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«Dove l’umano spirito si purga»

L’unica verità cattolica che viene predicata meno dell’inferno e del peccato: il purgatorio

Basterebbe Dante, certo. Basterebbe aver letto la Commedia, per avere in mente un grande affresco teologico della dottrina del purgatorio. Tuttavia, dal momento che la Commedia non è (più?) patrimonio della cultura comune, dobbiamo accontentarci di rilevare che la sintesi dell’idea comune sul purgatorio l’ha efficacemente espressa Luciano Ligabue (che volete: quando non ci sono i cavalli corrono gli asini): «Dicono che il Cielo ti fa stare in riga / che all’Inferno si può far casino, / mentre il Purgatorio te lo devi proprio infliggere». In tre versi s’ammucchia una tale ridda di superficialità, grossolani quiproquo e vere e proprie scorrettezze che verrebbe più facilmente da cancellare la lavagna e ricominciare da capo. Invece no, perché questo ginepraio di approssimazioni ed errori è quello che i preti hanno lasciato crescere nelle menti delle persone, da quando hanno smesso d’insegnare alcune tra le poche cose che dovrebbero sapere: cosa possono e devono aspettarsi gli uomini oltre la morte.

Tralasciamo l’inversione dello stato di rigore e di quello di godimento tra inferno e paradiso – per quanto sarebbe interessante soffermarsi a considerare come l’inferno che la gente s’immagina paia assomigliare non poco al paradiso come lo immaginano i musulmani… – e consideriamo quello che ogni bambino ben catechizzato saprebbe istantaneamente riconoscere per “l’intruso”: sì, perché evidentemente il purgatorio non è affatto “omogeneo” all’inferno e al paradiso. Perché no? Il bambino ben catechizzato vi risponderebbe con gran semplicità: «Perché il purgatorio non dura per sempre, come invece l’inferno e il paradiso».

Giusto, e con questo il bambino avrebbe già dato una mezza risposta a un’importante questione che adesso accenniamo soltanto, e che ci toccherà riprendere in chiusura, perché una delle più comuni obiezioni che si fanno contro la dottrina del purgatorio è che sembrerebbe che questo vada a costituire come “una terza via” tra la beatitudine e la dannazione. Evidentemente non è così, e le vie possibili all’uomo non sono altro che due, come vedremo meglio tra poco.

Quelli che invece vogliono darsi un po’ di facili arie intellettuali verranno a dire che il purgatorio sarebbe un’invenzione ecclesiastica risalente al 1300: troppo buoni… è che proprio Dante impedisce loro, evidentemente, di tirare ancora più in alto la data – e sono così intellettuali, questi contraddittori, che neanche si chiedono se sia plausibile immaginarsi che Dante abbia imbastito la sua colossale visione su una tripartizione sorretta in forza di un decreto papale fresco d’inchiostro, per di più uscito dalla cancelleria di un papa da lui tanto odiato come Bonifacio VIII. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, invece, non avendo di questi problemi, non ha paura di dire che la dottrina del purgatorio è stata definita, in effetti, molto più tardi di quanto quei contraddittori osino dire: «La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze [Lætentur cæli, 1439] e di Trento [Decretum de iustificatione, 1547]» (1031).

Sembrerebbe che Dante si sia quindi azzardato a immaginare un oltretomba senza il riparo di definizioni magisteriali certe: beh, non sarebbe la prima volta, come sa chiunque abbia sfogliato la Commedia con un minimo d’attenzione. In realtà, l’opera di Dante (la quale non vuole e non può essere tematizzata qui) non è che un semplice segnale del fatto che la dottrina del purgatorio non è un fungo, bensì era sentita e creduta da molto prima (vedremo subito da quanto prima) della definizione magisteriale.

Salti direttamente al paragrafo successivo quanti fossero allergici ai tecnicismi teologici. I più avvezzi a masticare di teologia a buoni livelli, invece, potranno ricordare e riconoscere che anche la polemica luterana era più incentrata sulle indulgenze che sul purgatorio in sé e per sé: è vero che i due argomenti sono molto vicini, ma visto che il problema teologico ravvisato dal Riformatore tedesco era la disponibilità del tesoro di grazia di Cristo e dei Santi, l’esistenza del purgatorio può riconoscersi come un problema a parte. Il 1 gennaio 1967, del resto, Paolo VI emanò e fece entrare in vigore una Revisione della dottrina sulle indulgenze che non ometteva di riconoscere che spesso la pietà popolare era stata nutrita di una dottrina approssimativa e insalubre, legata a concezioni della grazia e della pena quantificanti e quasi materialistiche; gli abusi, però, ovvero “la famosa vendita delle indulgenze”, possono dirsi superati da molto tempo.

Torniamo invece al purgatorio e, per liberare la mente da incrostazioni legate a cattive divulgazioni (della catechesi e/o dell’arte sacra), cerchiamo di ritenere al momento solo la breve e sobria definizione del Catechismo: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo. / La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa del castigo dei dannati. […] La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, parla di un fuoco purificatore. […] / Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti, di cui la Sacra Scrittura già parla» (1030-1032).

Dov’è che la Scrittura ne parlerebbe? Il Catechismo cita, a seguire, il passo in cui si racconta dell’offerta di Giuda Maccabeo per i suoi commilitoni caduti in battaglia a causa di un peccato d’idolatria (2Mac 12,45): una parte del problema (specialmente a livello ecumenico) sta nel fatto che molte comunità ecclesiali sorte dalla riforma del XVI secolo rigettano questo e altri libri dai loro canoni scritturistici, considerandoli apocrifi (quelli che noi abbiamo sempre chiamato “deuterocanonici”, non esistendo nella versione ebraica della Bibbia, ma solo in quella greca della LXX). M’è capitato a volte di sentir dire – da parte di istrionici detrattori di Lutero – che il riformatore avrebbe strappato via dalla Bibbia le pagine contenenti i libri dei Maccabei durante la disputa con Johannes Eck: il solo pensiero che un conoscitore della Scrittura come Lutero non si fosse mai imbattuto in quei passi prima di quella disputa è ridicolo, e se il solo cruccio di Lutero fosse stato quello dommatico, di certo non avrebbe avuto bisogno di buttar fuori dalla Scrittura libri come quello della Sapienza (che egli amava moltissimo).

In realtà, da un lato la ragione dell’espunzione dei testi riguardava insieme le precompensioni dogmatiche di Lutero e l’inesistenza di quei libri in lingua ebraica (Lutero era un po’ fissato con l’ebraico, essendo stato uno dei primi cristiani d’Europa a conoscere di nuovo discretamente bene quella lingua); dall’altro, il problema del purgatorio non si risolveva alla radice bruciando i libri dei Maccabei (avevamo già detto che il problema di Lutero erano più le indulgenze che il purgatorio). Anche un passo di Paolo e uno della prima Lettera di Pietro venivano letti come dei vaghi riferimenti a questa realtà misteriosa che sarebbe il purgatorio: «Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco» (1Cor 3,14-15); «…perché il valore della vostra fede – molto più preziosa dell’oro che, pur destinato a perire, si prova col fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo» (1Pt 1,6-7).

In realtà entrambi i passi sono molto nebulosi, e – a differenza del chiarissimo testo di 2Mac 12,45 – fanno riferimento a un’idea della verifica della fede che non permette un indiscutibile collegamento con ciò che verrà chiamato “purgatorio”. A dirla tutta, niente permette di affermare con certezza l’esistenza del purgatorio, se non la certamente giusta prassi della preghiera per i defunti, opportunamente ricordata dagli estensori del Catechismo: una cosa che però mi ha stupito moltissimo, a questo proposito, è non aver ritrovato nei manuali di escatologia (come pure nel Catechismo) un passo in cui Paolo fa un’affermazione che implica una simile fede, sebbene non in maniera diretta. Dopo aver insistito per la metà di un capitolo sulla realtà indiscutibile della risurrezione di Cristo, aggiunge infatti: «Altrimenti, che cosa farebbero quelli che si fanno battezzare per i morti?»; e insiste: «Se davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro?» (1Cor 15,29). Evidentemente Paolo non sta entrando nel merito dell’efficacia di un battesimo ricevuto per un defunto (prassi che comunque egli non sembra aver proibito), ma certamente suppone per assodato che un vivo possa intercedere per un defunto, e quello che mi ha stupito ancora di più era vedere che l’edizione critica del Nuovo Testamento greco curata da Kurt Aland e Barbara Nestle (entrambi, marito e moglie, protestanti!) annota a margine del versetto paolino che lì sembra di sentire un richiamo letterario proprio a 2Mac 12,45! Perché un testo del genere, che potrebbe anche essere trattato sul tavolo di un dibattito dottrinale ecumenico, sia ignorato dai manuali di escatologia (almeno da quelli che conosco io) resta per me un vero mistero.

Ma dedichiamoci adesso, per quanto si può in poche righe, a coprire (a larghissime falcate) l’enorme spazio che separa gli anni Cinquanta del I secolo dal XIV secolo della Commedia di Dante e dalle definizioni dogmatiche dei secoli successivi. Una cosa che bisogna assolutamente tener presente – e senza la quale la preghiera per i defunti, anche se fosse antichissima, sarebbe aberrante ed eretica! – è che essa può darsi ed essere efficace esclusivamente supponendo che si possa essere, da morti, in uno stato che non è di dannazione (perché nessuno torna indietro dall’inferno) e non è ancora di beatitudine. Ecco allora perché, quando Dante si rivolge alle anime che incontra nel Purgatorio, vi si rivolge sempre come ad anime «certe di veder l’alto lume» che è Dio. In questo senso, le anime del purgatorio sono state dette “sante” anche se non ancora “beate”.

Cercheremo di capire meglio il senso di quest’ultima affermazione dopo aver capito che c’entra il fuoco: a parte i passi scritturistici che abbiamo visto, bastava l’esperienza della disinfezione tramite cauterizzazione a insegnare agli antichi che il fuoco non è necessariamente causa di morte, e questo dovette bastare a indicare proprio il fuoco come l’elemento purgativo che “somiglia all’inferno” in quanto fa soffrire, ma somiglia “molto di più” al paradiso in quanto non può comportare disperazione, anzi è carico della certezza di star per godere della visione di Dio. Già Cipriano di Cartagine (III secolo) usava il verbo purgare per indicare l’espiazione post mortem dei peccati meno gravi – visto che si riteneva che solo della santità eroica dei martiri si potesse avere indiscutibile evidenza – e tra IV e V secolo l’aggettivo purgatorius andrà a indicare genericamente le sofferenze cui si è sottoposti nel tempo intermedio. Ambrogio, Gregorio di Nissa, Cesario di Arles, nonché altri autori minori, fanno uso di questa terminologia – tralasciamo, per semplicità, il grande e complesso mondo dell’oriente cristiano antico, di cui abbiamo altre volte intravisto alcuni dei temi tipici. Il grande Agostino aggiunge spessore ai termini distinguendo la sofferenza per le pene dalla purificazione, e introducendo il concetto (ragionevole ma non privo di irrisolte problematiche) di durata della purificazione in rapporto all’entità delle pene. Da Gregorio Magno (VI secolo) in poi il termine è di uso largo e comune, nel clero e tra i laici.

L’ultima cosa che dovremmo cercare di capire è come si possa pensare che un’anima sia già santa ma non ancora felice (perché ancora incapace di godere di questa santità): ogni volta che mi raccolgo a riflettere su questo aspetto del problema, si affollano alla mia mente immagini contenenti l’analogia della luce e del calore – forse più adatte, per noi moderni, a veicolare l’idea del “fuoco ardente” di Dio. Il purgatorio sarebbe allora come il momento in cui nella stanza di uno che dorma al buio venisse spalancata la persiana lasciando che la luce solare inondi lo spazio; il purgatorio sarebbe pure come l’ustione necessaria di uno che si ritrovi esposto al sole senza avere la pelle già sufficientemente scura da non scottarsi. Si capisce subito il trait d’union con l’inferno, ma attenzione: non è il purgatorio che condivide la sofferenza con l’inferno bensì, al contrario, sono l’inferno e il purgatorio che condividono col paradiso la luce divina (perché alla fine «Dio sarà tutto in tutti»).

Una è la luce che penetra nell’occhio della coscienza quando si nasce allo stato incorporeo, ma l’occhio giudicato e reso capace di dilatarsi soffre per poco di quella stessa luce di cui poi gioisce in eterno, e di cui l’altro occhio soffre per sempre il raggio. Non ci sono “vie di mezzo” tra la salvezza e la dannazione, ma è del tutto conforme alla debolezza della creatura umana che un maggior carico di colpe possa rendere per un qualche tempo (come quantificarlo?) insostenibile lo splendore di Dio: sotto lo stesso sole sono sdraiati quelli che godono, quelli che si scottano momentaneamente e quelli che soffrono lo spasmo di un’ustione eterna.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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