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Girone dei cristiani: Dante

Dante deve morire: ecco perché il Poeta risulta un rischio inammissibile per il Sistema

La sorpresa non è tanto che Dante venga dichiarato pericoloso, quanto che qualcuno alzi la voce in questo grido proprio nel momento storico in cui il suo testo è reso tanto “innocuo”: nessun nazista è mai stato un fine dantista. La sorpresa non è tanto che Dante venga messo alla berlina (c’è sempre stato, come ogni profeta che si rispetti, specialmente in Patria), quanto che la stessa sorte non venga riservata anche a Shakespeare (Il mercante di Venezia dovrebbe precedere di gran lunga la Commedia, sul podio dell’antisemitismo). La sorpresa, in fin dei conti, è che esiste un gruppetto di “ricercatori” che mostra candidamente di non aver inteso neanche un verso dei cento canti della Commedia, e che questo gruppo – Gerush92 – può fregiarsi del titolo di “consulente speciale del consiglio economico e sociale dell’ONU”.

È imbarazzante vedere che persone evidentemente digiune anche di poche pagine dei Saggi su Dante di Erich Auerbach possano declamare i loro vaneggiamenti ai quattro venti senza essere seppellite da una valanga di fango e risa: sfugge completamente, agli “esperti” di Gerush92, la portata delle figure che Dante inserisce nella Commedia – a cominciare da Beatrice e da Virgilio, passando per i personaggî mitologici ed epici (quali Minosse, Flegiàs, Ulisse e Diomede, Oreste e Pilade…) per finire ad ogni dannato e ad ogni salvato. L’errore su cui s’incardina il delirio di Gerush92 (si può non pensare, ogni volta che li si nomina, che “Geräusch”, in tedesco, significa “rumore”?) è che i versi che riguardano Giuda vengono letti tramite le lenti delle definizioni di “giuda-giudeo” e “antisemitismo-antigiudaismo” come le si rintraccia nei vocabolarî della lingua italiana contemporanea (citano il De Mauro). Un procedimento quanto mai fallace: sgangherato dal punto di vista metodologico (si vuole arbitrariamente risalire a una presunta causa a partire da conseguenze evidenti), ma soprattutto disonesto dal punto di vista intellettuale, perché il «Giuda Scariotto» di Dante (If XXXIV, 62) espia eternamente la sua colpa personale (come tutti i dannati), e non il presunto peccato di un popolo.

La preoccupazione per il popolo è quella espressa dal Caifa dei Vangeli, ed è molto significativo che anche il Caifa di Dante sia finito nel mirino squinternato di Gerush92: dovette credere, Dante, di aver mostrato con sufficiente evidenza, tramite le parole di Virgilio (If XXIII, 109-123), come Caifa ed Anna siano puniti con contrappasso peculiare, tra gli ipocriti, per le loro colpe personali, e non in quanto giudei. Si sbagliava: gli “esperti” di Gerush92 non l’hanno capito. Avrebbero perlomeno potuto notare che il Paradiso di Dante pullula di ebrei non meno del suo Inferno: non solo Pietro, Paolo e tutti gli Apostoli (giudei quanto Giuda), ma anche la sublime «donna [= Signora] del ciel» (Pg I, 91), «alta più che creatura» (Pd XXXIII, 2). Ancora di più, Dante certo non ignora che è giudeo in tutto e per tutto (visto che l’appartenenza al popolo era – ed è – stabilita per discendenza materna) il sovrano stesso del Paradiso, la cui umanità (la cui carne circoncisa!) è ineffabilmente ed eternamente inscritta nel secondo dei «tre giri / di tre colori e d’una contenenza» (ossia nella seconda Persona della Trinità divina): «Quella circulazion che sì concetta / pareva in te [luce etterna] come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta, // dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige: / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo» (Pd XXXIII, 116-117 ; 127-132).

«Ma queste sono favole teologiche – osserveranno forse, sprezzanti, gli ignoranti di Gerush92 – che nulla hanno a che fare con gli effetti storico-sociali del testo dantesco». Ecco, qui gli “esperti” si candiderebbero prepotentemente a indossare le cappe di piombo dorato che la fantasia dantesca riserva agli ipocriti: la teologia, infatti, è precisamente il cuore dell’opera di Dante, e non possono ignorarlo proprio loro, che hanno preteso pubblicamente divulgarsi l’antisemitismo «ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche». Mentre aspettiamo pazientemente che l’apertura progressiva degli Archivî segreti Vaticani renda giustizia all’operato prudente e profetico di Pio XII durante la seconda guerra mondiale (quando gli “Alleati” attendevano ancora che la luna fosse buona) potremmo ingannare l’attesa facendoci spiegare dai “ricercatori” di Gerush92 con quale faccia proclamano che Innocenzo III avrebbe dato «origine alla dottrina della transustazione [sic! Sapessero almeno scriverlo!] che ha come conseguenza il proliferare di infami libelli contro gli ebrei sulla profanazione dell’ostia che anche alcune famose opere d’arte testimoniano».

È verosimile che, se sapesse scrivere “transustanziazione” senza errori, l’incolta ciurma capitanata da Valentina Sereni saprebbe anche che Innocenzo III non ha affatto “dato origine” a quella dottrina (le cui radici affondano nella notte in cui nacque il Cristianesimo), e potrebbero allora perfino sospettare che la transustanziazione non c’entri un bel niente con l’antisemitismo.

Dal momento, però, che anche gli orologî rotti segnano l’ora giusta per ben due volte al giorno, bisogna riconoscere che una l’hanno imbroccata, gli “esperti ricercatori” (ma c’è anche Topo Gigio, all’ONU?): Dante non viene spiegato bene, nelle scuole. Solo che “spiegare bene Dante” non vuol dire censurarlo, ritagliarlo, addomesticarlo, bonificarlo, ed è verissimo che «non esiste valore estetico avulso dal significato ed entrambi, contenuto e forma, devono essere spiegati, compresi, interpretati, criticati»: l’unica via per “spiegare bene Dante” come ha magistralmente scritto Alessandro D’Avenia – è spiegarlo tutto, dal primo all’ultimo verso, con passione e con competenza. Non si tratta di prodursi in “apologie di Dante”: lo spirito fiero e sdegnoso del Poeta rigettò con sprezzo l’offerta di tornare a Firenze pagando una multa, e nient’altro che questo significherebbe aggiungere a testi che non parlano di antisemitismo delle ridicole note contro l’antisemitismo.

Per amor di completezza (e per non palesare troppo i proprî riferimenti politico-ideologici) gli “esperti” di Gerush92 hanno precisato che Dante è violento anche contro omosessuali e musulmani. Il discorso qui si farebbe troppo lungo, e in fondo interessa solo marginalmente il problema, ma bisogna perlomeno ricordare ai “ricercatori” che se cercano bene nella Commedia (ma anche se si degnano appena di sfogliarla), vi si troverà che le parole rivolte da Dante al sodomita Brunetto Latini sono tra le più delicate e toccanti dell’Inferno (insieme con quelle rivolte a Francesca): ancorché dannato, e dannato per violenza contro la natura, all’Autore del Tesoretto Dante si rivolge confessando che «‘n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora // m’insegnavate come l’uom s’etterna» (If XV, 82-85). Quanto ai musulmani, se i cervelloni della Sereni non sanno capire che l’eresiologia medievale valutava l’Islam (non del tutto a torto) un’eresia cristiana – e quindi perché il contrappasso di Maometto, all’Inferno, ne divida il corpo in due –, vadano perlomeno a prendere una boccata d’aria in quel parco di Teheran dove sorge un monumento a Dante.

L’ambiguità dei monumenti, del resto, l’aveva già denunciata il genio divino del Figlio di Dio, che stigmatizzava l’ipocrisia di quanti si associavano agli uccisori dei profeti proprio costruendo e abbellendo le tombe monumentali dei profeti (Mt 23,29-36): i profeti vengono uccisi dal momento che dicono la verità, ma dal momento che dicono la Verità sono irriducibili alla morte. Invano si cerca di neutralizzare con “un monumento perbene” l’urlo che è, senza soluzione di continuità, la loro vita e la loro stessa morte: non sarà un apparato critico ideologicamente deviato a tenere Dante in un sepolcro.

E qual è, allora, quest’urlo profetico di Dante? Perché sotto la slabbrata mannaia di Gerush92 dovrebbe cadere il Poeta prima di Shakespeare? Perché c’è una cosa che – sebbene sia presente e fondamentale in entrambi – in Dante è sfacciatamente evidente: la fede. Una fede teologale che ha innervato tutte le virtù cardinali costruendo un apparato razionale fiero e possente. Dante è spudoratamente cristiano, oscenamente cattolico, turgidamente romano, e a nulla valgono contro ciò le aspre avversioni a uno o più papi: la persona di Dante è tutta orientata a «quella Roma onde Cristo è romano» (Pg XXXII, 102), e in lui davvero «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, Incipit).

Ecco, “spiegare bene Dante” presuppone anzitutto l’essersi confrontati onestamente con un uomo che ha mostrato in modo eminente come solo in un’armoniosa sinergia di fede e ragione la fede sia veramente fede e la ragione veramente ragione. La Divina Commedia non è la Bibbia, e Dante non è infallibile, ma qui si sfondano porte aperte, perché nessuno ha mai preteso il contrario: nel dispiegare però le sue poderose ali, il Poeta affronta il Mistero della misericordia e della giustizia, che s’intreccia a quello di Grazia e libertà. Un fondamentalista, Dante? E come potrebbe un ottuso ripetitore di un qualsivoglia pensiero unico (uno tipo gli “esperti” del Gerush92, per intenderci) chiamare contemporaneamente Aristotele «‘l maestro di color che sanno» (If IV, 131) e lasciarlo nel limbo? Come potrebbe collocare Tommaso d’Aquino, “battezzatore” di Aristotele, nel Cielo del Sole e lasciargli tessere le lodi dei grandi sapienti di ogni tempo? Come potrebbe tra questi spiccare l’antichissimo re Salomone – ebreo! – al punto che il san Tommaso di Dante dice che la sua luce «è tra noi più bella, / spira di tale amor, che tutto ‘l mondo / là giù ne gola di saper novella: // entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ‘l vero è vero, a veder tanto non surse secondo» (Pd X, 109-114)? E perché con Tommaso (e da Tommaso!), l’Aristotele cristiano, viene esaltato Sigieri di Brabante, la cui fama d’eresia (mutuata da Averroè – un musulmano!) viene dissipata da Dante mediante l’ortodossia adamantina di Tommaso (Pd X, 133-138)?

Ecco che Dante costituisce nella sua Commedia – capillarmente innervata dell’unico filo doppio di fede e di ragione – il manifesto della cultura enciclopedica, irreplicabile e perenne antidoto contro ogni relativismo. «Apprendi tutto – ammonisce Ugo di San Vittore – vedrai che nulla è superfluo: una conoscenza limitata non dà gioia». Questa è la cifra dell’enciclopedismo medievale, e la gioia è quanto lo distingue essenzialmente dal suo triste epigono illuministico: proprio perché l’enciclopedismo illuministico non mira alla gioia e non la sa produrre, il suo frutto ultimo è stato un’indiscreta massa di nozioni – la discarica del sapere! – destinata a naufragare alternatamente nei totalitarismi e/o nel pensiero debole.

In siffatta temperie ogni traccia di un pensiero dotato di spina dorsale viene invidiato e rigettato, con la disperata spossatezza del naufrago che disdegna il relitto per non allungare la propria agonia. Vi sono invece segni ben precisi che dovrebbero far riflettere. Per esempio, l’idea del medioevo comunemente divulgata a partire dal Settecento (e combattuta fin quasi da subito) è quella che ancora parla nei testi approntati da Luc Plamondon e Pasquale Panella per l’“opera popolare” di Riccardo Cocciante Notre Dame de Paris – che a quattordici anni dall’esordio qualcuno ha ritenuto di dover nuovamente propinare al pubblico. In uno dei brani musicalmente più suggestivi Frollo chiede a Gringoire: «Parlami di Firenze / e della Rinascenza: / novità di Bramante / e di stilnovo e Dante». A parte che Panella e Plamondon dimenticano che a nessun titolo Dante è un uomo del Rinascimento, è la risposta di Gringoire che lascia a bocca aperta: «Si racconta a Firenze / che la Terra è rotonda […]». Se Frollo fosse stato un uomo veramente colto avrebbe rapidamente zittito il cantastorie, mostrandogli i passi in cui Dante descrive mirabilmente la curva terrestre modellata su quella celeste (per esempio If XXVI, 106-142), e sarebbe risalito a mostrargli, tramite la Summa Theologiæ e poi via via su fino ad Aristotele e Talete, che tutti hanno sempre saputo che la terra non è piatta.

Se Plamondon e Panella avessero studiato Le système du monde di Pierre Duhem, saprebbero bene queste cose: visto che non l’hanno fatto (come quasi tutti) procedono oltre, e sotto i tormenti delle loro penne i due personaggî farneticano all’unisono: «L’aria nuova farà / nuovo chi la vivrà / […] / Il libro ucciderà altari e cattedrali. / La stampa imprimerà la morte sulla pietra / la Bibbia sulla Chiesa e l’uomo sopra Dio». Non c’è che dire: un trikolon a effetto, nell’ultimo distico. Sta di fatto, però, che la Bibbia è un libro, e che non risulta che, in quanto tale, abbia ucciso «altari e cattedrali» (figurarsi poi se, in quanto Bibbia, possa aver ucciso la Chiesa, che l’ha scritta, la conserva e la interpreta!). Quanto all’uomo e a Dio, infine, lì è vero che un assassinio c’è stato – ma quell’assassinio è stato un omicidio, perché è Dio (l’unico Dio che esiste, il Dio del lògos!) a ispirare e sostenere e la Chiesa e i libri e altari e cattedrali: quando l’uomo smette di praticare questi luoghi teo-logici si condanna (senza un motivo) all’esilio dell’esistenza e, non potendo realmente uccidere Dio, uccide la Sua immagine, che egli stesso è.

Non un complicato sillogismo, ma la “previsione postuma” delle tragedie che hanno seppellito la modernità nei suoi detriti – il postmoderno. Il medioevo di Ugo, di Tommaso e di Dante, è l’epoca (complessa e per molti aspetti contraddittoria) che ci ha salvaguardato i pagani Omero, Erodoto, Tucidide, Senofonte e Virgilio; è l’epoca che ha conservato per sé e per noi il materialista Lucrezio, il licenzioso Ovidio, il pornografico Petronio… Quella è stata l’epoca in cui si poteva raccogliere tutto (perché religione significa rilegare) senza ridursi a dire che tutte le cose sono uguali; l’epoca in cui s’imparava a investigare, interrogare e amare insieme la giustizia e la misericordia del Mistero.

È innegabile che la tentazione assolutistica abbia sempre insidiato la cristianità, anche nel medioevo: se tuttavia leggiamo il Satyricon, le odi di Saffo e Alceo, se perfino molti scritti di eretici sono sopravvissuti ai secoli, evidentemente la “soluzione finale” del rogo non è mai stata elevata a sistema, da uomini di fede (ossia di ragione). Spesso, invece, «l’aria nuova» – “novus” vuol dire anche “strano” – ha gonfiato le fiamme di fuochi disumani, in cui i libri vennero gettati come fossero stati persone, e le persone come fossero state libri. A Berlino, nel 1933, si ripresero le “antiche” mode francesi della Terreur e, per anticipare le mode del Novecento, si aspettò che fosse un maggio. Era «l’aria nuova», che rendeva “novus” chi la respirava. Questo stesso è il vicolo cieco suggerito dagli “esperti” di Gerush92.

Dante è infinitamente più moderno di questi patetici personaggî perché è un vero classico (forse il più grande in assoluto), ossia perché ha saputo cantare con voce universale (vale a dire cattolica) il dramma di fondo con cui ogni uomo onesto si trova a fare i conti: voler essere felici e non riuscire ad esserlo da sé. Questa è la selva oscura che da sette secoli Dante canta per tutti noi, portando nei libri delle scuole (che tesoro immenso!) scintille della «somma luce» (Pd XXXIII, 67-72). La verità è che nessuno nasce solo e che nessuno vive solo; la Verità è pure che nessuno è costretto a morire solo, se si decide, non da solo ma da sé, ad accogliere il Dono gratuito della Vita di Dio, che è postulato della ragione umana. Per questo Dante è pericoloso: perché richiama l’uomo a se stesso, e quindi a Dio, che (solo) può e vuole renderlo libero. Hanno ben ragione di temerlo, quindi, quanti più o meno direttamente sperano di trarre profitto dalle dipendenze degli uomini – sarebbe un dramma, se le cavie di un laboratorio cominciassero a ragionare e a rivendicare diritti.

Ecco come mai Virgilio presenta Dante a Catone spiegando che «libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta» (Pg I, 71-72). È la prima libertà, quella che cerca Dante – la libertà che di solito ci manca quando ci diamo completamente a rivendicarne altre – quella dell’arbitrio. Ecco perché Dante deve continuare ad essere letto – e dev’essere letto bene – nelle scuole, nelle case, nelle chiese e perfino nelle piazze: tutta la Commedia è immensa parabola di quanto sia aspra e gloriosa insieme la via per la quale si lascia la selva oscura (If I, 2) e ci si dirige al monte senza che le tre bestie (If I, 31-51) ne possano impedire. È la via del Vangelo, ed è la via dell’uomo che diventa ciò che è e che deve essere; è la via della gioia, in fondo alla quale il piacere e il bene non possono più trovarsi in contrasto. Lì ci si sente dire dagli amici che ci accompagnano: «Libero, dritto e sano è il tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Pg XXVII, 140-142).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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