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Impegnada!

Il curioso caso di un’opinionista per necessità, che per di più sa quello che dice

Mette subito le mani avanti, Susanna Tamaro: e come si può non capirla? Per una persona solitaria, intelligente e profonda, trovarsi a rivestire i panni del cosiddetto “opinionista” è quantomeno fonte d’imbarazzo. Vi sono però delle tematiche per la cui urgenza si può accantonare il decoro personale, e accettare di sembrare ciò che non si è: «Il nostro tempo, l’Italia, i nostri figli» sono gli argomenti che la Tamaro ha voluto raccogliere in L’isola che c’è (Lindau, 169 pp. 12 €). Si tratta di brevi capitoli che rielaborano materiali parzialmente eterogenei: qualcosa era già stato pubblicato su giornali o riviste, ma c’è dell’inedito, e la compiutezza della redazione finale dice l’unità ideale del libro.

Dobbiamo del resto anche noi delle scuse all’Autrice, per averla indicata con una parola – “impegnada” – tanto maccheronicamente consonante col recente nomignolo internazionale dei “ribelli globali” – gli “indignados” –, ai quali peraltro la Tamaro non risparmia penetranti critiche. Le tre cose che compaiono nel sottotitolo del libro possono in qualche modo raccogliere, come in tre schedarî, i pensieri che l’Autrice scandisce nel corso delle pagine, ma non possono dirne l’intima natura e il principio primo, se non si considera che non sono essi, per la Tamaro, la vera posta in gioco. Questa è significata dal Decalogo «dell’Alleanza del Sinai – che, come amo ripetere, è il fondamento etologico della società umana – [e che] in pochi decenni è stato frantumato e ridicolizzato, come se fosse ormai un arcaico orpello di cui non abbiamo più bisogno» (8).

Vero Leitmotiv della raccolta, il Decalogo viene menzionato quasi dieci volte nell’arco del libro, e attorno a quest’asse portante i varî capitoli (dai temi talvolta ricorrenti, ma mai ripetitivi) si dipanano secondo un prospetto che – già da un’occhiata all’Indice – risulta quasi “un dittico bipartito”. Nel primo pannello infatti si alternano “il nostro tempo” e “i nostri figli”, mentre nel secondo “le lezioni della natura” e “spiritualità” si spartiscono quasi alla lettera il campo classico di natura e grazia.

Quasi una pars destruens, la sezione su “il nostro tempo” passa in rassegna le gravi contraddizioni della società sedicente civile: «Una società impostata sulla comunione e non sul possesso […], anziché proporre un referendum sulla modifica della legge 40, avrebbe lottato per un accorciamento dei tempi dell’adozione che dovrebbero essere equiparati a quelli di una gravidanza» (15). Protesta, Susanna, e le sue ragioni si spingono sempre più in là e più a fondo di ogni conformismo e di ogni moralismo: il grave scandalo dello spreco massivo di risorse alimentari, ad esempio, non è declinato secondo la classica considerazione dei “Paesi poveri”, ma tenendo presente come l’economia di mercato coinvolga «il nostro cuore, il senso più profondo e radicato del nostro esistere. […] Si possono distruggere montagne di cibo e poi avere dei bravi figli, dei cittadini rispettosi, degli adulti responsabili e compassionevoli?» (41).

Singolarmente importante è il ruolo giocato dal concetto di “parola/lògos” nell’antropologia della Tamaro (nulla di più naturale, del resto, in una naturalista): «Non è stata forse la capacità della parola il colpo di reni che ci ha permesso di staccarci dai nostri cari cugini scimmioni? Non è forse la parola che ci ha permesso di tramandare i molteplici usi del fuoco alle generazioni future? […] Non è forse la parola che ci ha messo in relazione con la bellezza?» (48-49). Su questo cardine antropologico la Tamaro avrà gioco di riprendere, nella quarta sezione del libro, il tema del “Dire Dio oggi”: il depauperamento della lingua, la distanza degli uomini da Dio, il risentimento e la depressione che coinvolgono parti inammissibili della popolazione sarebbero dovuti «al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità» (149).

La parola era stata intesa poco prima come il mezzo (realmente divino, come la teologia cristiana ha insegnato al mondo) per cui si edifica «quell’unica realtà che per l’uomo ha senso. Il tempo. Aver cancellato Dio dai nostri pensieri ci ha messi improvvisamente fuori dal tempo» (142). La “paralisi del tempo” era stata finemente collegata alla già menzionata disumanizzazione dei processi produttivi agricoli, dai quali (insieme con la stessa parola) le civiltà indoeuropee avevano guadagnato e la cultura e il tempo (115-118). Poiché però la Tamaro mostra di saper ben distinguere tra l’amore viscerale alla madre terra e la latria mosaica al Creatore di quella stessa madre, l’oblio del tempo non viene mai lasciato nell’àmbito puramente cosmologico (quantunque antropico), ma entra significativamente in gioco nella descrizione della crisi antropologica in corso: per più di un paio di volte si legge di “una sorta di eterno presente” (tempo esistenziale, naturalmente, ma esiste altro tempo significativo?) per il quale «l’infanzia e l’adolescenza sono diventate la condizione base dell’uomo, non c’è più l’idea che la vita sia un percorso di esperienza e conoscenza che porta, col tempo, a una maturazione, a una saggezza. Quella saggezza che ci permette di accettare e trovare un senso nello scorrere del tempo» (91).

Anche i temi della seconda parte (cui siamo tornati) risultano quindi saldati al tutto mediante i concetti di parola e tempo: la sezione dedicata a “i nostri figli” si apre con una dura requisitoria “contro” gli indignados, che mostrano di non avere idea di quante ragioni avrebbero per essere profondamente tali – «per come sono stati trattati dalle generazioni che li hanno preceduti, perché fin da bambini le loro teste sono state riempite di ogni sorta di porcheria fino a renderli sempre meno capaci di un pensiero autonomo e critico» (64). In apparenza queste sono le medesime parole usate dagli stessi indignados, ma la Tamaro – che è “impegnada” nella realtà, e non nei fumi ideologici – ha sempre bene in mente le due tavole del decalogo, coi loro preziosi “non”: «Devono essere veramente indignati, ma […] perché […] è stato detto loro sempre sì, mentre per maturare, per diventare persone davvero adulte bisogna affrontare la selva dei no. Nessuno ha mai osato dire loro che la vita acquista senso nel momento in cui diventa costruzione e non intrattenimento» (ivi).

Di qui alla “pornografizzazione della società” (77) il passo è brevissimo, e difatti l’altro grande tema della seconda parte affronta a testa bassa il ginepraio della differenza sessuale e delle principali aberrazioni che, col comprometterne la naturale attuazione, distruggono gli equilibrî individuali e sociali. La valutazione sugli esiti del movimento femminista è tranchant: «A distanza di quarant’anni da allora, al di là delle indiscusse e indiscutibili conquiste delle donne, una cosa è evidente ed è che il modello femminile si è inesorabilmente conformato a quello maschile» (ivi). L’ideologica livella che ha preteso di annullare la differenza ha trasformato le donne «in affannati cloni del modello maschile. Ma anche all’uomo non è andata molto meglio: privato di un vero femminile, si è sentimentalizzato, perdendo quelle prerogative positive implicite nella sua natura paterna e virile» (79).

Si capisce che l’Autrice, che peraltro ammette di aver molto sofferto dell’assenza del padre nella sua vita, ha nel mirino quel fenomeno etologico tutto contemporaneo che sono “i mammi”, «padri che hanno smesso l’abito dell’autorità per vestire quello del servizio» (95), al fine di osservare che «questa modifica di ruolo, apparentemente così innocua e positiva, ha in realtà alterato la polarità della coppia» (ivi). Dopo aver apertamente riconosciuto che le donne si son semplicemente trovate – loro malgrado, ma non senza il loro consenso, anzi il loro entusiasmo – ad essere «oggetti in modo diverso» (85), il femminismo egualitario s’è rivelato niente più che il risvolto più subdolo del maschilismo (87).

Il segreto sta nella coscienza, come Susanna ripete dai tempi di Va’ dove ti porta il cuore: già da allora severissimi censori neogiansenisti hanno (vanamente) accusato la Tamaro, quale originale “gesuitessa”, di demolire l’edificio dell’etica in nome dell’estro. Con la sorte che non di rado attende gli inquisitori incauti, da giudici si ritrovano repentinamente imputati, perché mostrano di non ricordare che una coscienza ben formata è a se stessa via di comunicazione “naturale” con la verità (Dt 30,11-14).

Susanna, invece, ha sempre davanti agli occhî il Decalogo, magna charta dell’ethos universale umano: in virtù dell’Alleanza la sua riflessione serpeggia agilmente tra i paradossi della società e i misteri della natura. Così, mentre nella prima sezione del libro si notava che, «immersa nel terrore della morte, la nostra società è diventata una società profondamente necrofila» (33), nel cuore della seconda si denuncia che questa società necrofila, «così impaurita, così cinica – e allo stesso tempo così travolta dalle sbornie del sentimentalismo – ha paura dello spirito femminile, perché questo spirito, che è concreto, attivo, [ed è spirito di maternità], la spingerebbe nella direzione opposta» (80-81).

Un bel libro, quello di Susanna Tamaro, che fornisce argomenti lucidi e intelligenti a un dibattito quasi sempre ingolfato in meschinità da talk show. Non mancano sbavature (poche), come quella per la quale sarebbe stato il nazismo a inaugurare la prassi di sottrarre i cadaveri al naturale processo decompositivo a vantaggio della ricerca e della sperimentazione (28-29); resta poi anodina la menzione di una “necessità di una legge sull’aborto” (84), perché non si vede come la soppressione di un innocente inerme possa accordarsi con la plurimenzionata magna charta dell’ethos universale umano; infine pare inspiegabile che una persona di indiscutibile cultura letteraria possa asserire che “in età vittoriana” (quando? dove?) «la Bibbia veniva interpretata in senso letterale» (158), laddove la storia delle interpretazioni allegoriche (specie delle parti più chiaramente mitologiche) è lunga quanto la storia stessa del cristianesimo.

Con tutto ciò, però, non s’è ancora detto il meglio della raccolta della Tamaro, che si trova quando negli ultimi due capitoli riemergono e si riannodano le ispirazioni religiose (nel senso più limpido del termine). In L’isola che c’è Susanna Tamaro offre un esempio di critica ecclesiale schietta fino alla durezza eppure mai gratuita, perché sgorgante da un cuore pacificato e conscio del proprio posto (con le sue prerogative e i suoi limiti): c’è forse del “naturalismo teologico”, come si accennava poc’anzi, ma il senso religioso è chiaro e netto, e potrebbero giovarsi non poco delle sue pagine – se le prendessero a modello – quei teologi superbi che pretendono di “salvare la Chiesa”.

Se il nostro tempo è tempo di crisi, osserva la Tamaro, questo non riguarda solo l’Italia e le sue istituzioni, ma anche (e molto più!) la Chiesa e le sue istituzioni; né la Chiesa si trova coinvolta in modo puramente passivo e accidentale perché, da grande attrice del ruolo pedagogico qual è, se una immane emergenza educativa è già in atto, lei ha le sue responsabilità. «Trovo che la Chiesa – scrive infatti la Tamaro – abbia una grande responsabilità nel non aver saputo parlare all’uomo contemporaneo, alla sua disperazione, nell’aver proposto, invece della ricchezza con la potenza eversiva del suo messaggio, il moralismo edificante dei buoni sentimenti» (17). Certo, la fede resta quella «straordinaria via di liberazione e di sapienza» (18) che è da sempre, e vivere da cristiani è «la più grande trasgressione» (questa riecheggia apertamente Chesterton); nondimeno bisogna registrare, per gli ultimi decennî, la latitanza della Chiesa dal fronte educativo (86).

Il perché non si dà, o meglio non se ne fornisce una risposta, ma l’intero penultimo capitolo si fa compito di formularsi come domanda: «Perché non c’è severità all’interno della Chiesa?» (162-164). Poche paginette colme di una carità pastorale che sarebbe edificante in un sacerdote: «La Chiesa continua a essere una struttura solo apparentemente accogliente, accoglie giustamente i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi, ma spesso, in questa bulimia di buone azioni, si dimentica delle inquietudini delle persone normali» (162). Nessuno può rispondere a domande come questa: «Perché non faccio che incontrare persone buone, rette, etiche, che si sono allontanate per sempre dalla Chiesa dopo esperienze deteriori con i suoi rappresentanti?» (163). E lo sfogo prosegue, misurato, facendo eco alle preoccupazioni di Benedetto XVI per la “nuova evangelizzazione”: «Se una nuova evangelizzazione ci deve essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutti gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili purtroppo – in molti, troppi casi – dell’allontanamento dalla fede di tante persone di valore» (164).

C’ha messo la faccia, la Tamaro, e la penna, e il cuore, rischiando di finire facilmente sotto fuoco incrociato. Non le resta di meglio, alla fine, che rivolgersi a Gesù Bambino con una lettera, chiedendo al Redentore doni preziosi per tutti, a cominciare da «quella cosa ormai così ridicola, sorpassata e oscurantista che si chiama senso del peccato» (166).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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