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Arte sacra dopo il Concilio? De gustibus …

L’arte e l’architettura sacra realizzate dopo gli anni di chiusura dei lavori del Concilio Vaticano II mostrano spesso la loro lontananza dalla fede in Cristo e disorientano i fedeli.

Lo scorso anno Tomaso Montanari, professore associato di Storia dell’arte moderna dell’Università di Napoli Federico II, pubblicò un piccolo volume dal titolo “A cosa serve Michelangelo?”. Montanari, prendendo spunto dalle note vicende del crocifisso attribuito, tra dubbi e polemiche, a Michelangelo ed acquistato dallo Stato italiano, si interroga nel suo saggio circa il diffuso interesse dell’opinione pubblica nei confronti dell’arte antica. I termini in cui espone la questione non sono, però, lusinghieri ma mettono in luce il triste destino a cui sta andando incontro la storia dell’arte italiana, ingabbiata in un pericoloso gioco mediatico. “Pericoloso” perché il professor Montanari è convinto che la storia dell’arte sia oramai associabile solo a momenti di “disimpegno” e “divertimento” alla mercé dell’opinione pubblica o dei media, desiderosa la prima di utilizzare il bello come lussuoso rifugio temporaneo dalla quotidianità mentre, la seconda, più interessata a citare eventi a scopo meramente pubblicitario.

Montanari si chiede perché la storia dell’arte lasci deturpare passivamente la sua immagine ed avanza l’ipotesi che la causa sia insita nella stessa storia dell’arte che, come disciplina scientifica, “non è più sicura dei suoi valori, non è più sicura della sua identità umanistica, non è più sicura di voler essere ‘storia’”.

La conseguenza di questo immobilismo è il mutismo delle opere d’arte che, di fatto, non sono più in grado di educare e formare la nostra cultura. Per Montanari una via di uscita possibile è quella di aiutare il pubblico a riscoprire la differenza che esiste tra l’arte contemporanea e quella antica; mentre la prima, per Montanari, è fine a se stessa ed è concepita per essere ostentata nelle mostre o in musei, la seconda, invece, è nata per essere al servizio della complessa vita morale, religiosa, politica, economica , ecc. di una comunità di una determinata epoca.

Le opere d’arte antiche per Montanari reclamano oggi, più che mai, la comprensione della loro funzione non solo per “capire perché sono belle”, ma anche per evidenziare che “sono immerse in una rete di relazioni. E proprio per questo raccontano una storia: anzi, sono la Storia.

La scommessa degli storici dell’arte non può che essere quella di rendere viva e parlante questa rete di relazioni, e di mostrare come essa si estenda nell’ambiente”.

Quando Fëdor Dostoevskij ne L’Idiota riportò la bella e nota frase “la bellezza salverà il mondo”, forse pensava anche all’eventualità che, attraverso le opere d’arte, la comunità potesse beneficiare di quella che Montanari chiama “una resurrezione non solo estetica, ma [anche] civile ed etica”.

Le preoccupazioni e le speranze di Montanari in realtà non sono isolate e riconducibili al solo mondo dell’arte antica. A ben vedere, qualcosa di simile sta accadendo anche nel mondo della Chiesa relativamente al ruolo dell’arte e dell’architettura contemporanea per la liturgia, anch’esse ormai assopite e non più in grado di avere un ruolo costruttivo nella cultura contemporanea, perfettamente disciolte, invece, in una società che Bauman definirebbe liquefatta.

A riguardo i documenti del Concilio Vaticano II, pur rappresentando per tutta la Chiesa una fonte di inestimabile valore che impone scelte e decisioni importanti in quanto mettono nella condizione il cattolicesimo di confrontarsi con gli effetti della globalizzazione, relativamente alle questioni inerenti l’arte e l’architettura per la liturgia sono oggetto ancora di interpretazioni non sempre univoche. Il recepimento dei relativi documenti, inoltre, in epoca postconciliare ha conosciuto diversi momenti storici più o meno tormentati (tra gli altri, l’epoca ideologizzata del 1968, la caduta del muro di Berlino negli anni ’80, l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001) che hanno ancora oggi portato solo a pubblicazioni di scarni documenti di orientamento sull’argomento.

Dal Concilio Vaticano II ad oggi numerose chiese sono state erette, così come tanti sono stati gli interventi su edifici sacri preesistenti, purtroppo gran parte di queste realizzazioni non sono considerate dagli esperti lavori di qualità e, comunque, meritori, tolte le rare eccezioni, di una qualche menzione. Inevitabilmente la conseguenza di questa diffusa mediocrità non consente in molti casi di contribuire alla manifestazione, attraverso l’architettura sacra, della bellezza della fede e della gioia dell’incontro con Cristo in seno alla liturgia stessa.

Non voglio certo mettere sullo stesso piano un edificio sacro ed un museo ma, senza dubbio, una chiesa, come un museo, è un luogo che custodisce una Storia viva, solo che nel caso di una chiesa c’è qualcosa in più: “nella santissima eucarestia è racchiuso tutto il bene spirituale della chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata e vivificante nello Spirito santo, dà vita agli uomini: e questi sono invitati e indotti a offrire insieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. […]

La sinassi eucaristica è dunque il centro della comunità dei fedeli presieduta dal presbitero” (Concilio Vaticano II).

Molti esempi architettonici soprattutto postconciliari, sono spazi spesso autocelebrativi ed autoreferenziali che sembrano non relazionarsi con il contesto urbano nel quale sorgono divenendo presenze ingombranti ma nello stesso tempo anonime, trionfali nelle forme ma anche indifferenti verso le diversità del contesto (sociale, politico, religioso, economico, urbanistico, ecc.).

Che fine ha fatto il senso di ospitalità della Chiesa? Perché è così facile incorrere in scelte di iconoclastia?

Relativamente al tema dell’ospitalità sappiamo bene come essa abbia sempre animato la tradizione cristiana. Si tratta, o meglio dovrebbe trattarsi, per un cristiano di un vero e proprio stile di vita, di uno slancio sincero ad accogliere gli ultimi perché così si ha la certezza di accogliere Cristo. A riguardo in una Nota Pastorale della CEI, relativamente alla progettazione di nuove chiese, c’è un passo in cui si legge quanto segue: “Il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto ad un ambiente urbano non di rado anonimo, che acquista fisionomia (e spesso anche denominazione) tramite questa presenza, capace di orientare e organizzare gli spazi esterni circostanti ed essere segno dell’istanza divina in mezzo agli uomini. Ciò significa che il complesso parrocchiale deve essere messo in relazione ed entrare in dialogo con il resto del territorio, deve anzi arricchirlo”.

Dalla lettura del testo è facilmente evidenziabile come la relazione con il territorio ed i suoi abitanti non è riferito all’edificio della chiesa, quanto al complesso parrocchiale in cui è, come ovvio, incluso l’edificio-chiesa. Il lavoro del committente e del progettista inizia ancor prima della fase di concretizzazione delle peculiarità della progettazione del complesso parrocchiale. Si tratterà, infatti, di studiare ed approfondire i legami materiali e, soprattutto, immateriali alla base della relazione chiesa-quartiere a cui la Nota rimanda, impostando un dialogo senza preferenze, senza privilegi, senza esclusioni. La Nota, enfatizzando la componente relazionale, smorza in qualche modo la centralità del complesso parrocchiale che non solo deve conquistarsi con discrezione l’accoglienza, ma non deve oltremodo rinunciare a dare il suo contributo nella qualificazione ed arricchimento del contesto urbano stesso. La contestualizzazione del complesso parrocchiale va finalizzata al servizio dell’ambiente sociale ed umano.

La progettazione del complesso parrocchiale diventa, allora, la sapiente sintesi di un lavoro di confronto tra esperienze e competenze diverse (committente, architetto, liturgisti, teologici, pastori, urbanisti, ecc.). A questo proposito una più recente Nota Pastorale della CEI del 1996 che affronta il tema dell’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, esprimendosi con toni perentori, afferma quanto segue: “Per progettare l’adeguamento delle nostre chiese alla liturgia si richiedono non tanto colpi di genio quanto una notevole sapienza liturgica e professionale: competenze variegate e di alto livello, iniziative meditate con l’apporto di persone esperte e collaboranti, studi diligenti, metodi rigorosi, ricerca paziente”. Solo attraverso questo agire, parafrasando il professor Montanari, si può contribuire alla “resurrezione” non solo dell’estetica delle chiese ma anche del senso di ospitalità cristiana a cui il Vangelo di Luca (14,12-14) e quello di Matteo (25,31-46) ci richiamano e che i complessi parrocchiali dovrebbero ancor più coraggiosamente perseguire.

In un documento del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti del 2003 si legge: “L’ospitalità cristiana non può accogliere gli altri in uno spazio completamente aperto. Il suo desiderio è infrangere tutte le barriere di classe o identità etnica. Tuttavia, non può accogliere la gente in uno spazio assolutamente neutro, quando si tratta di accoglierli nella Chiesa o nella fede cristiana. Accogliamo gli altri a partire dalla nostra identità di comunità di discepoli di Gesù Cristo, come Chiesa. L’accoglienza che offriamo non è l’accoglienza che si offre in un albergo o in una stazione ferroviaria. Noi diamo il benvenuto di una casa, di una comunità. L’ospitalità cristiana accoglie l’altro così come egli è; però invita l’altro a sentirsi attratto e trasformato dalla nostra casa, dalla nostra comunità e dalla nostra ospitalità”.

Ma quando possiamo dire che un complesso parrocchiale oltre che saper proporre ed integrarsi nel complesso urbano, sarà anche esempio di uno stile di vita sincero e non artefatto agli occhi degli stessi cristiani? La risposta ci viene da Benedetto XVI quando, da cardinale, intervenendo in una conferenza, ebbe modo di fare questa riflessione: “La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’Eterno, è l’uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. […]. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa –specialmente nella sua vita associazionistica intramondana – non può divenire fine a se stessa”.

Da queste parole è facile evincere che la riconoscibilità della “bellezza” di un complesso parrocchiale oltre che da un punto estetico, la si deve evincere anche “dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riuniscono legati alla parole e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà”.

Chi l’ha detto, infatti, che la “bellezza” di un complesso parrocchiale debba essere funzione dell’impegno profuso da volontari iperattivi, il cui essere cristiano è valutato in funzione della quantità più o meno elevata di attività ecclesiali in cui sono impegnati? Il rischio sarebbe proprio quello di incorrere in uno stile di vita che non è compatibile con l’accoglienza evangelica. È ancora lo stesso Ratzinger che esprime la sua idea a riguardo, mettendo in guardia da quelle situazioni in cui l’attività ecclesiale diventa fine a se stessa. In questi casi “uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. […]. Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. […]. Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà”.

Veniamo ora alla questione della iconoclastia, spesso ricorrente negli stili architettonici della chiese contemporanee. Il riscontro che si ha anche nell’ambito di ambienti ecclesiastici è quello di considerare la gran parte di queste opere architettoniche delle banalità. Chiediamoci però per un istante cosa significhi effettivamente il termine “banale”. Il termine ha un significato etimologico interessante, esso infatti deriva da “ban” ovvero “bando”, da cui il termine “banal” che sta a significare “appartenente al signore”, poi declinato in “comune a tutto il villaggio”. È evidente che la moderna espressione “banale” riferita ad un’opera, sia essa architettonica o artistica, pur mantenendo il concetto di banale uguale comune, potrebbe essere letta in maniera ancora più sottile, ovvero: per la realizzazione di un’opera non è necessario essere un artista, ma è possibile raggiungere lo stesso risultato anche se si è un uomo comune, ovvero proprio un uomo banale, un uomo che non va oltre l’ovvietà.

Messo in questi termini, dare allora del banale ad un manufatto è un modo per sintetizzare e denunciare forse uno stato diffuso di crisi in cui verte il rapporto tra arte e Chiesa. Crisi adducibile soprattutto ad un positivismo che enfatizza forse in maniera esagerata le cose materiali di questo mondo ed oppone una chiusura totale verso le questioni riguardanti la vita e la morte che trascendono, invece, gli aspetti materiali ed anche più ovvi. Ratzinger parla senza mezzi termini di “accecamento dello spirito” che, inevitabilmente, ci induce a dover tristemente constatare come “il nostro mondo delle immagini non oltrepassa più l’apparenza sensibile, e il diluvio delle immagini che ci circondano significa al tempo stesso la fine dell’immagine: al di là di ciò che può essere fotografato non c’è più nulla da vedere. Allora, però, diventa impossibile … l’arte sacra, che è basata su un modo di vedere più in profondità”.

Molte chiese sono state erette dopo il Concilio Vaticano II, ma l’unico vero filo conduttore che le accomuna sembra sia l’assenza di un criterio teologico a cui gli edifici sacri ed i relativi arredi dovrebbero ispirarsi. È vero, qualcuno potrebbe obiettare che c’è un passo del documento conciliare Sacrosanctum concilium in cui, nel paragrafo dedicato alla “Libertà di stili artistici”, si afferma che “la chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura”. Questo documento, però, sebbene sia rispettoso della creatività degli artisti auspica, qualche rigo più avanti, che anche l’arte contemporanea “possa aggiungere la propria voce a quel mirabile concetto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica”. Nel documento conciliare non si fa altro che riportare in maniera pressoché identica quanto, molto tempo prima, aveva già detto Pio XII nel paragrafo intitolato “Le arti liturgiche” contenuto nell’Enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947.

L’attuale tendenza iconoclasta nelle chiese è, allora, il riflesso di una crisi in atto da tempo nella Chiesa, una crisi che in questo momento nega con i fatti, disorientando i fedeli, che “la Chiesa, in qualche modo, proietta, imprime se stessa nell’edificio di culto e vi ritrova tracce significative della propria fede, della propria identità, della propria storia e anticipazioni del proprio futuro” (Nota Pastorale del 1996).

Dice bene Jean Clair quando afferma che ancora oggi la grandezza della Chiesa è proprio nella contemplazione ed adorazione del Bambino Gesù che dal momento della nascita, vive un crescendo della sua forza che diventa massima con la resurrezione. Ebbene Clair si chiede come una Chiesa che “tra questi due momenti, la Natività e la Pasqua, non ha smesso di lottare contro la ‘cultura della morte’”, possa ora contraddirsi con segnali allarmanti, infatti “questo coraggio, questa ostinazione rendono ancor più incomprensibile la sua tentazione di difendere opere che, ai miei occhi, alle ‘porte della mia carne’, sanno soltanto di morte e di disperazione.

Un Dio senza la presenza del Bello è più incomprensibile di un Bello senza la presenza di un Dio”.