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Christianus alter Christus

Imitazione e grazia operante nei martiri dei primi secoli

Il cristiano è un altro Cristo. Da Tertulliano in poi questa definizione ci rammenta la nostra vera e genuina identità: attraverso il battesimo, ciascun cristiano diviene membro del corpo mistico di Cristo, Cristo egli stesso, perché in Cristo è chiamato a vivere, per Cristo è chiamato a morire, con Cristo è chiamato a risorgere. Fulcro della vita cristiana è questo vincolo indissolubile, vincolo di appartenenza e di amore, vincolo di santità, che ha in Cristo la sua origine, il suo modello e la sua perfezione.

Nella storia cristiana si sono definiti vari modelli di santità (martiri, asceti, monaci, vergini, vescovi, sovrani illuminati), ma per tutti vale il principio della somiglianza: si è santi nella misura in cui comportamenti, azioni e atteggiamenti siano uniformati all’insegnamento di Gesù Cristo. Ma occorre comprendere a fondo in cosa consista questa imitazione, se sia un processo unicamente umano, meccanico ed esteriore di omologazione, o se piuttosto non rifletta un cambiamento più profondo e spirituale, un dono di grazia.

Nei primi secoli dell’era cristiana, quando la diffusione della nuova religione era contrastata con il ricorso alla violenza e alla persecuzione, il martire era la figura che più si avvicinava a Cristo nell’immaginario dei fedeli. Testimone di verità, ingiustamente condannato e maltrattato, accoglieva una morte violenta e dolorosa con umiltà, mitezza e amore (addirittura verso i carnefici); in alcuni casi compiva persino parole e gesti assimilabili a quelli della Passione. Pensiamo a Stefano, che, mentre veniva lapidato, intercedeva per i suoi persecutori e affidava il suo spirito al Signore (At 7,59-60), proprio come aveva fatto Cristo prima di lui (Lc 23,34.46).

Attraverso il martirio, i cristiani avevano la possibilità di rivivere nel proprio corpo le sofferenze della Passione. Nel corso dei supplizi essi cercavano e trovavano una comunione così profonda con Cristo da riuscire a gustare proprio in quei momenti la dolcezza della grazia divina. La Lettera sui Martiri di Lione (177 d.C.) narra che Alessandro sopportò tutti i tormenti senza emettere né un gemito né un lamento, ma per tutto il tempo si intrattenne con Dio nel suo cuore. Questa forma di comunione contemplativa, raggiunta tramite la preghiera, istituisce un rapporto intimo e personale tra il martire e Dio: infiammato e sostenuto da un ardore divino, il testimone riesce a sopportare virilmente ogni tipo di maltrattamenti, perché il Signore è con lui.

Questa intima comunione può approdare a un’identificazione del martire con Cristo. Nella Passione di Perpetua e Felicita si narra che Perpetua si trovò a partorire in carcere all’ottavo mese; alla guardia che la scherniva perché si lamentava per le doglie e le chiedeva cosa mai avrebbe fatto quando sarebbe stata esposta alle belve, così rispose: «Ora sono io a soffrire ciò che soffro; là invece ci sarà in me un altro che soffrirà per me, perché anche io soffrirò per Lui». Perpetua è sicura di non restare sola nel momento della prova: anzi è certa che non proverà alcun dolore, perché Cristo stesso soffrirà al posto suo. Egli sarà presente spiritualmente non solo con il suo testimone, ma nel suo testimone, così che non è più il martire a soffrire, ma è Cristo stesso che nel corpo di quello rivive la sua Passione.

L’identificazione del martire con Cristo diventa totale nel momento in cui il primo quasi scompare dietro le fattezze del secondo. È ancora la Lettera sui Martiri Lionesi a offrire materiale significativo (e direi in una certa misura stupefacente) a questo proposito. Tra i cristiani che a Lione furono vittime dell’odio violento dei gentili è ricordata una certa Blandina: una donna minuta, gracile, in un corpicino debole, spregevole e di poco conto, che tuttavia sopportò con forza sorprendente i supplizi che i torturatori le inflissero alternandosi per un’intera giornata, finché essi stessi dovettero constatare l’inutilità dei propri sforzi. Tormentata in ogni modo, sembrava le arrecasse sollievo, ristoro e anestesia dal dolore il ripetere la propria confessione di fede: «Sono cristiana». È già questo un primo miracolo che si compie in Blandina, frutto dell’intimo legame istituitosi tra lei e Cristo, al quale ella dichiara di appartenere ribadendo la propria identità. Come a dire: «Sono di Cristo», e con le parole di Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza» (Filippesi 4,13).

Ma in Blandina si opera un prodigio ancor più sorprendente! Narra la lettera che, dopo tante torture, i carnefici la condussero nell’anfiteatro, la attaccarono a un palo e la esposero come cibo per le belve: ella stava nel centro, appesa a una sorta di croce, in fervida preghiera, e infondeva coraggio agli altri cristiani, che nella sorella vedevano Colui che era stato crocifisso per loro.

Non è sorprendente? La tradizione vuole che Pietro, condannato alla morte di croce, avesse chiesto di essere inchiodato a testa in giù, perché non si sentiva degno di essere paragonato al Maestro. Nel suo caso il tipo di pena e le fattezze esteriori avrebbero giustificato e incoraggiato un’identificazione tra il discepolo e il Maestro. Ma come può una donna debole e indifesa, appesa a un palo nel mezzo di un anfiteatro, ricordare il Salvatore crocifisso? Eppure l’esperienza della Passione (evidente nelle ferite di quel gracile corpo femminile, lacerato e tumefatto a seguito dei tormenti, ma reso forte dall’appartenenza a Cristo e dall’intima comunione con Lui) aveva trasfigurato a tal punto la martire che al suo posto i cristiani presenti vedevano (non immaginavano o paragonavano, ma vedevano con i propri occhi) Gesù Cristo crocifisso. L’identificazione tra il martire (anzi la martire) e il Cristo della Passione è totale. Non si tratta più di una presenza di Cristo con il suo testimone o nel suo testimone, ma i due sono una cosa sola.

Riflettendo su questa miracolosa visione, gli autori dell’epistola sostengono che ciò avvenne «per persuadere coloro che credono in Lui che chi soffre per la gloria di Cristo è sempre in comunione con il Dio vivente». Gli esiti di questa comunione sono davvero stupefacenti, e sono ammissibili solo nella misura in cui l’imitazione di Cristo non è solo un atto esteriore e meccanico di omologazione a un modello, ma l’effetto di una grazia profondamente operante e trasfigurante.

 

 

«Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»

(Gal 2,20)

 

 

Immagine: Luca Giordano, Crocifissione di san Pietro

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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1 Comment on Christianus alter Christus

  1. mauro valente // 2 Marzo 2012 a 06:48 //

    Articolo profondo e sentito. Non dimentichiamoci però che la tortura come momento di rovesciamento delle normali gerarchie è un topos letterario: anche negli autori pagani durante la sofferenza atroce chi è più umile rivela sorprendenti doti di coraggio e sopportazione (basti pensare a Epicari, fatta barbamente uccidere da Nerone).
    Il Cristo da imitare è certamente quello della Passione, ma non solo: è bellissimo anche identificarsi con i primi 30 anni di Lui, anonimi, volti alla preghiera, immersi nella quotidianità senza sovrastrutture ideologiche.

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  1. Né maschio né femmina

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