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I desideri non sono diritti

La Corte di Cassazione ha riconosciuto alle coppie omosessuali il “diritto alla vita familiare”.

La sentenza n. 4184/2012 della I Sez. Civ. della Cassazione – depositata lo scorso 16 marzo – stabilisce che, in Italia, debba essere riconosciuto ai «componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto» «il diritto alla vita familiare» e ad «un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata», in conformità con quanto già stabilito dalla Corte di Strasburgo – con sentenza del 24 giugno 2010. Infatti, aggiunge la Cassazione, in base all’art.12 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, bisogna considerare «radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della stessa esistenza del matrimonio».

Oggetto della nostra riflessione non vuole essere la questione dell’omosessualità in sé – nelle sue dinamiche private, psicologiche, o esistenziali – quanto valutare quali conseguenze avrà sul diritto di famiglia, e ancor più sullo statuto stesso della famiglia, la possibilità di riconoscere il diritto alla «vita familiare» per le coppie omosessuali.

– Omogeneità degli ordinamenti giuridici dell’Unione Europea. Dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione si evince quanto abbia influito, sul pronunciamento della stessa, sia l’applicazione di una precedente sentenza della Corte di Strasburgo, sia l’art.12 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. L’Europa, insomma, sembra chiedere all’Italia non solo “lacrime e sangue” in materia economica, ma anche di mutare radicalmente l’«esprit des lois» del proprio diritto di famiglia: passare da un diritto che disciplina la famiglia ad un diritto che “costruisce” la famiglia, che forma cosa sia, o non sia, “famiglia”. Quest’ultimo, formalmente, è un compito del diritto positivo? A questo riguardo, l’art. 29 della nostra Costituzione, stabilisce chiaramente che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio»: 1) Con il verbo “riconoscere” si afferma che il diritto positivo riconosce la famiglia come qualcosa che gli pre-esiste e, per questo, si limita a disciplinarla secondo le linee poste dalla natura: prima viene la famiglia, poi il diritto di famiglia; 2) La famiglia è una “società naturale”, sia nel senso di unione tra uomo e donna come previsto dalla natura, sia nel senso di attenere all’ambito del diritto naturale che, in quanto tale, non può essere contraddetto dal diritto positivo.

Per quanto fin ora espresso, sembrerebbe che la Cassazione – con la sentenza in oggetto – abbia arbitrariamente giudicato “superato” l’art. 29 della Costituzione, e non “riconosca” più che ci siano delle dimensioni della realtà pre-esistenti al diritto positivo e agli ordinamenti giuridici. È la famiglia che muta o è il diritto positivo che è arrivato a trasformare, arbitrariamente, il diritto naturale in “naturalistico”? Un diritto positivo – che ritiene superato e superabile il diritto di natura –  ci sembra essere, in sintesi, un diritto che arbitrariamente ammetta solo l’esistenza di una natura naturata, immanente e contingente, disconoscendo l’esistenza di una natura naturans, trascendente ed eterna, che sia forma e fondamento di quella naturata: «Nella Natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina Natura ad esistere e a operare in un certo modo». (B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, UTET, Torino, 1988, Parte prima, Prop. XXIX).

La necessità di rendere omogenei gli ordinamenti giuridici dei Paesi membri dell’UE esige, forse, di sopprimere il diritto naturale? L’omogeneità dovrebbe essere raggiunta accordando i vari ordinamenti giuridici tra di loro, o accordando – questi – con il diritto naturale, garante del diritto positivo perchè ad esso pre-esistente?

– La privatizzazione dei legami famigliari. Sempre facendo riferimento all’art. 29 della nostra Costituzione, si legge che la famiglia è tale in quanto “fondata sul matrimonio”, cioè su una disciplina giuridica che ne sancisce la rilevanza pubblica e sociale: la famiglia non è una costruzione privata della coppia, la famiglia fonda la società, ovvero è il luogo primario di relazione tra coloro che generano e coloro che sono generati, cioè tra i consociati.

La sentenza della Corte di Cassazione, in linea con quelle europee, dichiara, invece, «radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della stessa esistenza del matrimonio». La sentenza sembra sancire, a livello giuridico, ciò che il filosofo Marcel Gauchet chiama la «de-istituzionalizzazione della famiglia» (M. Gauchet, Il figlio del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 58): «La prodigiosa novità della nostra situazione sta nel fatto che la famiglia non detta più legge a nessun livello. Non le si chiede più di produrre il legame sociale; l’imperativo della riproduzione non è più un imperativo sociale. La «de-istituzionalizzazione della famiglia» si realizza in due direzioni: la famiglia non è più il luogo di socializzazione dei soggetti e non è più interpretata a partire dalla sua funzione generativa a servizio della società. La famiglia è diventata la realizzazione della coppia in quanto coppia, è la formalizzazione di un legame privato, fine a se stesso; anche la scelta di fare un figlio si colloca tutta nell’ambito del privato: il compito genitoriale non ha più una ragione sociale, non è più vista a vantaggio della comunità sociale».

Chi si sposa più, infatti, pensando di creare, attraverso un atto pubblico, un legame e un vincolo sociale, e, solo in virtù di questo, di poter maturare il diritto di ricevere dalla società una serie di garanzie e di sussidi, in un rapporto di reciproco scambio? Chi genera un figlio, ormai, per mettere al mondo un uomo, per donare un individuo alla società?

Se la famiglia è «de-istituzionalizzata» nella sua dimensione privata, e il compito genitoriale non ha più una ragione sociale, qual è l’unica motivazione che può condurre una coppia a sposarsi e a generare? Non potrà essere che il solo desiderio della coppia di realizzare se stessa: i figli di questa epoca – scrive Gauchet – sono «i figli del desiderio» e, per estensione, diciamo che anche le famiglie di questa epoca sono “le famiglie del desiderio”.

Un desiderio autoreferenziale, abbandonato a se stesso, e che si nutre di sè, è destinato, però, ad una pericolosa ipertrofia: il desiderio si trasforma in bisogno. Si desidera la famiglia, e si desidera eventualmente avere un figlio, per l’esclusiva realizzazione di sé; ugualmente, non formare una famiglia, o non generare un figlio, si percepisce come frustrazione di sé, come un fallimento personale e sociale. Di qui, il desiderio si trasforma in un bisogno, e il bisogno in un diritto. Su questa percezione si fonda l’affermazione del «diritto alla famiglia» e di un «diritto al figlio», e non si ammettono più limitazioni, non si riconoscono più limiti naturali. «La differenza di sesso dei nubendi», l’impossibilità naturale di avere figli tra persone dello stesso sesso, non è percepita più come un limite naturale, ma come un ostacolo da rimuovere con il diritto, con la tecnica e con la scienza, in nome del “diritto” all’omogenitorialità.

Il desiderio della continua affermazione di sé moltiplica bisogni, che reclamano diritti, e che spostano i limiti. Ma il limite non viene mai eliminato, si sposta solo, generando altri desideri che determinano nuovi bisogni, che reclamano ancora diritti, in un processo infinito che vanifica il fine stesso del desiderio autarchico: affermare se stessi in maniera soddisfacente.

Se la famiglia e un figlio diventano la realizzazione di un io-famelico, la società si autocondanna alla solitudine di individui che ricercano la realizzazione di sé attraverso l’Altro. Quando la famiglia si “fa”, quando un figlio si “fa”, la famiglia non è per l’Altro, il figlio non è un Altro: perché l’Altro sia Altro, non potrà mai essere frutto del nostro fare, del produrre.

La famiglia dovrebbe restare il luogo per venire al mondo, per accogliere l’Altro, e lasciarlo andare nel mondo come altro da sé. La famiglia realizza i desideri dell’Altro, non fa dell’Altro la realizzazione dei propri desideri; nella famiglia ci si sacrifica per la realizzazione dell’Altro, non si usa l’Altro per la realizzazione di sé: «L’arte ci consegna un’immagine altissima di questa autentica genitorialità nella Pietà di romana di Michelangelo Buonarroti. Nel dolore di una madre che abbraccia il corpo defunto di suo figlio si realizza una maternità inedita. A quel figlio Ella è stata sempre vicina e distante allo stesso tempo, lasciandolo essere ciò che non poteva immaginare o prevedere per lui. […] Nel suo stare, tenace e poderoso, sotto la croce – rappresentato dal corpo gigantesco e stabile, mascolino nella muscolatura e nelle dimensioni – la Madre torna a offrire dal proprio grembo, a partorire al mondo il suo figlio. La Vita è così ridonata al mondo. In questa figura suprema della Pasqua, in cui morte e vita coesistono nella fede della Vergine Maria, risplendono le vicende di tante donne e tanti uomini, che con il loro permanere e con la loro premura consentono ancora oggi ad un uomo di venire al mondo». (Stefano Cucchetti, Ho acquistato un uomo grazie al Signore, La Scuola Cattolica-Periodico Trimestrale, Anno CXL – Gennaio-Marzo 2012, pp. 145-146)

«La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio», un luogo che attende la vita per consegnarla al mondo: non lasciamola diventare una coppia, che reclama diritti dalla società, per soddisfare desideri privati.

 

 

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