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C’era una volta la traduzione letteraria

Cosa succede quando la tradizione classica incontra le esigenze della religione cristiana

Statistiche ed esperienza quotidiana ritraggono gli Italiani come un popolo poco portato per le lingue straniere: otto Italiani su dieci sono pressoché incapaci di sostenere una conversazione in inglese (link), e non si può certo affermare che ce la caviamo meglio nella comunicazione scritta o nell’uso di altri idiomi nazionali. Se non fossero approntate delle traduzioni, di tante opere della letteratura e saggistica straniera probabilmente non conosceremmo neppure i titoli. Fenomeno per lo meno curioso nella società della globalizzazione! Eppure – anche ripensando a quanto abbiamo detto a proposito di Agostino e delle difficoltà da lui incontrate nello studio della lingua straniera di allora, il greco (link) – si direbbe che la situazione attuale costituisca la propaggine di un’antica e in-gloriosa tradizione di ignoranza linguistica.

L’uomo ha sempre avvertito con un certo fastidio gli effetti delle diversità linguistiche: le ha interpretate come un limite penoso alla comunicazione tra i popoli, addirittura come una punizione divina (così nell’episodio della torre di Babele: Gn 11,1-9); viceversa la capacità di destreggiarsi tra due o più lingue è vista come dono eccellente e di origine celeste (a Pentecoste lo Spirito Santo reca ai discepoli il dono delle lingue: At 2,5-12). L’assoluta necessità di figure bilingui capaci di mediare tra persone allofone si rese evidente fin dal momento in cui i popoli, intrattenendo tra loro scambi commerciali, spostando la propria residenza, conquistando nuove regioni e creando grandi stati sovranazionali, vennero a contatto con lingue e culture diverse dalla propria.

Oltre ad essere indispensabile alle finalità pratiche legate alla comunicazione tra popoli alloglotti, nelle civiltà più evolute (specialmente quella greca e romana) la traduzione divenne il mezzo privilegiato per la diffusione e la circolazione del sapere, e favorì incontri e scambi tra culture diverse. Uno dei popoli più evoluti e potenti del Mediterraneo antico, la cui cultura pose le basi del pensiero moderno occidentale, il popolo romano, probabilmente non avrebbe avuto neppure una sua letteratura in lingua latina se non avesse avuto l’opportunità di attingere ai modelli greci. Le sue prime prove sono quasi esclusivamente traduzioni o rifacimenti di opere greche, alle quali veniva data una veste più «romana», avvicinandole al nuovo destinatario dal punto di vista linguistico e contenutistico. La prima opera letteraria in lingua latina a noi nota è una versione romanizzata dell’Odissea di Omero: da allora l’epica, il teatro, la lirica, la filosofia, la storiografia, il romanzo, ogni genere a Roma mostra una palese dipendenza dalla produzione greca, resa nota in Occidente grazie alla mediazione di quanti attendevano allo studio di entrambe le lingue dell’Impero. E, se evidente fu la dipendenza nella produzione letteraria profana, non minore fu quella nella produzione religiosa cristiana. Dal Nuovo Testamento alla letteratura patristica, per abbondanti tre secoli il cristianesimo si espresse in lingua greca, e i fedeli occidentali, per avere accesso a tanto ricca e tanto importante produzione, dovettero servirsi di uomini bilingui capaci di rendere tali opere in lingua latina.

V’è però una notevole differenza tra le traduzioni attuali e quelle che venivano realizzate ai tempi dell’Impero Romano. Se oggi un libro nella sua versione originale e in quella tradotta si presenta pressoché uguale (tranne che per poche sfumature dovute alle diversità morfologiche e sintattiche tra le lingue e alle scelte terminologiche), allora esisteva, accanto alla traduzione letterale (chiamata ad verbum, cioè «parola per parola»), un filone definito dagli studiosi «traduzione artistica o letteraria» (in latino ad sensum). Questo filone riservava al traduttore una libertà a volte notevole rispetto al modello, permettendogli di modificare, correggere, aggiungere o togliere, come meglio credesse. E la ragione non era solo strettamente linguistica (anche gli antichi sapevano bene che una versione rigorosamente letterale finisce per diventare brutta, cacofonica e addirittura poco comprensibile): essi interpretavano questo lavoro come un esercizio di affinamento retorico, finalizzato a produrre un testo non inferiore a quello di partenza, anzi, se possibile, superiore ad esso, mettendo alla prova le proprie capacità artistiche, sfoggiando le abilità tecniche e la cultura acquisita, ed entrando in una gara di emulazione con il modello. Quanto più il traduttore riusciva a perseguire risultati rilevanti in questo senso, tanto più egli era considerato non un interpres («traduttore» in senso stretto), ma un orator, autore di un’opera originale e di qualità. Nei fatti nasceva un’opera nuova, che solo in parte corrispondeva al modello tradotto.

Insomma, quello che noi oggi bolleremmo come un plagio o condanneremmo come una falsificazione, era allora tenuto in grande considerazione e costituiva la massima aspirazione per un traduttore. Problemi e polemiche accese sorsero però soprattutto quando i meccanismi della traduzione letteraria furono ereditati e applicati dai cristiani alle loro opere. Quale libertà può concedersi il traduttore quando rende scritti dogmatici, omiletici, agiografici, nei quali c’è il rischio di trasmettere insegnamenti eretici o devianti rispetto alla perfetta ortodossia? E – circostanza ancor più delicata – quale comportamento è chiamato ad adottare il traduttore nel momento in cui rende la Bibbia, che è Parola di Dio?  A queste domande, fondamentali nella storia del pensiero cristiano, se vorrete, cercheremo di rispondere nei nostri prossimi contributi.

 

* Immagine:Pieter Bruegel il Vecchio, La torre di Babele (1563), Kunsthistorisches Museum, Vienna

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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