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Un’unica carne con il Re

Cosa possiamo e dobbiamo sperare? Le gioie della regalità di Cristo, dall’inizio alla fine

«Ma che si fa in Paradiso?»: è la giusta domanda che tutti si fanno, prima o poi nella vita, e che solo i bambini hanno il coraggio di porre a qualcuno, confidando nella competenza e nella preparazione dei “grandi”. Mi hanno raccontato, una volta, di un bambino che ebbe la malaugurata audacia d’interpellare una suora della sua parrocchia. La religiosa, facendo richiamo alle sue raffinate letture spirituali e teologiche, gli avrebbe risposto: «Il Paradiso è come quando siamo a messa; una messa eterna!». Il bambino deve aver vacillato sulle ginocchia come per un mancamento, immaginando un Gloria di mille anni o qualcosa del genere.

In realtà la religiosa non aveva torto, ma la risposta andrebbe articolata in modo più raffinato: in paradiso si vive in eterno ciò che viene celebrato nella liturgia. Ora, cosa viene celebrato nella liturgia? Tempo fa avevamo dato una risposta dettagliata, per quanto generica: prima di riprendere in mano la cosa secondo la prospettiva che c’interessa oggi, vorrei fare un’altra precisazione. Proprio l’altro ieri un amico mi faceva osservare che quello di “eternità” è un concetto che si spiega poco e male: generalmente si pensa che l’eternità sia un tempo che non finisce mai, e questo è più che comprensibile perché (Kant ce lo ha insegnato bene) nessun uomo può mai evitare, anche se vuole, di pensare usando i concetti di “spazio” e “tempo”. I medievali, che non conoscevano Kant ma che in compenso sapevano pensare molto bene, definivano per questo l’eternità una “tota simul ac perfecta possessio vitæ” (ossia un “possesso della vita completo e perfetto”). Essi rinunciavano, cioè, a dire se e quanto “durasse” l’eternità, perché l’essenziale dell’eternità era per loro esattamente che lì non si replicavano le dinamiche “esistenziali” (diremmo noi moderni) per le quali alla nostra felicità e alla nostra stessa vita manca sempre qualcosa, bensì – dice Dante parlando del paradiso – «fuor di quella / è defettivo ciò che lì è perfetto» (Pd XXXIII, 104-105).

Un nodo che arriva subito al pettine della ragione è che, proprio perché ci viene spontaneo pensare “l’eternità” come un’anomala nozione temporale, ci risulta altrettanto problematico pensare a un’eternità fisica, vissuta con un corpo (il quale avrebbe, sì, un legame d’identità con quello attuale, ma che sarebbe pure qualitativamente molto diverso). Non si tratta semplicemente di pensare la restaurazione di corpi annichiliti dalla morte e dal tempo, ma precisamente di figurarci un modo in cui il corpo può esistere “in eterno”. Ora, questo è un punto della fede cristiana («aspetto la risurrezione dei morti») che fin da subito ha scandalizzato con la sua inaudita provocatorietà: ci sono pervenuti a decine, nei primi tre secoli, saggî dal titolo “De resurrectione mortuorum” (“La risurrezione dei morti”, con le varianti “- dei corpi” e “- della carne”), in cui si cercava di “divinare” lo stato dei corpi risorti, distinguendo perfino tra la qualità della carne risorta dei beati e la carne risorta dei dannati.

Pura fantateologia? Non proprio: in fondo ci sono già due corpi che godono dello stato glorioso (anche se anch’essi «aspettano la risurrezione dei morti», e anzi l’aspettano con una trepidazione tutta particolare), e sono quelli di Gesù e di sua Madre. Dove sono questi corpi? I loro sepolcri sono vuoti e, sebbene il corpo di Cristo sia tutto sacramentalmente presente in ogni tabernacolo del mondo, non è meno vero che il corpo di Cristo è la Chiesa tutta. Questi “due corpi” di Cristo sono lo stesso corpo nato da Maria Vergine? Ne parlammo già, qualche volta, e ci sarà modo di tornare a parlarne, ma quando si dice che “il corpo di Cristo è asceso al cielo” non s’intende certo che si trova fisicamente parcheggiato sulle nuvole o sul lato oscuro della Luna! Che il corpo di Cristo si trova in cielo («Siede alla destra del Padre») significa che è già tutto proiettato sull’evento finale della conformazione a sé di tutti i corpi risorti, quando la realtà cominciata sacramentalmente nel Battesimo – cioè l’incorporazione all’unico Figlio di Dio – sarà chiara e manifesta: per questo Paolo scrive che «la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19).

Per questo motivo la Solennità di Cristo Re dell’Universo chiude l’anno liturgico: perché parla della fine del tempo e di tutti i tempi, quando la regalità di Cristo – che nel primo tempo (Avvento e Natale) viene contemplata nel mistero delle profezie e che nei tempi centrali del culto cristiano (Quaresima e Pasqua) viene adorata nel mistero del Crocifisso-Risorto – troverà la sua evidenza universale. Verso la fine della collezione dei Libri Sacri, l’Autore della Lettera agli Ebrei scrive che «in effetti ora non vediamo ancora che tutte le cose gli sono sottomesse» (Eb 2,8). Cristo viene chiamato “re” in molti più passi che in quei pochi che vengono liturgicamente proclamati nella chiusura dell’anno liturgico, tuttavia il concetto di regalità è molto ambivalente, nella Scrittura, al punto che il titolo regale arriva a designare sia il Cristo sia l’Anticristo.

La storia d’Israele mostra una delle sue peculiarità più tipiche nel ritardo con cui s’è data in essa – stando al resoconto storiografico – l’istituzione monarchica: la parabola degli alberi che vogliono darsi un re, senza trovare di meglio, alla fine, che un rovo (Gdc 9,7-15), la dice lunga sulla diffidenza che l’Israele dei Giudici (quello da poco uscito dall’Egitto e ancora seminomade) nutriva per la monarchia. La storiografia d’Israele mostra con chiarezza che, in linea di principio, solo Dio è re: questo fa sì che anche la concezione e il racconto dell’esperienza monarchica relativizzi incredibilmente la figura del re; mentre in tutto il Medioriente antico il re era una divinità o giù di lì, in Israele doveva essere il primo custode dell’Alleanza, e le mancanze contro di essa non gli vengono affatto scontate.

Nel Nuovo Testamento, invece, si possono distinguere almeno tre atteggiamenti nei confronti della monarchia: uno è quello di Gesù (come ci è riportato soprattutto dai Sinottici), che si mostra irriducibilmente libero, ma non tanto critico da arrivare a schierarsi con gli zeloti contro il potere temporale. Sembra che a Gesù il potere di Cesare e quello di Erode non interessi affatto: «Voi sapete che i re di questo mondo funzionano così e così…», spiega indefessamente a quelli che cercano di diventare discepoli del suo regno. C’è poi l’atteggiamento che si trova nella Lettera a Tito e nella Prima Lettera di Pietro, che è segno di un’epoca in cui ci convince che tutto sommato è meglio per tutti se col potere non si tengono cattivi rapporti, finché è possibile: pregare per i re, quindi, comincia ad essere un dovere del cristiano. C’è infine la posizione di aspra rottura di tutti gli “scritti giovannei”, altra ricetta per affrontare la medesima situazione del secondo gruppo: dal Quarto Vangelo all’Apocalisse, ogni potere mondano viene stigmatizzato come una traccia inequivocabile dell’Anticristo, e in fondo abbiamo visto poche settimane fa come quest’idea rimontasse ai Profeti, che già avevano avuto occasione di vedere fino a che punto l’emanazione simbolica della regalità di Dio poteva pervertirsi nella sagoma dell’Avversario.

Lo scontro tra la chiara espressione dell’autorità politica mondana e questa nebulosa ma irrinunciabile regalità di Cristo s’è fatto sentire fin da subito, nell’esperienza del cristianesimo, e per tutti i secoli (con alti e bassi): già negli Atti degli Apostoli viene fuori che “i seguaci della Via” – come vengono chiamati i cristiani – «fanno ogni cosa contro i decreti di Cesare, dal momento che dicono esserci un altro re: Gesù» (At 17,7). La stessa penna che ha annotato queste cose, ovvero quella di Luca, ha riportato nel suo Vangelo (19,11-27) una versione unica della “parabola dei talenti” di Matteo: il medico “discepolo di Paolo” ha prodotto un ricamo di temi straordinariamente variegati e intricati, sulla trama del semplice lascito di monete da far trafficare.

Anzitutto, l’antefatto della parabola racconta che il viaggio dell’uomo, esplicitamente detto “nobile”, comincia in vista dell’acquisto di un titolo regale in un paese lontano per poi tornare: si pensa senza dubbio alla missione del Cristo stesso, che Luca aveva già dichiarato essere sceso in Maria nell’ombra potente dell’Altissimo (1,35), e destinato poi ad ascendere al cielo (da dove era venuto), e fin qui tutto bene. L’Evangelista non mette poi l’attenzione sul criterio di spartizione delle ricchezze (cosa che invece impensierisce Matteo), ma racconta di dieci mine per dieci servi: tralasciamo qui perché la scena della consegna contempli un gruppo di dieci mentre quella del rendiconto si accontenterà anche in Luca di tre servi, i quali porteranno le dichiarazioni che conosciamo. La cosa interessantissima viene subito dopo la partenza del protagonista: i suoi concittadini lo odiano e non vogliono che – una volta ricevuto il regno – egli torni e regni su di loro. Ora, chi sono questi concittadini del nobile che va a ricevere il regno?

I giochi si chiudono in poche parole: il nobile diventa re, torna chiede conto del capitale, i servi rispondono come sappiamo, e infine Luca (colui che nel De Monarchia Dante avrebbe chiamato «scriba mansuetudinis Christi») annota che il re ordinò che i suoi nemici, i quali non lo volevano per re, venissero condotti alla sua presenza e fatti a pezzi.

Ora spiegatemi: chi sono i servi e chi sono i nemici? Semplicemente “i buoni e i cattivi”? Beh, se la cornice fosse quella di Matteo sì, ma anche Matteo non ha alcun bisogno di parlare dei nemici del re, perché per dire della condanna e della pena gli basta il terzo servo. Il vero problema, però, la vera anomalia del racconto di Luca è che il protagonista della parabola non va semplicemente “via” (come abbiamo visto essere tipico di Dio), ma va a fare qualcosa di molto preciso, ossia a ricevere un titolo regale: quest’azione non può che comprendersi come allegoria della missione terrena di Cristo, che predica, realizza e conquista il regno nella storia degli uomini, ma che non per questo vede (ancora) annientati i suoi nemici. Il premio e il castigo, dunque, sono riservati per il ritorno del re al suo paese d’origine: con ciò non si indica, evidentemente, l’ascensione, ma lo stato del Re “alla destra di Dio” (ossia l’orientamento escatologico della regalità di Cristo, che non si manifesterà che allora). In fondo, però, tutto questo lo sapevamo già: il punto oscuro resta il capire come mai si dice che i servi e i nemici sono altrove rispetto al luogo lontano in cui egli va a prendere il titolo regale. Non se ne viene fuori se non si ammette che la distanza del paese lontano indica soprattutto il carattere solitario della missione del Cristo, come pure che la differenziazione tra i nemici e il servo cattivo serve a mostrare che il Regno (ossia il ricevere il molto per il poco, l’eternità per il tempo) lo si può perdere sia per opposizione attiva sia per pigra negligenza.

E poi c’è molto di più, certamente: come il fatto che la punizione dei nemici debba avvenire alla presenza del Re. Non è sadismo, ma una necessità escatologica: quando il regno di Cristo sarà totalmente manifesto, neanche quelli che non avranno voluto aver niente a che fare con lui potranno evitare la sua presenza – perché la regalità del Figlio di Dio splenderà in tutti i figlî di Dio, e sarà quello splendore a tormentare gli altri.

Il paradiso è quindi lo stato in cui tutti i figlî di Dio godono dell’amore del Padre come il Figlio unigenito, cui li fonde (senza confonderli) il fuoco dello Spirito. Il paradiso è il momento eterno in cui lo Sposo, che è Cristo, Re di tutto, si unisce per sempre alla sposa, che è potenzialmente ciascuno di noi e al contempo tutti noi.

Ricchezza senza paure, gioia senza ombre, amore senza fine – tutto e solo ciò che ci permetterà di non rimpiangere niente delle più alte meraviglie della vita terrena, e naturalmente di non annoiarci!

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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