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Una politica che “resista” alla disumanizzazione

Prospettive per un nuovo impegno partitico dei cattolici

Quale forma organizzativa deve assumere la presenza cattolica in politica? Quali princìpi devono informare la sua azione? Quesiti impegnativi, cui la recente prolusione al consiglio permanente della Cei pronunciata dal cardinale Angelo Bagnasco non si è sottratta.

La riflessione del presidente della Conferenza episcopale si configura come tentativo di sintesi alta tra «realismo cristiano» e quella «immaginazione prospettica» auspicata da Paolo VI nella Octogesima adveniens.

L’accenno di Bagnasco alla centralità, oggi, della questione antropologica risulta in piena continuità col magistero di Giovanni Paolo II, che aveva indicato nella resistenza alla disumanizzazione l’odierna frontiera del bonum certamen. Paiono essere davvero giunti i tempi profetizzati da G.K. Chesterton, quando «saranno sguainate spade per provare che le foglie sono verdi in estate». Occorre dunque salvare l’«uomo», prima ancora che il «cattolico» o il «cristiano». Nella visione del supremo magistero, che affonda le radici nel principio chiave della teologia scolastica per cui la fede cristiana non si innesta nel vuoto (gratia supponit et perficit naturam, la grazia presuppone e perfeziona la natura), spicca l’urgenza di fronteggiare una sfida di natura non ideologica ma antropologica. A complicare ulteriormente questo quadro generale concorre un ineluttabile dato di fatto. Pare essersi scatenata, sotto forma di “Kulturkampf biopolitico”,  una “guerra asimmetrica” contro la natura umana analoga quella intrapresa in ambito internazionale dal terrorismo islamista. Gli attentati alla dignità dell’essere umano apportati dal «terrorismo dal volto umano» non provengano oggi da un corpo politico immediatamente identificabile. La «nuova tirannia» del «Matrix progressista», secondo l’icastica definizione che ne ha dato lo spagnolo Juan Manuel de Prada, sembra aver omologato la destra e la sinistra dello schieramento politico sotto il segno di un pensiero unico edonistico-relativistico. Anche Bagnasco (n. 11) denuncia l’invasività di una «certa cultura radicale» che «al pari di una mentalità demolitrice» tende «a inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione» in nome di «una concezione individualistica» della persona. Il presidente della Cei non può quindi che sollecitare e accogliere con favore una chiamata a raccolta non identitaria della coscienza cattolica intorno ai «valori dell’umanizzazione» e capace, atttingendo a un «giacimento valoriale ed esistenziale» costituito da un «patrimonio di cultura fatto di rappresentanza sociale e di processi di maturazione comunitaria», di attirare «anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente».

L’osservazione attenta e partecipata di questo processo di delicata agglutinazione valoriale in statu nascenti si coniuga nella prolusione con l’auspicio – che sa tanto di indicazione di metodo – di un nuovo soggetto politico in grado di abbinare «l’etica sociale con l’etica della vita».

È possibile cogliere qui un elemento di “novità relativa” (nel senso di riproposizione in situazioni nuove di antiche forme) del passaggio cardinalizio a patto di rammentare come negli anni della permanenza al potere della Democrazia Cristiana il problema della mediazione tra Chiesa e società politica si fosse risolto nell’adozione prevalente del tipo fondamentale di teologia della politica noto come modello «eusebiano». In questo schema, delineato secondo Gianni Baget Bozzo da Eusebio di Cesarea (265-340) nella Vita e nella Laus di Costantino, l’incidenza ecclesiale sulle leggi e sui costumi è storicamente mediata da un’istituzione politica autonoma. Un compito di mediazione che nel secondo dopoguerra sarà assicurato dalla presenza e dell’azione del “partito cristiano”.

La crisi del sistema del “bipartitismo imperfetto”, il collasso finale del potere democristiano a seguito di Tangentopoli e la dispersione del voto cattolico segnano il tramonto del tipo eusebiano di teologia della politica, cui subentra lo schema «gelasiano» enunciato per la prima volta in maniera esplicita da papa Gelasio I nel V secolo. Caratterizzato dall’interventismo delle gerarchie ecclesiastiche, senza la mediazione del potere politico, il tipo gelasiano si impone nel periodo del cosiddetto “ruinismo”. Questa nuova fase del mondo cattolico – sotto l’egida e la guida del card. Camillo Ruini – comporta la sostituzione della dialettica partitica con un movimentismo single issue ispirato dal protagonismo della presidenza della Cei e dalle sollecitazioni provenienti dall’energico pontificato di Giovanni Paolo II. È la stagione culminante nelle battaglie del referendum sulla legge 40 e del Family Day. Terminata l’era Ruini, l’evocazione di una nuova formazione politica cattolica pare indicativa dell’orientamento della Cei verso una riedizione del modello di tipo eusebiano.

Dal canto nostro, comprendiamo anche le ragioni di chi subordina l’aggregazione partitica all’aggregazione a presidio dei «valori non negoziabili».

È di vitale importanza tornare al principio e fondamento della politica cristiana, la quale, come ha scritto Augusto Del Noce, è «fedeltà a soprastorici princìpi» e perciò «fedeltà creatrice» di soluzioni storiche nuove. L’eternità dei princìpi («vetera») non esclude certo la novità dei problemi («nova»). Ma una presenza politica da cattolici e non più solo di cattolici nominalmente tali – deve prospettarsi, sempre sulla scia delnociana, come «eterna restaurazione dei principi» nel loro «carattere eterno» pur senza avanzare la pretesa di esaurirli nelle situazioni storiche contingenti.

Andreas Hofer
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