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Non solo virtù di famiglia

Bando alle canonizzazioni e agli isterismi fanatici pseudoreligiosi, una nota su Whitney Houston. Regina delle note. Morta.

di Egidia Simonetti

I grandi della canzone sono come poeti che, attraverso il linguaggio universale della musica, parlano di sé e del mondo, lasciando un messaggio imperituro. Ispirati, geniali, arrabbiati, depressi, spesso incompresi, ci aiutano a guardare dentro la realtà e a dare una risposta ai nostri interrogativi più profondi. Al dì la delle divisioni di orientamenti e gusti, genere, stile e nazionalità.

L’11 febbraio 2012 nel pomeriggio abbiamo perso un’altra grande della musica contemporanea, Whitney Houston. The Voice come l’aveva ribattezzata Oprah Winfrey, pur essendo questo titolo universalmente riconosciuto ed attribuito a Sinatra. Ma Oprah non fu l’unica ad esprimersi pubblicamente con definizioni indelebili sulle qualità vocali della Houston, ci fu anche The Time Magazine che ebbe modo di riferire il suo apprezzamento, in modo pregnante, affermando: «If the voice is a musical instrument, hers is a Stradivarius».

La Houston è senz’alcun dubbio uno degli innumerevoli casi di figlia d’arte – ed indiscutibilmente dei più riusciti a livello planetario. L’allora zio, e padre di Dionne Warwick, lavorava per la Chess Records e la zia era la manager del gruppo gospel delle Drinkard Sisters. La stessa madre della Houston, che tutti chiamavano zia Cissy, ha fatto parte del gruppo, oltre ad essere una stimata solista nel gruppo soul Sweet Inspirations. Il giungere alla ribalta internazionale di questa saga famigliare statunitense avvenne nel 1961 grazie ad un membro di essa, la già menzionata Dionne Warwick. Tutto inizia nel 1961 in occasione di una sessione dei Drifters, che stanno registrando Mexican Divorce di Burt Bacharach. Per le background vocals i produttori Leiber & Stoller convocano i Gospelaires, un quartetto del New Jersey: Myrna Utley, Carol Slade, Dee Dee Warwick e sua sorella la ventiduenne Marie Dionne. Bacharach fu folgorato. Cominciò un sodalizio che durò, tra alti e bassi artistici, per ben venti anni. Il cerchio si chiuse con That’s  What Friends Are for, pezzo benefico per la ricerca sull’AIDS.

Il pezzo porta la firma di Bacharach, ma i due non collaboravano più. Sarà forse stato un caso ma l’alchimia si ripeté e la canzone, già incisa da Rod Steward, volò al primo posto delle classifiche.

Da questo momento in poi il raggio dei riflettori si allarga sulla realtà della saga famigliare Warwick. Vent’anni dopo il debutto di Dionne, la famiglia sfornerà un altro grandissimo talento, la giovane figlia di zia Cissy, la oggi compianta Whitney Houston.

Il suo grandissimo successo negli anni ottanta ha permesso l’apertura di mercati fino ad allora preclusi alle cantanti di colore. Con essi la Houston ha dominato le classifiche mondiali. È una delle donne di maggior successo discografico: è la quarta per numero di vendite negli Stati Uniti con circa 55 milioni di dischi.

La sua infanzia e la sua vita erano iscritte nell’arte. All’età di nove anni iniziò a cantare nel coro gospel della chiesa “New Hope Baptist Church”, dove cantò la prima volta come solista all’età di undici anni. Il rapporto conflittuale con i genitori, contrari a giovani artisti non regolarmente diplomati, la costrinse a tenere le sue ali di artista chiuse in una camicia di forza fino al debutto ufficiale del 1985 con il suo album d’esordio: “Whitney Houston. Nel frattempo tuttavia le sue occasioni artistiche furono diverse; a soli quattordici anni era stata cantante di sostegno nel gruppo di Zager, a quindici cantò come voce di sottofondo nel singolo Chaka Khan “Sweet thing”, nei primi anni novanta iniziò a lavorare come modella, apparve in Seventeen e divenne una delle prime donne di colore ad aggiudicarsi la copertina della rivista.

In seguito al tanto preteso diploma, nel 1981 i genitori decisero di avviare formalmente la sua carriera. Dopo alcuni anni iniziali con case discografiche diverse, a cui corrisposero diverse esperienze artistiche, nel 1985 balzò alla notorietà mondiale con il suo primo album, che conteneva peraltro una cover di Diana Ross, “In Your Arms”. Dopo essere stata la regina indiscussa delle Supremes, la Ross – quest’icona dell’other side of the moon, della musica di colore statunitense – era ancora un’artista apprezzatissima: il suo cammeo nell’album della Houston fu una trovata esplosiva, che permise non solo al singolo ma anche all’album di entrare al primo posto delle classifiche.

La carriera della Houston crebbe non solo in notorietà ma anche in completamento artistico fino al 2002 con il suo quinto album di inediti. La sua vita privata, in modo particolare il suo matrimonio con Bobby Brown e le questioni legali con il padre, iniziò a minare la stabilità psicofisica di questa donna innamorata “della magia del suono”. Whitney era riuscita a divenire celebre non solo perché le contingenze famigliari nel mondo dello spettacolo l’avevano favorita, ma bensì perché le sue doti naturali erano reali. Whitney possedeva una voce da soprano drammatico calda e piena, limpida, omogenea, di notevole volume, assai estesa e sorretta da un’ottima preparazione. Nonostante la sua grande estensione e la notevole potenza emessa soprattutto sulle note in piena voce piena, non fece mai uso del registro del fischio. Divenne celebre non solo per la sua estensione ma soprattutto per il controllo vocale.

Le sue vicende private hanno avuto un peso soverchiante nell’evoluzione della sua esistenza, soprattutto nell’ultimo decennio. Cosa che accade quasi sempre, alle stelle, ma questo non deve impedirci di ricordare quello che lei era e quello che lei ha desiderato non solo essere, bensì anche donare a tutti noi, a tutti coloro che hanno saputo accogliere il dono della sua arte, la sua voce e la sua persona. In questi giorni molti penseranno (o penseranno di pensare) che si tratti della solita pop star drogata e volgare, buona per un sermoncino sulla rovina che sta in agguato dietro al successo (con delle punte di pessimo gusto e dall’imbarazzante pressappochismo teologico): un approccio superficiale e falsante – Whitney fu ben altro. Se qualcuno desiderasse soffermarsi su come lei – questa donna tanto stupenda quanto sfortunata – vedeva se stessa, il suo rapporto con l’arte, la madre e i suoi sogni di infanzia, potrebbe essere esplicativo il video da lei proposto a riguardo del brano “Greatest Love of All”.

 

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