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Una chance della Destra divina

«Difendi, conserva, prega»: appello congiunto del solito Langone e di un insolito (?) Pasolini

«Se Saluto e augurio è un manifesto, io comporrò un manifesto e mezzo»: così scrive Camillo Langone a pagina 14 del suo Manifesto della destra divina (Vallecchi, Firenze 2009, 12 €, 151 pp.), e si tratta di una delle dichiarazioni più sibilline del libro. Langone scrive infatti un libro che del manifesto ha soprattutto il titolo, oltre che alcune profonde avvertenze e qualche luminosa intuizione. Lo schema lineare, elementare nella sua ripetitività, non fa mistero di una scrittura composita, e alcune parti del libro brillano di un’autonomia tanto evidente da rivelarle per degli articoli di giornale ben composti insieme.

Lo stile è quello consueto, per la penna di Langone: sa non passare inosservato al punto che sembra non saper passare inosservato. Di questo l’io narrante, singolarmente ricorrente nel testo di un “manifesto”, sembra a tratti ben consapevole: «[…] Chi alimenta la scrittura con la propria biografia fornisce al lettore già abbastanza chiodi per crocifiggerlo, meglio non mettergli in mano quello più aguzzo [la data di nascita n.d.r.]» (113). Croce e delizia, la complessa e poliedrica personalità intellettuale di Langone è insieme l’alfiere e il disertore del Manifesto, posto sotto il nume tutelare di Pier Paolo Pasolini. Con felice intuizione l’Autore si rifà a Saluto e augurio, un testo che da solo basta a incendiare il fantoccio pasoliniano che certa sinistra italiota s’è dato come patrono: «Se nel Ventunesimo secolo c’è ancora qualcuno che considera Pasolini un autore di sinistra, è qualcuno che non lo ha mai letto» (11); del resto lui, «l’autore de L’usignolo della Chiesa cattolica, […] lo sapeva benissimo di essere un reazionario, e per questo sosteneva i comunisti, unica vera opposizione alla Democrazia cristiana colpevole di aver favorito il boom economico e quindi la modernizzazione, la mutazione, la scristianizzazione» (12).

Sebbene il Manifesto si rifaccia abbondantemente al prodigio poetico di Saluto e augurio, riascoltare con calma i ritmi dei due testi permette di riconoscere delle dissimulate dissonanze a cui si devono in ultima analisi le incongruenze del testo di Langone. Una in particolare: «[…] Ma in Città? / Là Cristo non basta. / Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri. / Tu difendi, conserva, prega […]». Così Pasolini. Langone vibra visceralmente sul triplice richiamo (ripetuto per tre volte in pochi versi) “difendere, conservare, pregare”, e vi trova come la sintesi del proprio Manifesto (tanto che quelle parole sono il sottotitolo del libro): la raccomandazione “ma che sia moderna”, però, segna tutto lo scarto tra la “Destra divina” dell’uno e quella dell’altro. Dopo l’iniziale delucidazione su «che cosa è la destra divina e perché è umano farne parte», dopo l’intermezzo lirico pasoliniano, il libro si declina in una serie di contrapposizioni esemplari, spesso indefinitamente parossistiche e iperboliche, tra cui quella teoreticamente portante è senz’altro «Durata versus incostanza» (81): poiché «la ricetta della durata è regola e mistero» (86), l’Autore si lascia interrogare dallo stupore espresso dalla penna di Pia Pera nella contemplazione di come i fili d’erba siano nei nostri prati esattamente uguali a quelli cresciuti nei prati di gente vissuta in tempi e in luoghi irriducibilmente altri. Langone la chiama “la vertigine della durata”: «La provo anch’io quando m’inginocchio su una vecchia panca di una chiesa semibuia, quando cammino tra due fili di cipressi che uno sconosciuto ha piantato secoli fa» (88).

Che le cose possano durare, a fronte della possibilità che esse si dissolvano, questa è la chiave a partire della quale Langone pare intendere l’ermetica sentenza “difendi, conserva, prega”. La raccomandazione, invece, che la Chiesa sia “moderna”, questa Langone la glissa totalmente in ogni pagina del suo Manifesto, e lo stesso concetto di modernità non è nemmeno lumeggiato con qualcosa che non sia il brutale chiaroscuro delle contrapposizioni in cui il Manifesto è scandito. Così è dispersa la mistica pace del vecchio, che «ha rispetto // del giudizio del mondo; anche / se non glie ne importa niente»: la consapevolezza per cui si ammette tacitamente che il vero progresso risulterà dall’azione congiunta e paziente del conservare e di un’inarrestabile mutazione (entrambi immanenti nella storia, entrambi compresi nel gioco maestoso della Provvidenza), questa consapevolezza resta di Pasolini solo.

Si ha così l’impressione che il conservatorismo di Langone penetri il più delle volte con chiara intelligenza le trame culturali annodate sul rovescio dei fenomeni sociali additati ad esempio, ma altre volte no. Ineccepibile acutezza nell’analisi di «Indissolubilità versus divorzio»: «Il divorzio deprime la demografia […]. Il divorzio aumenta i nuclei monopersonali e perciò l’inquinamento e il consumo di territorio […]. Il divorzio distrugge i legami di mutuo soccorso famigliare e scarica chi si trova in difficoltà sull’assistenza sociale e sul servizio sanitario nazionale, quindi sul contribuente […]. Il divorzio origina assenza paterna che produce criminalità giovanile ed è causa della maggior parte dei suicidi di adolescenti.[…] È indispensabile e urgente una tassa sul divorzio» (97). L’analisi va dal versante pedagogico a quello socio-economico per andare poi coerentemente a fondarsi nella teologia: «In millenni di storia i vecchi non avevano mai mangiato il futuro dei giovani: oggi ci tocca vedere anche questo. Non temono il giudizio di Dio perché o non credono in Dio o credono al Dio inventato da qualche teologo improvvido che ha lasciato intravedere la possibilità inaudita, insensata, devastante, di un inferno vuoto» (101).

Addirittura spassoso è invece il capitolo «Amore a rischio versus sesso sicuro» (33), in cui l’apologia delle considerazioni di Benedetto XVI (quanto alla possibilità di controllare l’AIDS in Africa con una più ampia diffusione dell’uso del preservativo) viene condotta con un’attenta e onesta esegesi del foglietto illustrativo dei preservativi Akuel. Anche qui l’analisi va a fondo: «Il calo del desiderio che affligge il maschio occidentale è dovuto innanzitutto a una sensazione sgradevole di cui non si parla e che però serpeggia da quando gli anticoncezionali sono diventati di massa: l’inutilità di un gesto sempre più ridotto ai suoi dati meccanici, e che si vuole programmaticamente privo di conseguenze» (37).

Che Langone goda nel prendere posizioni paradossali (perfino estreme) e nel difenderle, è cosa nota; v’è tuttavia una sensibile gradazione tra paradossi e paradossi: dire che «paternità e maternità o sono irresponsabili o non sono» (38) è dire qualcosa d’immediatamente comprensibile nel contesto. Viceversa pretendere che davvero l’onomastico si opponga al compleanno (113 ss.) come la celebrazione della vita veramente degna della “destra divina”, questa è una tesi dall’enunciato gratuito e nella cui difesa il lettore avverte di continuo l’imbarazzato sgattaiolare di unghie sullo specchio: come e perché il dato religioso (l’onomastico) dovrebbe combattere e sopraffare quello biologico (il compleanno), se nel Calendario Romano le celebrazioni dei natali di Gesù Cristo (25 dicembre) e di Maria (8 settembre) ricorrono esattamente nove mesi dopo le solennità delle concezioni di entrambi (25 marzo e 8 dicembre)? Perché mai, allora, una simile prassi sarebbe stata in uso anche per Giovanni Battista (di cui comunque a tutt’oggi si festeggia liturgicamente la nascita, oltre che la morte), fino al IV secolo?

E che dire della presa di posizione contro i grattacieli, abominevole discendenza della torre di Babele? «Chi finanzia, progetta, costruisce, ammira grattacieli è a un passo dal satanismo o ci è dentro con entrambi i piedi, immerso nel peccato di Babele» (132): posizione tanto palesemente irragionevole da seppellire il lettore nella marea del dissenso lasciandogli a malapena intravedere la porzione di ammissibilità della tesi, la quale però – a quel punto – non ha più punti di contatto evidentemente riconoscibili con il concetto di “destra divina”. La combinazione di strumenti sociologici e teologici è talvolta molto meno felice, come nel capitolo «Muri versus mondo»: se prima s’era denigrata la costruzione di grattacieli, ora ci si spinge a dire che i muri (in quanto semplice possibilità di erigerne) hanno regalato «a Rabin e Sharon l’idea di risolvere una volta per tutte la questione israelo-palestinese mettendo tra i due popoli, anziché il dialogante trattino, una monologante muraglia […]. Pochi mesi di lavoro per un risultato che riporta ai fasti di indimenticabili manufatti al servizio dell’uomo pacifico quali la Muraglia cinese e il Vallo di Adriano» (109). Insomma, Langone dà talvolta l’idea di essere – novello cavalier Marino – perseguitore della “maraviglia” a tutti i costi, e se, per ricordare che i muri sono difesa di civiltà e tutela di diritti, prima che segno d’ostilità e ostacolo all’incontro, giustamente ricorda che l’uomo lapsario è intimamente tendente al male, molto meno giustamente (e onestamente) utilizza in modo univocamente negativo il polivalente semantema giovanneo di “mondo” (110) per attestare che i muri combattono “il principe del mondo”.

Certamente, a Langone non possono mancare nozioni di tanta elementarità, ma questo rende tanto meno fruibile (e gradevole) il prodotto di un estro evidentemente orientato a volgere a proprio aggrado “i due discorsi” di aristofanea memoria. Che fine ha fatto, qui, “la destra divina”? Dov’è la sobria grazia dei versi di Pasolini? Neanche Langone, peraltro, sfugge a quella massima di onestà intellettuale mirabilmente immortalata nello Zibaldone di Leopardi, quella per cui «il modo più sicuro di non mostrare i limiti della propria scienza è non oltrepassarli mai». Uno che (giustamente) non ha dubbî sul fatto che si farebbe molto meglio a investire in cultura finanziando Pergolesi, piuttosto che «ascoltare più o meno gratis Giovanni Allevi» (70), non dovrebbe trovarsi a definire “entusiasmante” la musica che sulle parole del Salmo 18Cœli enarrant gloriam Deiha composto Marco Frisina (44)! Non se di quelle parole è impastato uno dei più grandiosi corali della Schöpfung di Franz Joseph Haydn!

E sì, l’abbiamo capito che le Church’s possono essere risuolate anche due volte, a patto che il calzolaio sia sufficientemente perito da non ricorrere ai chiodi; abbiamo capito che, avendo l’accortezza di non usarle mai per due giorni di seguito (e di tenervi dentro, per il giorno di riposo, la sagoma di legno) possono durare anche vent’anni! Ora, quando da queste mirabili lezioni ricaviamo la stigmatizzazione di Reinhard Marx – «Chi sposa lo Zeitgeist il giorno dopo è vedovo» (131) – e ci convinciamo a fondo della sua verità, che cosa resta delle scarpe, della bicicletta, della gonna (solo per le donne!), dei trulli e dei tabarri? In che cosa questo estetizzante stile di vita – che potremmo forse chiamare “dandysmo cattolico” – dovrebbe e potrebbe rendere un servizio alla “destra divina”? Cosa ci sarebbe di “destra”, e poi di “divino”, nel concedersi «esperienze gastronomiche estreme» (53) a base di selvaggina di frodo degustata col trasporto mistico di chi pretende di vedere in un’attività “non pratica” (poco importa qui che sia la caccia) necessariamente un’attività “spirituale”?

Resta della non sanata discrasia tra le cocenti maledizioni sferrate contro «i preti per atei, i coscienziali, i Tettamanzi e i Martini» (144) e l’elogio della disobbedienza come declinazione variante del rapporto con la verità (147): è chiaramente in forza della propria coscienza, che Langone sceglie di aderire intellettivamente ed affettivamente a una tradizione e a una legge, e alla luce di queste banali antinomie c’è da chiedersi se quanto un Manifesto della destra divina doveva dire non poteva essere detto in modo (almeno parzialmente) diverso.

Perché qualcosa andava detto, su la destra divina, mentre si avvia al crepuscolo quella generazione di uomini e donne occidentali che cinquant’anni fa si costituì sulla scena mondiale come il «gruppo dissipatore per eccellenza, globalizzatore prima che esistesse la parola, siccome tendente a ribellarsi al proprio luogo per inchinarsi ai luoghi altrui. Come dice Nicolás Gómez Dávila: “L’indipendenza di cui ogni gioventù si vanta non è altro che sottomissione alla nuova moda imperante”» (127). Proprio per questo motivo, anche nel “difendere, conservare, pregare” ci vuole la religiosa prudenza di un contemplativo, oltre che la paziente ragione di un pensatore, per sperare umilmente di non incappare anche noi, fatalmente, nell’asservimento a una semplice moda – fosse pure quella della restaurazione.

Non è la restaurazione la chiave di volta di una destra veramente divina (di cui forse c’è persino più bisogno di quanto si sappia dire); non può essere la reazione. “Conservare la rivoluzione” – per dirla con Chesterton – impone al vecchio di cui parla Pasolini la disciplina di «difendere i suoi nervi, indeboliti, / e stare al gioco a cui non è mai stato». Così, forse, si potrà provare anche noi a scegliere «per sempre // la vita, la gioventù».

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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  1. Adesso siamo pari! …o no?

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