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Agiografie maledette II: Salomé machiavellica

Storia di cattivi “santi”, secondo Machiavelli ed Elena Bono

Un paio di settimane fa c’eravamo soffermati a considerare come talvolta la scrittura e la riscrittura della vicenda di un santo possano rinnovarsi a partire dai “cattivi”, il cui spessore ambiguo ravviva la consapevolezza della drammaticità di fondo presente in ogni storia umana vissuta appieno, ossia una storia in cui allo Spirito di Dio, il quale – creduto o non creduto, invocato o respinto – soffia insistentemente, viene lasciato un anche minimo pertugio dalla libertà degli uomini. Ecco, le agiografie assomigliano in qualche modo alle prove dell’esistenza di Dio, ma non perché lo mostrino e-sistente, bensì perché lo lasciano intravedere in-sistente e per-sistente. Nei Promessi Sposi Manzoni dedica un monumento alla Provvidenza nella figura dell’Innominato non meno che in quella di Lucia, e in quella di Fra Cristoforo non meno che in quella del cardinal Borromeo.

Abbiamo dunque accennato, con un paio di esempî, come durante la belle époque il tema agiografico del martirio di Giovanni Battista sia stato riletto nel suo rovescio, ossia nell’analisi meticolosa delle trame che portano alla morte del profeta. Il riflettore, per questo, risultava quasi tutto puntato su Salomé, su Erode e, al limite, su Erodiade. A Giovanni veniva lasciato, in Wilde, appena il tempo di qualche breve colloquio da santo invasato con la bella Salomé, la “santa Teresa che adora la Luna” – per dirla con Wilde – ma nulla perché Giovanni potesse stagliarsi nella sua statura autonoma. Gli attributi del profeta (fisici e spirituali) vengono definiti da Salomé e per Salomé. Così Wilde e (con qualche differente sfumatura) tutti i suoi contemporanei. La letteratura italiana ha però l’onore di ospitare – nel suo vastissimo sottobosco di opere “minori” (alla cui minorità non di rado, come è questo il caso, l’anonima casa editrice contribuisce con la pessima veste grafica e con un’attenzione tipografica a dir poco sciatta) – un magnifico dramma (ancora teatro, per il martirio di Giovanni) in tre atti, composto da Elena Bono. Ignota ai più, è stimatissima tra tutti i cultori di buon teatro e di buona letteratura, nonché tra chi ne apprezza le vigorose traduzioni dal latino e dal greco: le sue opere sono tradotte in inglese, francese, spagnolo, portoghese, arabo, svedese e greco. La sua versione scenica del dramma di Giovanni è incentrata, appunto, su Giovanni e non su Salomé, eppure anche nelle sue pagine il profeta non compare mai, e solo una delle sue frasi viene riportata testualmente – «aspetto il Signore» (52).

Diventa presto chiaro che La testa del Profeta di Elena Bono porta un tema ben più chiaro e radicale di quello della Salomé di Wilde: il mistero della profezia. Che cosa accade veramente quando al mondo compare un profeta: così la Bono delinea le coordinate della sua opera tra la citazione del Vangelo secondo Matteo che riporta come Gesù definì Giovanni “il più grande dei nati di donna” e quella de Il Principe di Machiavelli che sentenziava, sulla cenere ancora tiepida di Girolamo Savonarola, che «tutti i profeti armati vinsero, e i disarmati rovinarono».

Profeti gli uni e gli altri, dunque, stando allo statista fiorentino: la differenza la farebbero le armi. Naturalmente la Bono non iscrive lì, in apertura del dramma, questo rigo perché il lettore assuma ingenuamente che Giovanni “rovinò”, e che rovinò in quanto disarmato. Molto più seriamente e concretamente, la Bono suggerisce invece che il dramma del profeta si svolga sempre alla luce di due prospettive contrapposte e in massima parte irriducibili: la prospettiva di chi sceglie di (e può) vedere coi “soli” occhî della fede e quella di chi invece rifiuta di considerare nel mondo un evento che in se stesso già richiami al trascendente.

Il profeta non è alcuna delle parti antagoniste: non Giovanni contro Salomé, dunque, o Erode contro Giovanni – il profeta scuote tensioni già esistenti, le acuisce, le fa venire allo scoperto, le denuncia, ma non le genera. La bocca e la testa del profeta s’incuneano tra le ruote di meccanismi atavici del cuore umano – la superbia, l’accidia, l’avarizia, la lussuria, l’invidia, l’ira, la gola… – e sembrerebbero avere un’unica alternativa: o scardinarle – e si aprirebbe dunque uno squarcio per il trascendente e un orizzonte per gli occhî della fede – o saltare – e vincerebbero invece così gli interessi mondani.

Quello che la Bono mette in risalto è che tuttavia la realtà dell’evento profetico, preso in sé, è incomprensibile senza ammettere un’impertinenza dello Spirito, una caparbia cocciutaggine che al profeta non viene da se stesso, ma è pure surreale se non si vogliono considerare le forze politiche, scettiche e atee come qualcosa che ha profondamente a che fare col profeta stesso. Queste forze non sono solo le interlocutrici del profeta e della profezia, ma – di più – ne costituiscono in certo modo la ragion d’essere e la vita – in fin dei conti il profeta è l’amico e il “difensore” di un amante tradito.

Questa dimensione mancava totalmente in Wilde, laddove la testa del profeta cade per il desiderio di Salomé di baciarne la bocca: nel testo della Bono, invece, la testa del profeta cade al termine di un intricato intrigo di corte, in cui trovano voce i rappresentanti di tutte le forze politiche in gioco – dal vecchio sacerdote Anna, rappresentante di una casta sacrale non privo di una qualche nostalgia vagamente religiosa, al giovane legato romano Scauro, homo novus rampante, al vanesio filosofo-cortigiano Clizia, emblema dell’utopia umanistica atea. Accanto alla triade dei personaggî “classici” della vicenda di Giovanni – Erode, Salomé ed Erodiade – ruotano altri tre personaggî, che sono quelli davvero essenziali per la declinazione delle possibilità d’approccio al fenomeno profetico: c’è Cusa, asciutto e machiavellico dignitario di corte di Erode, che più volte cita beffardo i libri sapienziali, protestando però in concomitanza: «Ignoro del tutto gli scopi del cielo» (60); c’è Abba Dima, buffone savio della corte di Erode, che mescola alla sapienza di Amleto il ridicolo e il grottesco di Polonio; c’è Daniele, figlio di Cusa e capo della guarnigione reale (nonché invaghito della giovane Salomé), immagine dell’uomo strattonato dalle diverse possibilità di fronte al profeta.

Si sbaglierebbe di grosso, chi pensasse che l’intrigo politico toglie forza all’elemento erotico-seduttivo, e che questi erano invece tenuti in miglior equilibrio nella tragedia di Wilde: è vero semmai il contrario, perché la sensibilità profondamente femminile della Bono riesce non solo a restituire delle dinamiche muliebri (in ispecie quelle del tormentato monologo interiore di Erodiade e l’evoluzione del rapporto madre-figlia) un’immagine così viva da farne un autentico cardine del dramma, ma pure ad illustrare la contaminazione elementare col machiavellismo che la femminilità deve contrarre per farsi seduttiva. Erodiade è la donna in cui da decennî la bellezza e il potere sono mutuamente finalizzate: è bella (e seduce) per essere potente, ed è sempre più potente per sentirsi sempre più bella. Si può osservare che da questa contaminazione nasce il disordine fatale del dramma, perché la bellezza – ripudiata come segno del trascendente e luogo da abitare devotamente – è fuori posto tanto come fine quanto come mezzo: si apre allora l’immensa voragine della domanda per sé (in origine, il desiderio di essere amati e di amare), la quale tenta di colmarsi col palliativo del potere. Sennonché il potere, anch’esso, non è un fine, ma semmai un mezzo relativo – e relativo al bene, non alla perversione egolatrica della bellezza.

La Salomé della Bono è poi, a ben guardare, mille volte più decadente di quella di Wilde e di Apollinaire, in quanto la forza del suo personaggio non sta nella giarrettiera, nelle allusioni incestuose, o in una qualche forma di lascivia: tutto al contrario – Cusa spinge Salomé a ballare per Erode, a insaputa di Erodiade, per chiedere e ottenere lei la testa di Giovanni (cui Cusa aveva peraltro aperto le porte della prigione, ma “invano”), e così bruciare alla “vecchia cammella” la leva di una complessa prova di forza con la quale lei avrebbe voluto comprare la nullità del precedente matrimonio e il trono di Erode. Salomé non deve ballare “la danza del serpente”, come le più procaci tra le ballerine di corte, ma la più modesta “morte del cigno”, appresa da bambina alla scuola di danza: «Sei proprio una bambina, nonostante tutto – le spiega Cusa –: perché non capisci la forza enorme che ha l’innocenza; enorme; e sei impaziente di perdere ciò che rimpiangerai. Vedi: è nei brevi istanti che essa ti concede che tu… così gracile… così poca cosa… puoi impadronirti del mondo… […] Solo queste roselline di siepe possono commuovere col loro alito lieve, uomini nauseati dai più forti profumi. […] È  la morte della tua innocenza che devi danzare» (92-93).

E Salomé impara la lezione, istantaneamente, restando fino alla fine del dramma simultaneamente oltre e dietro il confine dell’innocenza, quasi rapita nell’estasi oscura del potere che si presta per un brevissimo lungo istante a quanti gli prostituiscono il cuore. Erode piange per qualche minuto il sangue innocente di Giovanni, riconoscendo che «era tutto quello che non potevo comprare né piegare… ma Dio m’è testimone – parla Erode! – che mentre m’accanivo a strappargli un “sì” che me lo facesse complice… dentro di me… io dentro di me gridavo: – Resisti anche per me, Giovanni! A chi potrò credere io… a cosa appoggiarmi se anche questa roccia finisce in fango? Era tutto quello che in qualche tempo… in qualche luogo ho sognato d’essere, forse…» (103).

Alla Bono, infine, non interessa indugiare sui dettaglî lubrici o truculenti (il terzo atto salta a piè pari la scena del ballo e quella dell’esecuzione), e neppure la scena si chiude sulla decadente Salomé, sulla disperante Erodiade, sull’ormai corrotto Erode – le ultime battute devono riportare al centro dell’attenzione la testa del profeta, il suo senso e il suo significato. Erodiade l’aveva forsennatamente frustata – «A te! Alla tua profezia! Al tuo Dio! Al tuo Dio! Al tuo Dio!…» (96) – e Daniele resta profondamente sconvolto da quella che pare l’indifferenza di Dio per il suo profeta. “Aspettare il Signore” era stato uno dei temi centrali dei dialoghi con suo padre, Cusa: il padre derideva, il figlio ribatteva, ma l’uno e l’altro parlavano di un’unica e medesima cosa – “aspettare il Signore” significherebbe attendersi unicamente e semplicemente l’intervento prodigioso di un Deus ex machina, alla maniera del teatro greco-romano. Se invece la testa del profeta sembrerebbe – come si diceva prima – avere un’unica alternativa (o convertire o cadere), accade invece misteriosamente un’altra cosa: la testa del profeta cade e converte, come accade col carnefice nubiano (reminescenza Wildiana). «È così, Daniele – spiega Abba Dima allo sconvolto figlio di Cusa – Con tanta gente che c’è stanotte in questa casa… l’ha conosciuto solo lui il Signore che entrava…» (115).

Così la rovina storica del profeta non condanna affatto la sua profezia, né pregiudica la riuscita della sua missione. Per questo Dima e Daniele pensano al Nazareno parente di Giovanni: «Ma… a questo… può essere… non succederà come a Giovanni… Può essere, Daniele… – Quel tempo è passato che mi raccontavi le favole da bambino. Io so, adesso. E anche tu. Di’ piuttosto che si deve andare… seguire tutti i suoi passi… vedere tutti i suoi miracoli… e sapere che non ce ne sarà neppure uno per lui, neppure il più piccolo miracolo per lui, quando sarà la sua ora» (118).

Forse dunque è così che i profeti attendono il Signore.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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