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Amare da morire

Chiara Corbella: storia di ordinaria santità tra entusiasmi e polemiche

«Giovane madre muore per far nascere il figlio». Questa la notizia che da alcuni giorni, spinta soprattutto dal vento del web, circola tra le testate giornalistiche (e non solo quelle nazionali) e i blog, innescando inevitabili dibattiti e infiammate polemiche. “Inevitabili” e “infiammate” perché la storia di questa giovane madre, pronta a mettere a rischio la propria vita per farne nascere un’altra, si intreccia con le annose questioni legate all’aborto, all’eutanasia, al senso della vita e al diritto prepotentemente rivendicato a metterle fine in “legittime” (ma da quale punto di vista?) circostanze. È una storia che proprio per la sua autentica e chiara semplicità interroga, provoca, infastidisce.

Chiara Corbella è una giovane di neppure trent’anni, sposata con Enrico Petrillo. Entrambi molto religiosi, ragazzi della “generazione Wojtyla” che si muovono tra Gmg e pellegrinaggi, scoprono senza sconti né proroghe l’ineluttabilità della croce. La loro prima bambina è affetta da anencefalia; il secondo non ha gli arti inferiori. Eppure entrambe le gravidanze vengono portate a termine, con coraggio e amore pieno: i bambini non vivranno più di trenta minuti, ma quel poco tempo è sufficiente a creare con loro un legame eterno, a sperimentare l’indimenticabile gioia di una nuova vita (seppure così breve e fragile) da offrire al Signore. Il battesimo, immediatamente impartito, sembra segnare l’atto di fede, speranza e carità di due genitori che gratuitamente hanno ricevuto (Mt 10,8) e gratuitamente rendono a Dio il dono più grande, la vita. A distanza di qualche tempo, Chiara rimane di nuovo incinta, di un bimbo stavolta perfettamente sano. Ma non è questo il lieto fine che forse alcuni lettori aspettavano. Al quinto mese di gestazione, alla madre è diagnosticato un carcinoma alla lingua, in forma grave e avanzata. Per la terza volta Chiara avrebbe potuto interrompere la gravidanza, per sottoporsi alle cure che forse l’avrebbero salvata. Ma ancora una volta vale rischiare pur di salvare il nascituro: Francesco viene alla luce prematuro ma sano, e solo allora iniziano le cure per la mamma. Cure tardive e ormai inutili. Chiara si spegne il 13 giugno 2012: il drago (così chiamava la sua malattia) ha vinto.

Impossibile restare indifferenti di fronte a una storia simile. Una scelta così convinta e radicale interpella le coscienze e costringe quanto meno a confrontarsi con il dramma della vita e della morte. Il problema di fondo in questo confronto è il punto di vista: guardare i fatti con gli occhi del mondo o con quelli di Dio? O forse le due lenti non sono così distanti, così diametralmente opposte (come qualcuno vorrebbe farci credere). Per farci un’idea del movimento di coscienze provocato dalla diffusione di questa vicenda, basta leggere i commenti lasciati dai lettori su vari blog e giornali online.

Una delle sensazioni più frequentemente espresse è la tristezza di fronte a una morte tragica, dolorosa, un enorme carico di sofferenza, un Calvario che non termina con la morte di Chiara, ma si dilata in “ciò che resta”: un giovane marito solo e un bambino che per tutta la vita soffrirà la mancanza della sua mamma. La tristezza si trasforma talora in rabbia nelle parole di chi, alzando al cielo occhi e mani impotenti, chiede come sia possibile che la sorte possa accanirsi tanto contro due giovani e bravi ragazzi, che malformazioni tanto crudeli possano affliggere i “figli di Dio” creati «a Sua immagine e somiglianza», che ancora possano accadere morti umanamente inaccettabili. Senza contare il senso di sconforto di chi confessa che non sarebbe capace di affrontare simili situazioni, né avrebbe il coraggio di mettere a rischio la vita di una madre per quella di un figlio non ancora nato, e si chiede se in fin dei conti non sarebbe altrettanto legittimo ed eroico ricorrere in casi del genere all’aborto terapeutico. Perché in fondo la questione è proprio questa: perché Chiara ed Enrico non hanno fatto ricorso alla medicina per evitare tanta sofferenza?

Tra le molte voci che si sono levate a commento di questa storia, una merita in modo speciale la nostra attenzione. È la voce di un giovane giornalista e blogger che dalle pagine de «L’Espresso» offre la sua personale lettura dei fatti: lettura ideologicamente deformata, strumentale, politicamente orientata contro la Chiesa, la fede, la religione cristiana, che ha prodotto nel web pochi condivisori e molto sdegno. Questo il nucleo della sua polemica: «Io credo che la loro sia una storia violenta (almeno nella formula con cui viene raccontata), nella cui evoluzione poco c’entra la libertà e invece molto c’entrano l’integralismo religioso e i suoi prodotti, primo fra tutti il maschilismo, la subalternità della donna, del suo corpo, a quella dell’uomo e del nascituro, del “dono divino”». È facile leggere tra le righe di queste affermazioni l’ormai abituale polemica contro la battaglia per la vita condotta dalla Chiesa cattolica. Sotto le sembianze di una legittima ed eroica difesa della dignità della donna, e del diritto del bambino alla salute, è mascherata la pretesa adamitica di sapere autonomamente cosa è bene e cosa è male (Gn 3,4-5), cosa è giusto e cosa ingiusto; dietro legittime e “umane” motivazioni è abilmente celata la rivendicazione a decidere quando e come dare o togliere la vita a un feto imperfetto e malato, non perché non meriti di vivere (chi oserebbe affermare una cosa simile?), ma per preservarlo da una vita troppo difficile e piena di sofferenze. È il tentativo perverso di mascherare il proprio egoismo dietro un falso altruismo.

Con questo non affermiamo che saremmo anche noi in grado di fare la stessa scelta coraggiosa ed altruista di Chiara ed Enrico; né tantomeno ci ergiamo a giudici severi e intransigenti di chi sceglie l’opzione (di certo altrettanto dolorosa, anche se forse meno coraggiosa) dell’aborto. Ma neghiamo che dietro tale scelta possano esservi la violenza, l’integralismo religioso, il maschilismo e la subalternità della donna. Nulla di tutto questo è mai emerso dalle parole di Chiara ed Enrico. Piuttosto sentimenti di vero amore verso le nuove creature concepite nel giovane grembo materno, di reale e totale affidamento nelle mani del Signore, anche attraverso l’imitazione di Maria, a proposito della quale Chiara afferma: «A quel punto ho pensato alla Madonna. […] Anche a lei il Signore aveva donato un figlio che non era per lei, che sarebbe morto e lei avrebbe dovuto vedere morire sotto la croce. Questa cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che forse non potevo pretendere di capire tutto e subito, e forse il Signore aveva un progetto che io non riuscivo a comprendere». Chi si chiede dove Chiara prendesse la forza di andare avanti trova proprio qui la risposta: nella fede, nella speranza, nella fiducia incondizionata in Dio, nella croce stessa, che se è respinta schiaccia, ma se è accolta con amore sostiene. Enrico racconta di aver chiesto alla moglie, pochi istanti prima che morisse: «“Chiara, amore mio, ma questa croce è veramente dolce, come dice il Signore?”. Lei mi ha guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto dolce”».

Di fronte a un simile e potente esempio di fede e devozione, sorge naturale in chi crede la constatazione che Chiara ed Enrico non hanno condotto la loro battaglia da soli, contando sulle sole forze umane, ma sono stati sempre sostenuti dalla potenza di Dio, che sola può produrre la pace nel cuore e la serenità profonda con cui essi hanno affrontato ogni ostacolo. Altrettanto giustificabile è quel sentimento di “invidia” che sorge invece in quanti non credono: di fronte alle difficoltà essi si sentono soli, abbandonati, senza speranza, infelici, e finiscono col convincersi che «chi ha Dio nel cuore, non fa fatica a compiere certi atti, e povero chi invece deve sbrigarsela senza alcun sostegno ultraterreno». È proprio vero! Le grandi storie di vocazione (a partire da quelle bibliche) dimostrano che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37) e nulla è impossibile a colui che a Dio si affida. Proprio per questo il nome di Dio (Io sono) si arricchisce in queste storie di un complemento decisivo, segno ed espressione di tutto il suo amore: «Io sono con te». Chiara ed Enrico hanno vissuto questa esperienza di comunione con il Signore: è questa la radice della loro vittoria.

Ma forse qualcuno potrebbe accusarci di idealizzare troppo questa storia, di renderla troppo eclatante. D’altra parte chissà quante altre mamme nel mondo hanno compiuto gesti eroici pari a questo, pur senza fondare la propria scelta su un sostegno divino! Smettiamo allora per un momento di filtrare i fatti attraverso la lente del Vangelo e guardiamoli in un’ottica più meramente “umana”. La vicenda di Chiara ed Enrico ha suscitato grande ammirazione e ha mostrato la necessità di ridimensionare la gravità e il fastidio delle piccole o grandi fatiche quotidiane: effetto psicologico che di per sé non ha nulla di prettamente cristiano, né di ideologicamente deformato. Come pure non v’è nulla di questo nel totale ed assoluto rispetto verso la vita altrui che i due giovani hanno dimostrato e praticato. Quale valore avesse la vita in sé per questa giovane coppia lo dimostra la reazione (stupita e quasi infastidita) di Chiara di fronte alla prospettiva dell’aborto terapeutico proposta da un medico: «È stato un colpo basso, perché io avevo appena visto Maria muoversi … Era palese che lei era viva, lei era lì, e stava facendo di tutto per crescere» (guarda il video). Questo sentimento materno prescinde dalle inclinazioni religiose, dagli indirizzi ideologici, dai pregiudizi politici: è solo amore, che chiunque, mettendo da parte il proprio egoismo ed egocentrismo, può sperimentare e difendere. Dov’è allora la violenza, dove l’integralismo religioso e le altre colpe che alcuni vorrebbero additare in questa storia? Cristiani o non cristiani, tutti intuiscono la grandezza e la nobiltà di un gesto d’amore pieno.

Certo, nel nostro caso, trattandosi di una coppia straordinariamente religiosa, non possiamo mettere da parte il ruolo rivestito da Dio, dal Vangelo, dalla fede, nella vita (e nella morte) di Chiara. È lampante che la radice del suo amore è divina. Ma non perché si basa sui «precetti della religione cattolica, tutti fondati su una grande bugia, quella del paradiso e della vita dopo la morte» (parole di Sappino), bensì perché è riflesso e conseguenza di un amore prima ricevuto. «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Chi crede ama in virtù dell’amore che ha ricevuto, di cui l’espressione più alta e perfetta è il dono della vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la matrice della scelta di Chiara: ha dato la vita per il proprio bambino. Anche chi non crede, oserebbe mai affermare che questo gesto sia da biasimare, sia frutto di cattivi sentimenti, sia effetto di costrizioni arbitrariamente imposte da una falsa e ingannevole ideologia?

Molti sul web già pregano per Chiara, invocano la sua intercessione, la chiamano “santa” e “martire” dei nostri giorni («una seconda Gianna Beretta Molla» ha affermato il cardinale vicario Agostino Vallini, intervenuto al suo funerale) e c’è chi ha già proposto di cominciare a raccogliere testimonianze su di lei per aprire appena possibile una causa di beatificazione presso la Congregazione delle Cause dei Santi. Provocato in merito a questa possibilità, Enrico ha risposto: «Abbiamo vissuto tutta questa storia con una grande gioia nel cuore, e questo mi faceva intuire delle cose grandi. Però oggi sono meravigliato, perché mi sembrano molto più grandi di quello che io potessi pensare». Noi sappiamo che i processi di canonizzazione possono riuscire molto lunghi e complessi, o possono non riuscire affatto. In fin dei conti, poi, il risultato a cui si approda è “solo” l’inserimento di un nuovo nome nel calendario e l’elevazione di un nuovo modello di santità agli onori degli altari. Noi sappiamo che Chiara è stata felice in terra ed è ora già beata in cielo, e questo è l’importante.

 

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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1 Comment on Amare da morire

  1. Condivido la conclusione e poco altro si può aggiungere. Sono importanti esempi!

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  1. Santa Maria Goretti

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