella profondità dei sensi mistici celati nelle semplici lettere, e così dietro ai semplici fatti storici riesce a cogliere l’intelligenza di alte realtà spirituali. L’esempio più grazioso di come Giuseppe ha svolto (abilmente) questo metodo è probabilmente nell’allegoria dello smarrimento di Gesù: «Giuseppe e Maria, lasciarono perciò Gerusalemme col loro gruppo, non dubitando che il fanciullo non fosse in cammino assieme a loro, magari in compagnia di altri ragazzi suoi coetanei. “Camminarono un giorno” e, venuta la sera fecero la triste scoperta che lui, non era con loro. Nella fretta di ritornare assieme alla moltitudine, non si erano accorti che la persona più importante non era con loro. Non potevano immaginare che Egli si sarebbe separato e restasse nel tempio. Se potessimo leggere nelle menti dei due santi, la risposta alla nostra domanda del perchè non si accertarono che il Fanciullo fosse con loro, avremmo: “Che domanda! Siamo venuti insieme, andiamo tutti insieme; non abbandoniamo la nostra assemblea.” Ma il piano di Dio era ben diverso. Ciò che avvenne portò Maria e Giuseppe ad una separazione. Dovettero scegliere: o continuare con la massa religiosa o ritornare in Gerusalemme cercando il Fanciullo. Scelsero la seconda alternativa e fecero bene. La folla, indifferente per il fanciullo e anche per la scomparsa dei due santi, proseguì allegra e soddisfatta. Non è fuori luogo immaginare che durante il viaggio si rinfrescarono con qualche cantico e conversazioni scritturali. Gesù non era con loro e neanche ne avevano bisogno» (p. 24).

Abile la manipolazione esegetica che Petrelli fa del testo (perché questo fa l’esegesi: manipola, storpia, forma e deforma, comprende e ricomprende), ma particolarmente nell’esegesi allegorica si verifica quello che già altre volte abbiamo avuto modo di vedere: il dogma, ossia la dottrina professata, non è il puro frutto dell’esegesi, ma il suo stesso stimolo, e quindi ciò che da essa esce rafforzato. Il dogma è la lente con cui si legge la Scrittura, oltre che il frutto dell’arricchimento che la lectio divina ha portato nella vita del credente. In pratica, Petrelli ha potuto tirar fuori questa bella ed edificante lettura (tecnicamente migliore di moltissime prediche domenicali cattoliche, a dirla tutta) soltanto sapendo fin dall’inizio dove sarebbe andato a finire, nella sostanza.

Petrelli ce l’ha, il (suo) dogma, e questo è perfettamente legittimo, anzi è doveroso – ma soprattutto normale. Beninteso, finché il dogma non va a violentare la Scrittura, così come fa Petrelli quando scrive: «Ma tali servi [si parla di quelli che per Petrelli sono i membri della “Chiesa invisibile”, n.d.r.] sono destinati ad essere martiri, perché la chiesa visibile non li intende e, di conseguenza, li beffa e perseguita. Ricordiamo le parole del Signore, che il profeta è ucciso nella Gerusalemme terrena» (p. 8). La brevità lascia qui trasparire in modo lampante il metodo: prima il dogma, poi l’esegesi. Solo che qui, nel testo evangelico citato – «[…] perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme» (Lc 13,35) – l’aggettivo “terrena”, che calzerebbe alla perfezione nell’allegoria di Petrelli, non c’è (ovvio: nessuno degli evangelisti pensava alle cose di cui discutiamo Petrelli e noi!). E Petrelli “risolve” mettendocela.

Al cuore dell’argomento ecclesiologico, però, il nostro amico Giuseppe s’è preparato con coscienziosa prudenza: «Nel parlare della Chiesa e delle chiese dobbiamo evitare due estremi: o di vedere il piano di Dio per la Chiesa nelle chiese locali o disprezzare i vari gruppi denominazionali. Nel primo caso abbiamo una setta di arroganti che da loro stessi si denominano il vero Corpo di Cristo, qualificando gli altri come eretici. Nell’altro caso abbiamo uno spirito transigente al punto di fare del piano di Dio e del Cristianesimo, una società politico morale. Il desiderio di questi scritti è di navigare tra questi due scogli» (p. 17). Premessa eccellente, eccezion fatta per la palese incapacità di distinguere tra “chiesa” e “setta”, ma in fondo è proprio di questo che stiamo parlando, perché il Petrelli distingue i cristiani in tre tipi – i violenti e arroganti, i comodoni accomodatori, quindi i veri discepoli (ricordate la frutta? Ecco: quella acerba, quella marcia e quella buona).

Seguiamo volentieri Giuseppe, nel tralasciare i violenti, la cui condizione è tanto banale da non meritare troppa menzione. Il secondo gruppo, invece, sarebbe quello delle “denominazioni” (parola usatissima da quelli delle denominazioni evangeliche, che si ostinano nel dirsi “non-denominazioni”…): questo gruppo, «stanco di persecuzioni, entra in uno stato di prudenza umana, si adatta alle condizioni, fissa dei credi e organizza, immaginando di essere sempre fedele ai principii che cominciarono il movimento. In realtà, questo gruppo possiede dell’iniziale movimento solo il nome. Poco alla volta, i santi pionieri i quali iniziarono un nobile lavoro, divengono una storia morta, divenendo il movimento una rispettabile denominazione ed una delle chiese possedenti un po’ di Cristianesimo e molto di imprese sociali» (p. 18). Non del tutto falsa, l’analisi di Giuseppe, ma radicalmente e irriducibilmente falsa nell’asserto di fondo, ossia che il dogma e la definizione dogmatica costituiscano, nella storia della Chiesa, un accomodamento: noi ne abbiamo trattato già molte volte, in queste pagine, ma quanti non fossero soddisfatti del mio percorso possono sempre confrontarsi con Ortodossia di G.K. Chesterton (tranquilli: non era cattolico, se questo può sollevarlo da troppi sospetti, e in quel libro parla solo di “cristianesimo”, non di “denominazioni”), per vedere che le dinamiche dello stabilimento e del mantenimento dell’ortodossia sono «il vino nuovo […] sempre in fermentazione» (p. 19)

Quelli che vivono immessi in queste dinamiche, e non altri fantastici “principi esiliati” – la prima volta che si usò quest’immagine fu in una fiaba gnostica del II secolo, pensate un po’! – sono quanti «sentono che non devono legarsi a nulla permanentemente. Vivendo fra cose ed eventi che cambiano, hanno l’occhio al Cristo che non muta» (p. 18). C’è un punto, però, su cui l’ecclesiologia di Petrelli diventa un’irreparabile colabrodo, ben al di là di gusti, preferenze e sensibilità: «Questi pochi [sempre i soliti membri “sfusi” della “Chiesa invisibile”] non vanno attorno criticando o dicendo a quelli che frequentano altri gruppi: “Venite da noi”. Invece dicono ai membri delle varie denominazioni: “Finché vi sentite contenti, state dove vi trovate”» (p. 19). No, Giuseppe. Questo può dirlo il Dalai Lama, cui mai un Gesù Cristo ha comandato: «Fate mie discepole tutte le nazioni» (Mt 28,19 – un versetto che non dovrebbe mancare, quando si tratta di Chiesa, ma che nelle pagine del Petrelli non torna neanche una volta) ma non può permettersele un cristiano. È vero che l’annuncio e la proposta del vangelo vanno fatti con delicatezza, ma vanno fatti, e non è facoltativo farli! «Non c’è bisogno di insistere nel comando di Gesù di non proselitare (Matteo 23:15). Il proselitismo crea sette. La Chiesa Invisibile ha definitivamente fatto suo il comando “non proselitare”»: come si fa a confondere la condanna del culto della personalità (su cui in tanti avrebbero da fare tanti mea culpa, è vero) con una presunta condanna per l’attività missionaria, ottemperando alla quale, invece, la Chiesa obbedisce al mandato di Cristo?

In effetti, poi, in due punti (pp. 13.22) Petrelli riconosce che la Chiesa partecipa della missione di Cristo, ma allora come si spiega l’asserto di cui sopra? «Finché vi sentite contenti» è precisamente il motto scialbo della “cultura” (?) postmoderna, l’anima di una civiltà disossata, totalmente incompatibile con un Vangelo che ha alla sua cuore la parola della crocestabat mater Iesu iuxta crucem. Questa “Chiesa spirituale”, allora, proprio questa che raccomanda agli altri di stare dove stanno “finché stanno bene”, questa sembra tanto essere quella che cerca accomodamenti – pace e sicurezza umane.

A questo punto, purtroppo, il discorso di Giuseppe fa acqua da tutte le parti. Nel cristianesimo, la fede di Dio nella carne umana, la prova della verità la fa la storia (e la verità è il ponte attraverso e oltre la storia). Ora, con un’accettabile conoscenza della storia del cristianesimo antico, nessuno si sognerebbe di riscrivere così la dinamica delle antiche chiese cristiane: «Per la legge d’attrazione, manifestata in “vibrazioni di spirito”, uno qua, uno là scoprirono alcuni che erano posseduti dagli stessi ideali e cominciarono a cercarsi per conversare. Spesso parlarono l’un l’altro, perché il Misericordioso Signore sa che abbiamo bisogno di conforto umano, il quale si trova solo tra persone povere in spirito. Nulla di visibile fu notato da quelli di fuori. La moltitudine religiosa continuò come sempre. Quei pochi non organizzarono nulla nel senso ecclesiastico: solo si confortarono a vicenda quando potevano e come meglio potevano. Però, mentre nulla si divulgava sulla terra molto veniva compiuto in Cielo: un libro fu scritto» (p. 25). La cosa insostenibile, qui, è che la vita del “resto d’Israele” è immaginata (pura fantasia!) come qualcosa d’altro rispetto alla vita di quelle comunità cristiane sottoposte ai flagelli delle persecuzioni pagane, alle strazianti pene interne d’amministrazione della giustizia (o non parla di questo già Paolo nelle sue lettere?), al travaglio dell’elaborazione del dogma e alla stessa produzione della Scrittura (che non è, nel modo più assoluto, un libro, se non si riconosce contemporaneamente che essa è molti libri).

È necessariamente un colabrodo, l’ecclesiologia di una denominazione che s’illude di evitare i tortuosi vicoli della storia (ai quali Dio onnipotente non si sottrae) con la formuletta: «Accetta Gesù come tuo personale Salvatore e Signore». E se pure è relativamente facile capire cosa significa “Salvatore”, non dovrò chiedermi, facendo questo, che cosa significa dire di un uomo che è “il Signore”? La risposta a questa domanda è precisamente la storia del cristianesimo, la storia dell’ortodossia, della quale è lo Spirito – di cui senti la voce, anche se non sai da dove viene e dove va (cf. Gv 3,8) – a muovere i passi incerti verso la meta.

Ecco, la meta: il nostro Giuseppe avrebbe ragione su tutto, se solo riuscisse a distinguere meglio una cosa. Curiosamente, le teologie protestanti preferiscono la parola “evangelo” a “vangelo”, e non solo per quei vizî dello scritto di cui abbiamo già detto, ma anche perché laddove con “vangelo” essi intendono precisamente il libro dei quattro vangeli, o di uno di essi, con “evangelo” designano piuttosto il contenuto mistico, il succo puro della predicazione autentica. La quale, mi spiace per loro, semplicemente non esiste: la Sacra Scrittura non ha un baricentro così nettamente individuabile come talvolta loro pretenderebbero. La conseguenza ecclesiologica di questa mancata attenzione teologica è che credono di aver introdotto una rivoluzione copernicana, con lo stravecchio concetto di “Chiesa spirituale”, “Chiesa invisibile” (tutte varianti sul tema), quando sarebbe bastato sfogliare la Lumen Gentium per farsi un’idea equilibrata (e quindi veramente dinamica!) della distinzione e delle reciproche relazioni tra Regno di Dio e Chiesa di Gesù Cristo.

Già, ma qui sta l’ultimo problema, lo scoglio che traspare già dalla Prefazione di Petrelli, il quale «Lentamente e ”dolorosamente” […] – parole sue! – è venuto alla conclusione che vi è o la Chiesa Invisibile, o il sistema Romano» (p. 1). È dunque un’alternativa tanto improponibile, il “sistema Romano” (che peraltro Giuseppe mostra di non conoscere a fondo), a fronte del colabrodo della “Chiesa Invisibile”? Perché mai? E se invece fosse quella la direzione giusta?

 

 

 

 

*: Spero che raccolgano la provocazione: magari ne esce qualcosa di buono – se non altro perché “Figliolo di Dio” fa semplicemente sorridere, mentre “ristorare”, in italiano contemporaneo, significa tutt’altro che “restaurare”, e “dispensazione” è ordinariamente compreso in tutt’altro modo che come “economia della salvezza”.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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13 Comments on Il colabrodo invisibile

  1. Teofilo di Oberland // 5 Agosto 2011 a 12:11 //

    Questo è un libro per anime avanzate, la cui “Età Stabile” è la chiave del termine “Invisibile”.

    L’autore de “La Nube della Non-Conoscenza” afferma:

    «Chiunque tu sia ad essere venuto in possesso
    di questo libro ti prego di non leggerlo e di
    non farne menzione ad alcuno a meno che si
    tratti di uno che è veramente intenzionato
    a seguire Cristo in maniera totale e
    perfetta. E a seguirLo non solo
    nella vita attiva ma fino al
    punto massimo della
    vita contemplativa»

    “leggere” si riferisce alla “lettera”, il senso esteriore; “farne menzione” allo “spirito”, il senso interiore o mistico. Allora, che vale parlarne?

    • Hai un bellissimo nome, Teofilo, ed è bellissima la citazione con cui onori questa pagina. Ti spiacerebbe, però, spiegarti meglio? Se sei intervenuto è perché forse “vale la pena” parlarne.

    • giuseppe // 5 Agosto 2011 a 13:55 //

      Credo di avere compreso. Grazie.

      • Probabilmente era un rimprovero per te, Giuseppe: hai evidentemente sbagliato a far capitare quella lettura sotto occhî tanto incapaci di proseguire oltre la lettera! 🙂

  2. giuseppe // 3 Agosto 2011 a 00:46 //

    C’è un grosso equivoco sul non essere in grado, che immagino abbia generato io, e c’è l’inconciliabiltà delle posizioni sull’argomento principale che in realtà fa catalogare quello sul se esista o meno primato fra le umane piccolezze. Ma va bene così, mi accontento del fatto che tu non mi abbia scomunicato :-). Grazie del saluto affettuoso che ricambio e dell’invito a seguire la Rubrica ed intervenire.

  3. giuseppe // 31 Luglio 2011 a 12:47 //

    contese e dispute teologiche la pretesa.

  4. giuseppe // 31 Luglio 2011 a 12:42 //

    Caro Giovanni, a proposito di carinerie, non ho trovato carino da parte tua avermi catalogato fra quelli che lanciano il sasso e ritirano la mano (in genere persone poco trasparenti e che non dialogono in modo serio e onesto come correttamente scrivi). Ho solo affermato (e ribadisco) che trovo infondato, scorretto, e aggiungo NON CRISTIANO, il continuo tentativo della chiesa cattolica di affermare la propria supremazia sulle altre chiese, e il suo vantare un inesistente assoluto monopolio della verità. Allo stesso modo trovo scorretto e NON CRISTIANO il tentativo di parte del mondo protestante di confutare “a colpi di versetti”,

  5. giuseppe // 29 Luglio 2011 a 21:20 //

    Ma l’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché esse sono pazzia per lui; e non le può conoscere, perché devono essere giudicate spiritualmente.
    (Prima Cor. 2:14).

    Per il momento faccio solo presente che il Fratello citato (con scarsa cognizione di causa) contrariamente a quanto si legge è passato a miglior vita più di mezzo secolo fa. Aggiungerò in seguito, se Dio vorrà, qualche altro chiarimento.

    • Oh, scusa Giuseppe: francamente l’avevo preso per te, data l’omonimia. Aspetto gli altri chiarimenti, quando vorrai, ma non è carino cominciare un dibattito con una citazione che dice che il tuo interlocutore comunque non potrà capire. Più argomenti, per favore.

      • giuseppe // 31 Luglio 2011 a 17:19 //

        Per finire. Inutile contraddire la tua analisi di uno scritto che non hai compreso e che hai stroncato con giudizi sprezzanti. L’avertelo segnalato serviva solo a darti una idea su quello che penso sulla Chiesa e le chiese, e non certo per entrare con te in una di quelle dispute che come accennato non amo. Non ho citato il verso di scrittura per dire che comunque non capiresti, ma per dire che continuerai a non capire se il tuo approccio alle cose di Dio, rimarrà quello mostrato. Caro Giovanni da buon ragionatore, se fossi stato un suo contemporaneo, avresti accusato anche Gesù di abile manipolazione dei sacri rotoli.

        • Inutile? No, ti prego: mi fai così stupido da non comprendere una pacata, ragionata e motivata argomentazione? O – peggio – così perfido da non voler arrendermi allo splendore della verità? Questo sarebbe un giudizio troppo sprezzante, da parte tua, che vedi “non cristiani” (scritto in maiuscolo) gli atteggiamenti tipicamente cattolici e quelli tipicamente protestanti. E così è questa la verità? “Inutile”, dici? No: io mi sono dato la pena (e il piacere) di leggere uno scritto che credo di aver anche apprezzato, e di cui ho (lucidamente, credo) individuato punti deboli e lacune. Così rispondi? Non merito neanche una bella confutazione? Lascerai che un ricercatore della verità brancoli nell’errore? O dovrò semplicemente abiurare senz’altro alle mie ragioni e seguire il tuo “ribadire”, per trovare la verità? Tu ribadisci la tua prima impressione, senza ulteriori argomentazioni, dopo aver provocato una disputa (perché l’hai fatto tu: riguardati i tuoi commenti…) in cui io credo di aver messo tutto l’impegno che potevo? Non è lanciare il sasso e nascondere la mano, questo?
          PS: pur non essendo stato contemporaneo di Gesù (mentre egli è mio contemporaneo, grazie a Dio), ho abbondantemente mostrato quanto abilmente Gesù abbia manipolato i testi sacri. Se vuoi, puoi replicare anche su questo punto. Con argomenti, preferirei.

          • giuseppe // 2 Agosto 2011 a 21:58 //

            Caro Giovanni ti prego di credere sulla fiducia che mi addolora il fatto che tu possa anche solo immaginare che io ti giudichi, stupido o perfido. Non puoi accusarmi ingiustamente di avere provocato una disputa solo per avere espresso un giudizio negativo su un argomento ricorrente in campo religioso e averti segnalato uno scritto che condivido al riguardo. Non puoi chiedermi di argomentare in maniera esaustiva e accusarmi di essere un provocatore se non lo faccio.Troverai qualcuno più bravo di me che potrà spiegarti perchè chi è servo del Signore non vanta primati e non pensa di avere alcun monopolio della verità.

          • Ma io ti credo, Giuseppe, sinceramente e senza alcuna fatica! Non ti ho mai ritenuto una brutta persona!
            Allora, visto che ancora una volta ti distingui dall’autore dello scritto che ci hai proposto, devo ribadire anch’io che avevo dato per scontata l’identità tra te e lui. Poco male, anzi, meglio così, perché se quelle cose sono state scritte più di cinquant’anni fa non si può imputare al loro autore l’ignoranza dei contenuti della Lumen gentium, ovvero del documento attualmente fondamentale per l’ecclesiologia cattolica. Tu, invece, potresti leggerla anche se non l’hai fatto finora: sono sicuro che ti rassereneresti su molti punti, vedendo che in fin dei conti non professiamo quelle corbellerie che talvolta ho sentito dire che professeremmo.
            In linea di principio mi sento autorizzato a chiedere a chi mi porge uno scritto che condivide se sa difenderlo da eventuali critiche, ma bastava semplicemente dire: «Non sono in grado» – e chi ti avrebbe giudicato?
            Fuor di polemica, infine, vorrei che tu considerassi pacatamente che l’affermare un antichissimo primato della chiesa romana tra le altre chiese non significa aver definito le modalità in cui questo primato dev’essere esercitato. E questo non è un mio auspicio, ma il magistero degli stessi Papi. La Chiesa è più grande di Roma, ma Roma ha sempre avuto un posto speciale nella Chiesa, e tutta la Chiesa è chiamata a cercare di capire quale può essere questo ruolo nel terzo millennio cristiano. Se abdichiamo a questo compito, stiamo in realtà cercando scorciatoie ai problemi che il cristianesimo intrinsecamente pone. Forse non tutti sono capaci di affrontare questo dibattito, ma tutti sono tenuti a non ostacolarlo con ostilità pregiudiziali e ideologiche. Ti saluto con affetto, Giuseppe, e ti ringrazio se vorrai continuare a seguire la Rubrica e a intervenire.

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