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Seneca e lo stabilimento balneare

Riflessione semiseria per un’estate serena ed educata.

– Oh, vita dispettosa: quando troviamo le risposte cambi domande, se raggiungiamo una certezza subito la scarabocchi in un’inesattezza!

Perché, Seneca, ha dedicato parte cospicua della propria opera alla riflessione sul tempo, sull’otium, e su come raggiungere la tranquillità dell’animo? Lo so, caro lettore, che – anche tu, come me – sei sempre stato attanagliato da questa domanda! Quante volte ci siamo girati e rigirati nel sonno, interrogandoci su Seneca, per rispondere – nei giorni in cui tutto sembra andare bene: – Seneca fu un sapiente indagatore dell’animo umano, uno straordinario uomo di cultura, ce ne fossero ancora! In alternativa, nei giorni in cui tutto va storto: – Seneca era un filosofo, non aveva altro cui pensare, e quelli erano altri tempi!

Bene, caro lettore, senza voler infliggere un colpo mortale alle nostre sudate certezze né squarciare il velo delle più radicate verità della critica letteraria, sento di dover condividere una mia prosaica ‘scoperta’ su Seneca fatta leggendo le Epistulæ Morales ad Lucilium: «Che io possa morire se, quando uno se ne sta appartato a studiare, il silenzio è necessario come si pensa. Ecco, intorno a me risuonano da ogni parte schiamazzi di tutti i tipi: abito proprio sopra uno stabilimento balneare [supra ipsum balneum habito]. Immagina ora ogni genere di baccano odioso agli orecchi: quando i più forti si allenano e fanno sollevamento pesi, quando faticano o fingono di faticare, odo gemiti, e, tutte le volte che trattengono il fiato ed espirano, sibili e ansiti; quando càpita qualcuno pigro che si contenta di un normale massaggio, sento lo scroscio delle mani che percuotono le spalle e che dànno un suono diverso se battono piatte o ricurve. Se poi arrivano quelli che giocano a palla e cominciano a contare i colpi, è fatta. Mettici ancora l’attaccabrighe, il ladro colto in flagrante, quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno, e poi le persone che si tuffano in piscina e smuovendo l’acqua fanno un fracasso indiavolato. Oltre a tutti questi che, se non altro, hanno voci normali, pensa al depilatore che spesso sfodera una vocetta sottile e stridula per farsi notare e tace solo quando depila le ascelle e costringe un altro a gridare al suo posto. Poi ci sono i vari richiami del venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli esercenti delle taverne che vendono la loro merce con una particolare modulazione della voce». (L.A. Seneca, Lettere Morali a Lucilio, Libro VI, LVI, [I]; testo in lingua latina).

Capito? Questa è la prosaica ‘scoperta’ – nero su bianco – destinata a scuotere le nostre sudate risposte! Perché, Seneca, ha tanto riflettuto, e scritto, sull’otium, e su come raggiungere la tranquillità dell’animo? Ora sappiamo che il nostro Autore, appassionato studioso, abitava proprio sopra uno stabilimento balneare, e, immerso nel frastuono più molesto, aveva solo due possibilità per continuare a dedicarsi serenamente all’otium: o cambiava casa o ricercava  «quæ possint tranquillitatem tueri, quæ restituere, quæ subrepentibus vitiis resistant», ossia quali cose possano difendere la tranquillità, quali restituirla e quali rimedi esistano contro i vizi che si annidano in noi. Essendo un intellettuale scelse la seconda possibilità, naturalmente, quella più complicata e meno pratica.

Per Seneca – come scrive nella citata Lettera a Lucilio – abitare sopra uno stabilimento balneare fu una palestra per «fare un’esperienza ed esercitarmi» a raggiungere, in qualsiasi circostanza esterna, la serenità e la tranquillità dell’animo: «Sappi, dunque, che tu avrai veramente formato la tua persona quando sarai giunto a questo, che nessun clamore più ti toccherà, nessuna voce, sia di lusinga sia di minaccia, sia di vano strepito, possa strapparti a te stesso. […] riesco in questo perché so costringere l’animo a stare raccolto in se stesso, e a non lasciarmi distrarre dalle cose esterne. […] Non importa che tutto strepiti di fuori, purchè non vi sia strepitio dentro […]. Come può dare gioia il silenzio fuori di noi, se fremono all’interno le passioni?». (Ivi, Libro VI, LVI, [III]).

Nel De Tranquillitate animi Seneca definisce, così, la vera tranquillità: «[…] questa è la stabilità dell’animo, i Greci la chiamano “euthymia”, io la chiamo tranquillità. […] Dunque noi ci chiediamo in che modo gli stati d’animo possano seguire un andamento sempre regolare e favorevole, e l’animo sia propizio a se stesso e guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai esaltarsi o deprimesi: questo costituirà la tranquillità». (L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo, [2]; testo in lingua latina).

Per Seneca – in linea con la migliore Scuola Stoica – la vera tranquillità si raggiunge solo attraverso l’equilibrio costante di tutte le passioni, armonicamente composte nell’animo. Così, tornando alla quæstio ‘stabilimento balneare’, il silenzio non rende sereni più del frastuono perché la solitudine non è da preferire alla compagnia: «Tuttavia queste condizioni vanno mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella genera in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l’una sarà di rimedio all’altra; la solitudine guarirà l’insofferenza della folla, la folla la noia della solitudine. Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stessa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. […] Occorre concedere una pausa agli animi: riposati rinasceranno migliori e più combattivi.» (Ivi, [17]).

Sorvolando su quanto Seneca sia stato capace di adattare questi insegnamenti alla propria vita, e riponendo fiducia in Dante che lo ‘riabilita’ come «Seneca morale» (Dante, Inferno, Canto IV, v.141), tutti concorderemo – credo – sulla saggezza delle parole espresse dal nostro Autore. Detto questo, però, a me di ‘stoicismo’, nelle vene, ne circola veramente poco quando mi trovo in uno stabilimento balneare. La folla certo non turberà la tranquillità del mio animo, caro Seneca, ma il mio senso dell’educazione lo turba, e come se lo turba!

Saltellando sulla sabbia rovente, arrivi in uno stabilimento balneare, la ‘meta sudante’ – vaneggiata oasi di riposo. Il tempo di spogliarti e stenderti e, non si capisce mai da dove, arriva un comandante fantasma ad intimare: «Al mio segnale, scatenate l’inferno!». In un lampo, ti ritrovi circondato da bambini respinti dalla barriera del suono; da mamme che gridano ai pargoli, dalla distanza di quattro/cinque metri: – Stai zitto, non si urla sulla spiaggia!; poi c’è l’uomo che non ha dimestichezza con la rosa dei venti e, quando deve sistemare il telo insabbiato, dopo aver valutato tutte le direzioni, riesce a scegliere sempre quella dalla quale la sabbia ti arriva in faccia; a seguire, l’adolescente annoiato che, tra le 2 e le 3 del pomeriggio, l’ora del pisolino, prova in sequenza tutte le suonerie del cellulare; naturalmente c’è l’immancabile palestrato che corre – sudato a digiuno alle 13 – sulla riva, per fare pendant con la famiglia che – con i 40 °C – estrae, dalla borsa frigo, lasagne ai funghi porcini e brasato con patate, vellutata di piselli e profiterol; sulla riva, mentre bagni timidamente i piedi, intenzionato ad immergerti piano e prudentemente, come ti aveva insegnato la mamma, a sorpresa arriva il solito che, veloce come un fondista, solo dopo averti schizzato tutto, prima rallenta, poi si bagna i polsi, e infine si tuffa. A questo punto vuoi reagire, scendere in campo, deciso a dire a tutto il mondo sudato: – Anche io esisto! Beh, il tempo di lasciarti andare in una risata un po’ sgangherata, o una frase ad alta voce, e ti ritrovi lo sguardo inquisitore del vicino che, sulla spiaggia, ha deciso di leggere «I fratelli Karamàzov» o fare una lettura comparata tra Omero e Virgilio, quindi ha bisogno di concentrazione, quella concentrazione che ora, tu, omuncolo ignorante, stai disturbando; alla fine, svenendo stremato sul telo, tuo ultimo avamposto ‘stoico’, ti ritrovi davanti la coppia in effusioni amorose che, ogni tanto, butta l’occhio per vedere se – tu, intruso invadente – stai violando la loro privacy, perché la privacy è un diritto, soprattutto in certe questioni, ricordalo!

Insomma, caro Seneca, l’animo ha la priorità e «nada me turba» va bene, però, diciamolo, l’educazione, sulla spiaggia, pure è importante. Prendete la descrizione del «balneum» di Seneca, aggiungeteci il tipo da spiaggia con il cellulare-protesi e otterrete un moderno, e maleducato, stabilimento balneare. Insomma, anche sulla maleducazione, noi moderni non abbiamo inventato molto. A questo riguardo, il Codacons – l’associazione dei consumatori, sommersa da reclami e lettere di protesta, ha deciso di stilare una versione di galateo balneare”. Un decalogo di bon ton da osservare in spiaggia e che ogni stabilimento d’Italia dovrebbe adottare per rendere l’estate al mare un po’ più piacevole. Anche sul “galateo balneare”, in realtà, il Codacons non ha inventato molto. Certo non sarà come leggere «I fratelli Karamàzov» – il vicino di ombrellone ci perdonerà –, comunque invito a ‘sfogliare’ l’interessantissimo sito www.balnea.net: «un museo virtuale dei bagni di mare e del turismo balneare», dalle terme romane ai giorni nostri. Tra le varie e ben documentate curiosità di storia e costume, c’è un’intera sezione dedicata al galateo da spiaggia. Il primo editto per regolare l’uso dei bagni di mare, fin ora noto, fu quello emanato dal delegato apostolico di Pesaro nel 1814, primo di una lunga serie che annualmente comparirà in ogni località della costa, sotto tutti i governi, soprattutto per «salvaguardare il pudore e la decenza»: vietava di nuotare «ignudo in vicinanza dell’abitato, del passeggio o della spiaggia», dopo lo «scandalo cagionato nei passati tempi dalla scostumatezza di alcuni».

Se questa estate il nostro animo sarà sereno e tranquillo, dipenderà (relativamente) da noi stessi. Se sarà un’estate educata, dipenderà da tutti. Ieri come oggi.