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Adesso siamo pari! …o no?

Dopo “Sposati e sii sottomessa”, stavolta Costanza Miriano parla di uomini: “Sposala e muori per lei”

«Esiste un unico, infallibile, inarrivabile, micidiale metodo per parlare con gli uomini. Solo che io non so qual è»: a metà tra l’epica solenne di “Cantami o diva del Pelide Achille…” e il brio effervescente e autocanzonatorio di Nora Ephron, così suona la frase di apertura di Sposala e muori per lei, il secondo libro di Costanza Miriano (pubblicato per i tipi della Sonzogno, Venezia 20121, 207 pp., 15 €), oggi in uscita nelle librerie italiane. L’Autrice ha bisogno di ben poche presentazioni, avendo pubblicato nella primavera del 2011 il bruciante bestseller Sposati e sii sottomessa (al quale dedicammo, a suo tempo, questa recensione).

Più di trentamila copie per il primo tentativo di spiegare quella che l’Autrice denuncia per una verità semplice e dimenticata: «Il secondo libro – motteggia la Miriano – è un po’ un altro tentativo di spiegare che la sottomissione non è roba di chi stira o di chi fa i piatti». In realtà, Sposala e muori per lei è ben altro che un banale sequel, e più che dalla brama di uguagliare la brillante prestazione del primo titolo nelle librerie, la penna della Miriano pare presa dal tremore di chi riprende la parola dopo uno scrosciante, lungo, ininterrotto applauso: c’è dell’altro da dire, sì, ma come continuare dopo tanto fragore? Come dire ciò che al discorso ancora mancava senza ripetersi eccessivamente?

Qualcosa, effettivamente, mancava, e bastava il titolo – quel tanto violentemente avversato titolo di sapore paolino! – a rendersene conto: «Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti come al Signore – insegna “Paolo”* – , poiché il marito è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, ed egli stesso è Salvatore del corpo». Così il Dottore delle Genti, e prosegue: «Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5, 22-23 ; 25). Ecco, lasciando pure che tanti pennivendoli continuino a protestare che questi passi sono frutto di una cultura arcaica e misogina (forse l’Autore preveniva le obiezioni, quando precisava trattarsi invece del “mistero grande”, che riguarda nientemeno che “Cristo e la sua Chiesa”), lasciando dunque che chi vuole bolla nel brodo del proprio inchiostro, bisogna dire che il primo titolo della Miriano ne esigeva un secondo, e che al discorso sulle donne ne seguisse uno sugli uomini.

Dal momento «che gli uomini sposano le donne e le donne sposano gli uomini» – ad oggi non è ancora del tutto anacronistica la banale considerazione del guareschiano don Camillo… – parlare delle une o degli altri implica un po’ sempre parlare di entrambi: nel mistero grande, tuttavia, lo spazio della profonda comunione si fa cornice e sostegno di una differenza irriducibile. Per quella stessa differenza, la Miriano mette le mani avanti, nell’Introduzione, affermando di aver gettato la spugna, di non essere riuscita a tenere fede al suo proposito: avrebbe voluto, sì, scrivere delle lettere agli uomini come prima ne aveva scritte alle donne, ma temeva che avrebbe faticato invano, essendo gli uomini generalmente indisposti a leggere qualunque argomentazione che, in tema di amore e coppia, non possa essere contenuta nello spazio di un post-it. La soluzione letteraria che ha tenuto poi insieme le lettere delle signore e i post-it dei gentiluomini è stata questa: scrivere lettere alle amiche, piene zeppe di “consiglî non richiesti” (come il genere letterario permette e vuole), di cui l’ultimo suonasse come un suggerimento per un regalo simbolico all’uomo in questione, accompagnato da un pratico e sintetico post-it quale biglietto d’accompagnamento e/o sunto del capitolo.

In realtà la Miriano bleffa: già nel primo capitolo non ce la fa a trattenersi, e al Luca di cui parla si rivolge direttamente, in seconda persona, dopo averne parlato in terza; nel secondo addirittura è il post-it a non portare il nome (ancorché fittizio) della moglie di Daniele, e a lasciar intendere l’invisibile ma chiara firma di Costanza; l’ordine, nel metodo e nel genere, viene ristabilito e mantenuto per la gran parte del libro, ma per l’ultimo capitolo – che raccoglie idee-chiave di questo e del primo libro – la Miriano butta giù la maschera, scrive tutto e firma perfino il bigliettino: “la tua amica C.” (197).

Resterebbe forse deluso, chi andasse a cercare la vera novità sul piano dei contenuti – «Non suoni strano a chi dal titolo si aspettava una bella ramanzina agli uomini» (17) –, perché ciò che c’era parso mancare nel primo libro (l’avevamo scritto nella nostra recensione) è appena una sfumatura – ma sostanziale! – dell’approccio al tema. Se, infatti, leggendo le incalzanti pagine parenetiche sulla sottomissione, si poteva nutrire l’impressione che l’Autrice ritenesse la corrispondenza oblativa dell’uomo irresistibilmente necessitata dalla docilità della donna, questa volta la riflessione della Miriano si diffonde più largamente sul bisogno di contemplare il misterioso abisso che separa per sempre due persone, pure unite nel vincolo sacramentale che le porta a divenire una sola carne – la libertà.

Ecco perché Costanza rinuncia a scrivere agli uomini: facilmente la dinamica osmotica della conversazione amicale si sarebbe convertita nell’unilaterale pioggia acida del sermone. «È solo così che si lascia all’altro il piacere, il desiderio di cambiare liberamente e spontaneamente, che è poi l’unico vero cambiamento possibile» (9): «se una donna riesce a stare al fianco di un uomo in silenzio, un silenzio concentrato in Dio, che come dice santa Teresa d’Ávila è il più potente dei clamori, imparerà la gioia di veder fiorire una persona accanto a sé» (13). Proprio la trouvaille del regalo, del dono gratis – di Grazia! – è la vera novità del libro, ciò che ancora mancava a Sposati e sii sottomessa (altro che espediente narrativo!): regali «che, come tutti i regali, devono essere liberi, gratuiti, e pensati per chi li riceve. Capaci di muovere il loro cuore. Regali offerti con dolcezza, non come gabbie che vogliono costringere. Non con la presunzione di chi sa di cosa ha bisogno l’altro. Regali che cerchino di cogliere i desideri e, se possibile, anche sopravanzarli. Ma che in caso contrario possano anche essere rifiutati» (17).

Sì, resta verissimo che «l’uomo vedendo la nostra generosità sarà invogliato a dare la vita per noi» (35), ma appunto, “invogliato”, non “necessitato”, e potrà sempre comunque, misteriosamente, rifiutare: «Il cambiamento che tutte le donne vogliono dal marito, ammesso che sia necessario […], non lo devono fare loro, ma il Signore. È un lavoro che fa Dio, e si chiama la storia della salvezza. […] Perché il cambiamento […] avviene solo nella libertà. E solo la Grazia ci cambia davvero, di certo non sono le nostre prediche che funzionano […]» (90-91).

Tali più diffuse considerazioni sulla Grazia e sulla sorda resistenza che le creature libere sanno opporle sono spiccatamente congeniali a una sensibilità tanto avvertita dell’entità reale del peccato nella vita concreta: anche l’idea di rimandare l’educazione religiosa dei figlî a quando abbiano acquisito una loro indipendenza e fatto le loro scelte «potrebbe avere una vaga parvenza di senso se l’uomo fosse buono in sé, non avesse bisogno di educarsi in un combattimento spirituale all’ultimo sangue, se non fosse ferito per sempre e marchiato fin nelle viscere dal peccato originale» (132-133). Non c’è bisogno che alcuno si precipiti ad accusare la Miriano di luteranesimo o, perlomeno, di giansenismo: l’Autrice sa che quel “per sempre” e quel “fin nelle viscere” trovano un limite decisivo e invincibile nell’azione di Cristo, che è ben altro che putativa, e che resta potenzialmente aperta a tutti.

È opportuno soffermarsi lungamente su queste considerazioni, perché esse sono lo sfondo di tutto il testo, pur non costituendone la materia specifica (non è un trattato De Gratia et libero arbitrio): in Sposala e muori per lei, proprio perché si calca l’accento sulla responsabilità dell’uomo con-vocato con la donna nel mistero grande, l’ispirazione religiosa (e profondamente cattolica) del libro è tutt’altro che accidentale – escluderla o “sospenderla” (come piace dire agli ermeneuti e ai fenomenologi) significa pregiudicare sostanzialmente la comprensione del tutto.

Ecco il tema del libro: «La crisi ormai devastante delle identità maschile e femminile, la carenza di veri uomini e di vere donne e, quindi, di matrimoni che funzionino» (11). Se il primo libro analizzava nel dettaglio le diverse sfaccettature della muliebre tendenza al controllo (quando non alla manipolazione), il secondo si sofferma sul peccato originale di Adamo, quell’indolente ed egoistica pigrizia che porta ad abdicare la vocazione di guida oblativa: «Il problema dei problemi è che è abbastanza facile trovare un maschio pronto a morire in guerra, per un ideale, per la gloria, per la sua squadra, anche, al limite. Ma è difficilissimo che s’innamori dell’idea di morire per la famiglia, per sua moglie, per i figli, per una quotidianità apparentemente mediocre, azione che sarebbe invece quanto di più eroico si possa immaginare: non è il beau geste di un momento, ma un martirio, una passione lunga e costante e incredibilmente fruttuosa» (105).

Gli argomenti, i temi e gli strumenti con cui la Miriano affronta “il problema” sono probabilmente meno scanditi di quanto un’occhiata all’Indice (205-206) e alla sua ripartizione tematica lasci intendere, ma non per questo essi sono meno differenziati: i temi della crisi della paternità (38-39, 46, 51, 71, 137, 142…), della natura dell’amore (60-66, 168, 190…), della complessità degli uomini (76-79, 99, 116-117, 169…), questi sono i grandi temi trasversali del libro, i quali però s’intersecano puntualmente con sorprendenti considerazioni sull’intimità nella vita matrimoniale (22-24, 181-197), sul dovere coniugale – addirittura suffragato dagli scritti di Agostino! – di un’adeguata cura cosmetica (27-28). Le valutazioni, poi, sulla seria crisi della comunicazione del Vangelo nel contesto occidentale contemporaneo (123), nonché le denunce sulle vere iniquità attualmente infestanti il mondo del lavoro (176, 194-195), illuminano il profilo dell’Autrice e gli dànno profondità al di là dello striminzito cliché che taluni hanno talvolta approntato a partire dai balzi istrionici della sua penna.

Vero emblema di Sposala e muori per lei – un po’ come Topolino apprendista stregone in Fantasia – è il quinto capitolo (84-101), dedicato alla figura di Gudbrando, il contadino di un antico racconto germanico che inanella in una giornata una serie incredibile di baratti al ribasso, sulla via del ritorno a casa viene compianto da un amico per la sorte che – certamente – l’avrebbe atteso oltre la soglia, e viene invece accolto a braccia aperte dalla moglie, che si congratula vivamente con lui per ognuno di quei baratti forsennati. Nel paradossale racconto è lo stupore dell’amico di Gudbrando, il quale deve versargli una forte somma a causa della reazione della moglie (e per via della scommessa che avevano fatto per strada), a riequilibrare la vicenda, riunire la coppia in un’entità unica e sottrarla al disprezzo che per vie diverse (ma direttamente o indirettamente riferite a lui), essa avrebbe raccolto su di sé. Non sembra affatto farsi paladina di un’ebete acriticità, la Miriano, rappresentando per lei la vicenda di Gudbrando lo sprone a capovolgere «la nostra innata inclinazione a trovare sempre qualcosa che non va, e impariamo al contrario a ringraziare e a trovare il bello in tutto quello che nostro marito fa, nel suo modo, con il suo stile, con i suoi tempi. […] Il punto è avere un pregiudizio positivo verso di lui, pensare comunque bene, a prescindere, tanto per cominciare. Non vuol dire smettere di lottare con lui, non è un amore rassegnato, ma un amore accogliente. È l’uomo che mi ha consegnato la sua vita, e non lo avevo neanche narcotizzato» (93-94).

Può darsi, certo, che dimenandosi per far meglio lui non ne imbrocchi una, o peggio che non faccia alcunché per crescere/convertirsi all’amore che lo investe, «ma anche in questo caso è lui a doverlo fare, liberamente. Nessuno può imporglielo. E nessuno può evitargli la fatica. Si può solo accettare, accogliere, aspettare un cambiamento. Pregare. Ci possono volere anni, decenni, anche. Forse una vita (mia nonna diceva al nonno: “Mi darai ragione da morto”, e adesso ho capito che non scherzava)» (97).

Ecco di quale sequel abbisognava Sposati e sii sottomessa: un’attenta lumeggiatura che mostrasse agli uomini, sia pure mediante veri/finti carteggî tra donne (opportunamente lasciati in vista sul comò di lui), che in forza della loro responsabilità quello che sembrava dapprima essere scandito come un teorema è diventato una scommessa (e perlomeno da Pascal in qua le scommesse sono per la fede miglior modello dei teoremi).

Una stroncatura a parte merita la quarta di copertina – della quale però risponde l’Editore, e non l’Autore – che sta lì come improvvido esempio di come, evidentemente, esistano non solo recensori che recensiscono libri senza leggerli, ma persino editori che senza leggerli ne pubblicano. La cosa è ben più grave, ma appare tanto più evidente quanta più è l’attenzione con cui si osserva la pagina. La prima frase riportata (in grassetto!) – «L’uomo non può resistere alla donna che si consegna a lui» – è di Costanza Miriano, sì, ma non compare assolutamente nel libro, risalendo effettivamente a Sposati e sii sottomessa: poco importa che a nostro modesto parere la novità del secondo libro sta, come abbiamo cercato di illustrare, in un qualche “ammorbidimento” di quel teorema – al di là delle opinioni di lettori e critici, resta difficilmente spiegabile come un editore metta nella quarta di copertina di un libro una frase estratta da un altro libro. Al secondo posto della terna di testi sta la non particolarmente sapida ma pur sempre pertinente citazione di Annalena Benini: la Benini stessa avrebbe probabilmente scelto altre parole, da mettere dietro a un libro, ma passa. Il peggio – in cauda venenum – arriva con la vernice acida della citazione di Langone – «Solo un uomo spantalonato può sperare che Costanza non convinca le donne italiane» – estratta dalla miserrima replica dello stesso ad Aldo Grasso, reo a sua volta di aver screditato la Miriano (con argomenti superficiali, a dire il vero) sul suo primo libro. Il tutto, manco a dirlo, è accaduto diversi mesi fa, né la frase di Langone ha minimamente a che fare col contenuto del libro: le scelte lessicali di Langone, in quella frase, tradiscono ben più l’indole di un irrequieto dongiovanni che quella di un uomo che, da parte sua, sta onestamente cercando di essere nobile immagine di Cristo per la donna che liberamente si consegna e si sottomette a lui. Ma non c’interessa parlare di Langone – della cui vita privata, peraltro, non sappiamo niente – o non faremmo che ripetere la sua sgraziata scortesia nei confronti di Grasso: ribadiamo però che infelicissima è stata la scelta editoriale che ha misconosciuto la peculiarità del nuovo libro della Miriano e che ha creduto di accompagnarla adeguatamente con delle parole trasudanti quel livore reazionario e maschilista contro cui s’è scatenata la furia iconoclasta delle femministe (furia che la Miriano, da parte sua, si prova a disinnescare). È un criterio bislacco, quello che porta a ritenere che due persone che hanno i medesimi avversarî debbano perciò stesso essere tra loro amiche o alleate, o pensarle alla stessa maniera, o avere davanti agli occhî il medesimo fine ultimo.

Accade invece che perfino nelle pagine della Miriano si possano rinvenire – magari ci riuscirebbe persino una femminista, se intellettualmente onesta! – le tracce della tanto complessa, rivendicata e proclamata reciprocità: «Quando tu però ce la metti tutta per essere bella, e lui per essere nobile, accettando quasi la morte dell’amore, per come è inteso secondo la vulgata almeno qui in occidente […], e accetti […] di lavorare sui tuoi difetti – la donna sulla volontà di dominio, l’uomo sull’egoismo – senza aspettare che qualcuno lo riconosca, allora, quasi per caso, per un incontro tra due che decidono di fare entrambi questo immane lavoro – e spesso la decisione non è simultanea – allora ci si può amare anche al di là delle proprie intenzioni. S’incontrano così due persone che stanno cercando di essere belle e nobili, e che hanno rinunciato a dominarsi l’una con l’altro, a prevalere, ad adottare tattiche» (66).

 

 

 

*: La Lettera agli Efesini è ormai riconosciuta come una lettera “deuteropaolina”, vale a dire composta da un autore che ha elaborato (e sviluppato) temi tipicamente e genuinamente paolini in un contesto cui la parola dell’Apostolo – probabilmente già morto, o comunque irraggiungibile – non poteva indirizzarsi ai destinatarî.

 

 

 

 

Foto: L’immagine è di proprietà di Freesiasi [Freesiasi © su Flickr]. La Redazione dichiara di essere pronta a togliere immediatamente l’immagine da LaPorzione.it, qualora l’Autore non ritenesse sufficiente questa segnalazione della sua proprietà intellettuale e ce ne facesse richiesta.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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