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“Dodici”: romanzo e profezia

Tra fantascienza e fantasy: ultime evoluzioni di un genere letterario

I lettori di Lewis, e soprattutto di Tolkien, avrebbero buon gioco nel trovare una discreta serie di analogie e assonanze ai loro autori, nelle pagine di Giovanni Donna d’Oldenico, ma il genere letterario di Dodici (Marietti, 246 pp.) non potrebbe definirsi come “fantasy”, se non al prezzo di una vistosa forzatura, e in definitiva con una certa scorrettezza.

Il genere letterario con cui Dodici mostra più affinità è forse quello di Matrix, ovvero quello che si potrebbe definire “fantasy storico”: ciò che separa la narrazione di Tolkien da quella dei Wachowski è la compresenza dell’elemento simbolico-allegorico e di quello schiettamente didascalico, molto più che la compresenza di più tempi e di “più mondi” all’interno dell’unico mondo in cui si situa il racconto (elemento che, sebbene mediato da varî “portali dimensionali”, si trova anche nelle Chronicles of Narnia e in Harry Potter). La storia di Donna d’Oldenico si situa in un futuro «forse non abbastanza» remoto – ciò serve (anche) a trattenere il racconto dall’eccentricità fantascientifica, nonostante gli scorcî futuristici che di tanto in tanto balenano di tra le pagine – e resta comunque ancorata al pianeta Terra, «diviso in due mondi: di qua la Repubblica, i cui Cittadini si sentono difesi da frontiere impenetrabili, amministrati da un Governo eccellente, liberi e progrediti; di là i Territori, immense regioni tornate quasi al Medioevo, abitate da quelli che i Cittadini chiamano e considerano Selvaggi» (5).

Donna d’Oldenico è un fine intarsiatore d’intreccî, e nella trama brillano di tanto in tanto non pochi fili di giallo e di thriller, quasi riecheggiando ibridi letterarî come Il nome della rosa di Eco. Studiato maestro della trama, l’Autore alterna con consumata maestria situazioni e registri, temi e personaggî

Due mondi, dunque, coesistono, ma non come nelle Chronicles of Narnia, dove un passaggio ermetico segna il confine tra l’uno e l’altro: non dandosi il passaggio ermetico, cessa anche la barriera simbolica per la quale il lewisiano Aslan poteva avvertire i ragazzi, congedandoli, di cercarlo “con un altro nome”, una volta usciti da Narnia. No, i “Selvaggî” sono chiamati e ritenuti tali perché rimasti caparbiamente ancorati a quella che i Cittadini chiamano “l’Antica Leggenda”. Essa non è altro che la fede di Gesù Cristo, trasmessa per via apostolica e fautrice di una vita che per i Selvaggî si svolge nell’osservazione paziente e intelligente di tutto il reale (dove per “tutto il reale” s’intendono i rapporti umani, la relazione alla natura creata, il mistero di Dio e le sue mediazioni storiche, quali la Chiesa, la Parola, i Sacramenti).

La realtà ecclesiale dipinta da Donna d’Oldenico è largamente debitrice al paradigma monastico occidentale, in particolare al bagaglio benedettino: non a caso la figura del Papa è costantemente giustapposta a quella di suo fratello, Nicola, che è “un semplice abate”: se mancano completamente scorcî della gerarchia ecclesiastica, ciò è vero solo relativamente al cliché di una gerarchia curiale (ovviamente cinica e corrotta) quale si propina allegramente perfino nelle odierne fiction sui papi. In realtà, il Papa e l’Abate s’incontrano per discutere – durante tutto il libro – dell’opportunità di diffondere in un documento magisteriale la notizia degli oscuri retroscena di un evento – “la Mozione del Millennio” – che sta segnando l’apice fatale della linea politica della Repubblica.

La “Mozione del Millennio” è il decreto parlamentare repubblicano con cui si autorizza e si comanda la composizione artificiale di un embrione umano a partire da particelle elementari aggregate da nano macchine. L’autocreazione dell’uomo è l’esito finale che l’Autore estrapola senza difficoltà dallo spettro dell’eugenetica odierna, già posseduta dal delirio d’onnipotenza della tecnica (una delle ossessioni di Heidegger). Ciò che al progetto repubblicano manca è il fondamento metafisico, per cui si giunge a illudersi che il progresso sia «sapere come si fanno le cose, invece che perché». Il fatto è che c’è sempre un perché, per ciò che accade, ma quando le menti sono tutte disperse nell’euforia del come il perché resta un appannaggio di poche intelligenze occulte. In Dodici la mente che ordisce l’intero piano è l’intelligenza occulta per eccellenza, ed è sintomaticamente paradossale (ma più semplicemente “misterioso”) che, pur essendo l’unica a conoscere il vero fine della “Mozione del Millennio”, anche quella non sia capace di prevedere le ragioni che la porteranno ad accartocciarsi su di sé, in una conflagrazione di portata ad un tempo universale e quanto mai relativa, perché «l’Essere c’è» – e l’assioma parmenideo risuona d’inalterata perentorietà nelle vicende alterne del mondo.

Lo scenario si divide in due grandi aree caratteriologiche: da un lato gli uomini d’azione, dall’altro quelli della speculazione/contemplazione. Ciascuno dei due gruppi si divide a sua volta nelle due squadre dei “buoni” e dei “cattivi” (una “pecca” del libro è forse che, a parte qualche personaggio meglio tornito e sfumato, i contorni dei tipi sono piuttosto stereotipati), ma se è facile pensare che i buoni e i cattivi facciano grossomodo le medesime cose, sul piano dell’azione, ci si aspetta meno di trovare il versante degli speculativi/contemplativi spaccato da una disparità così prepotente. Il fatto è che, benché ogni partita nella storia si giochi quasi sempre con le armi dell’azione, è la speculazione/contemplazione che riesce (o non riesce) a rendere alla ragione le ragioni di una qualsivoglia azione. Il problema degli “scienziati” della Repubblica è precisamente che essi s’intendono esattamente quali i loro poliziotti e soldati, salvo l’essere totalmente diseducati anche a quel tipo di relazione con la realtà che presuppone il buon utilizzo di un’arma da fuoco. Così anche i dilemmi che si pongono, privi di una qualsivoglia coordinata di riferimento, sono la quintessenza della vanità: «Si erano posti un sacco di quesiti, i più arzigogolati pensabili, tutti tronfi per la propria sagacia. Avevano formulato ipotesi, confutandosi con alterigia e acribia, in modo da confermarsi, l’un con l’altro, nella consapevolezza di essere il migliore. Naturalmente non avevano azzeccato nessuna soluzione, avendo, secondo la loro consuetudine, molto lambiccato, poco osservato e parecchio litigato» (234).

Degna di nota è la portata simbolica della trama, laddove Edyta, Benjamin, Leone e Zeb – gli esponenti principali della “squadra d’azione” dei “buoni” – sono praticamente tutti legati per un verso o per l’altro al mondo repubblicano, dalla cui ideologia mortifera cercano di emendarsi, trovandosi a punti più o meno avanzati di tale cammino. Non solo, dunque, questi quattro personaggî sono l’emblema dell’homo viator, che viene raggiunto dalla Grazia del Vangelo quando è ancora pienamente soggiogato dalla (forse pure dorata) miseria dell’ideologia e del peccato ulteriore che da essa consegue; non solo essi raffigurano gli stadî del cammino e della fatica che la verità e la libertà costano; essi si trovano pure ad essere, nello svolgimento dell’intreccio, la cerniera di collegamento tra gli speculatori/contemplativi che conoscono l’“Antica Leggenda” e quelli che non la conoscono. Sì, Hector Lamialis, fisico quantistico repubblicano, è uno dei personaggî più interessanti del romanzo: troppo rigorosamente legato all’osservazione della realtà e ferreo alunno di un metodo autenticamente scientifico, ben presto s’è ritrovato fuori dai primitivi parametri dell’ideologia, condannato come “eretico” (sic!) ed esiliato dalla Repubblica. Le vie della ragione e della scienza hanno condotto Lamialis a sapere buona parte delle cose che il Papa e l’Abate (con tutti quanti conoscono l’“Antica Leggenda”) hanno ricevuto nella fede dalla rivelazione: la continuità e l’intercomunicazione tra i molteplici livelli dell’essere si trovano ad essere la “marcia in più” dei Selvaggî rispetto ai Cittadini.

Il merito di Donna d’Oldenico sta non solo nell’aver enunciato queste verità metafisiche, ma soprattutto nell’averne denunciato i coefficienti inerenti alla vita quotidiana: i Cittadini hanno perlopiù perso il nesso tra unione e procreazione (ossia il contatto atavico col mistero della vita, della morte, del dolore), hanno l’obbligo legale di cremare tutti i cadaveri, relegano in lebbrosarî/dimenticatoî i malati e gli anziani… il tutto all’insegna di un rapporto con la realtà che non parte dall’accoglienza e dall’accettazione, bensì dall’ideologia e dal titanico tentativo d’imporla all’essere.

Eppure non mancano, nella Repubblica, sostanziali infiltrazioni dell’“Antica Leggenda”: una Chiesa clandestina vive, con tutte le precauzioni del caso, in ogni luogo e ad ogni livello della società. Uno dei passaggî più intensi del romanzo è la lettera di Clarence morente a suo figlio Benjamin, momento di “tradizione anonima” (ma neanche troppo) dell’“Antica Leggenda” e luminoso caso di resistenza della coscienza al sistema dell’umanesimo ateo. Ateo? Sì e no, perché naturalmente la Repubblica s’è fornita di una religione-fantoccio (cui i detentori del potere si guardano bene dal credere) per sedare il senso religioso comunque innato nei Cittadini: la Madre Terra e il Progresso sono dunque i due idoli infecondi cui viene infruttuosamente rimessa la ragione umana – solo in apparenza “troppo comodo”, in realtà impossibile: come si fa a rendere ragione di ciò che non è ancora mai avvenuto?

Dodici prende il titolo proprio dall’idea di Clarence di parlare al figlio dell’“Antica Leggenda”, quando appunto egli avesse compiuto il dodicesimo anno di età (130): “dodici” è il tempo che una madre ha scelto per rivelare al figlio la verità, e per consegnargli il senso della vita. “Dodici” è il punto di partenza per comprendere come, dove gli altri vedono la dissoluzione di un progetto sacrilego e la fine di tutte le cose, i Selvaggî di ogni tempo e di ogni luogo sanno riconoscere le nozze mistiche dell’Agnello e la nuova generazione di tutto in Dio.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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