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Traduzioni e ispirazione

Non semplicemente “un male necessario”: ecco come le traduzioni hanno reso il cristianesimo unico

Nelle ultime settimane ci siamo addentrati in un’attenta perlustrazione delle più recenti traduzioni italiane del testo biblico, per poi volgerci indietro nei secoli, a rintracciare il prototipo di tutte le traduzioni del testo sacro, la grande Bibbia dei Settanta, composta ad Alessandria d’Egitto verosimilmente nel III secolo a.C.

Un’ampia carrellata di nomi, di date, di esempî, che forse ha dovuto sacrificare qualche delucidazione all’esigenza della brevità, e che per questo può non essere stata seguita da tutti con uguale agevolezza. Cerchiamo allora di recuperare almeno due concetti fondamentali, da cui poi potremo ripartire per porre una questione di importanza capitale.

Non è difficile confondersi, quando si sente dire che il testo dei Settanta (che d’ora in poi indichiamo con il segno LXX) è stato composto a partire da un testo ebraico, il quale però non sembra corrispondere al testo ebraico in nostro possesso (detto “testo masoretico”, o TM) – e del resto di questa non piena corrispondenza non possiamo avere prova incontrovertibile, dal momento che quel testo ebraico, per l’appunto, non ce l’abbiamo. Ed ecco il primo punto: qual è il testo originale della Sacra Scrittura. Diciamolo chiaramente: il testo originale della Sacra Scrittura non esiste. Esistono, tuttalpiù, dei testi originali, i quali però sono in buona parte ricostruiti ipoteticamente. Si tenga presente che quando venne stesa la LXX non esisteva ancora il concetto di “canone ebraico”, che sarebbe nato praticamente insieme con quello di canone cristiano, tra I e II secolo d.C.: i libri c’erano, sì, e venivano letti e citati, ma non esisteva un elenco stabile, immutabile e universalmente riconosciuto da tutti gli ebrei (di Palestina, di Roma, di Babilonia, d’Alessandria e di altrove – la “diaspora” non è certo cominciata nel 70 d.C. come recitano i sussidiarî!). Un esempio? La Lettera di Giuda (il più ignorato – eppure è tanto importante! – dei libri del Nuovo Testamento) contiene riferimenti a letteratura apocalittica enochica, ossia a dei libri ebraici che l’autore considera testi sacri ma che non risultano ammessi né nel canone cristiano né in quello giudaico: «Ecco, il Signore è venuto con le sue miriadi di angeli per far il giudizio contro tutti, e per convincere tutti gli empi di tutte le opere di empietà che hanno commesso e di tutti gli insulti che peccatori empi hanno pronunziato contro di lui» (Gd 14-15). Che dobbiamo dire? Questi versetti sono o non sono Sacra Scrittura? E se lo sono, perché non lo sono tutte le altre parole dei libri enochici, che “Giuda” riteneva testi sacri? Il libro di Enoch non compare neanche nella LXX, e ci è giunto soltanto in una traduzione etiopica (sì, perché l’Etiopia è terra di antichissima evangelizzazione!), eppure tra il I e il II secolo dell’era cristiana non pochi mostrano di abbeverarsi alle sue pagine. Tra l’altro, il frammento citato da “Giuda” non è scritto né in etiopico né in ebraico, naturalmente, ma in greco. Che cosa ci mostra, questo? Naturalmente che non esisteva, come dicevamo prima, un canone delle Scritture sacre. Eppure c’erano le Scritture, erano ritenute sacre e come tali erano citate.

Il secondo concetto importante cui bisogna prestare la dovuta attenzione è che i più antichi testi ebraici in nostro possesso sono databili all’alto medioevo (VIII-IX secolo). Sono certamente testi molto antichi, ma se li paragoniamo ai più antichi manoscritti del Nuovo Testamento (abbiamo un’intera copia del Vangelo di Giovanni databile ai primi del II secolo, e diversi frammenti degli altri tre Vangeli canonici risalenti a diversi decennî prima) la loro antichità diventa quasi irrilevante. Come facciamo a considerare “originale” una copia del IX secolo? Il dilemma sarebbe completamente insolubile, se non fosse che tra il 1946 e il 1956 sono stati ritrovati, a Qûmran, sul Mar Morto, quasi mille testi (972) di letteratura sacra e religiosa. Il deserto ha conservato intatto questo immenso tesoro di manoscritti, risalenti quasi tutti al I e al II secolo a.C.: ebbene, abbiamo potuto osservare che in diversi punti il testo greco della LXX si mostra più vicino a questi antichissimi manoscritti che al TM, di molti secoli più recente. Permangono delle vistose differenze e, nell’impossibilità di accertare che quei rotoli fossero veramente identici a quelli usati ad Alessandria per comporre la LXX, dobbiamo rassegnarci al fatto che probabilmente la LXX non fa una semplice opera di traduzione bensì, come è stato succintamente già illustrato, un’opera di parafrasi, di interpretazione e di attualizzazione.

Sulla base di queste due precisazioni possiamo (e dobbiamo) fare una considerazione di ordine storico, dal valore teologico inestimabile: non c’è mai stato, di fatto, un momento in cui è esistito un unico testo sacro, la cui autorità dipendesse esclusivamente da una particolare esattezza della sua versione. Eppure gli antichi sapevano bene quanto fosse instabile il mezzo scrittorio della copia manoscritta, e difatti documenti come la Lettera di Aristea (di cui s’era parlato due settimane fa) o i versetti che riportano affermazioni di Gesù contro chi sposta anche solo una lettera dai rotoli della Toràh, tutto questo ci fa capire che l’attenzione degli antichi alla stabilità del testo c’era, ed era grande. Ora, com’è che nonostante tanta e tale attenzione ci troviamo di fronte a un ventaglio così vasto di versioni, tutte in qualche modo riconducibili a dei credenti che le hanno considerate tutte “testo sacro”?

Prima di costituire una domanda, per lo storico e per il teologo, queste cose offrono e impongono uno stato di fatto, che ha contribuito in misura incalcolabile a rendere il giudaismo e (ancor di più) il cristianesimo delle religioni che non sono religioni del libro (l’ebraismo lo è diventato, sì, ma solo a partire dalla distruzione del Tempio, nel 70 d.C.), pur possedendo un libro sacro. La straordinaria pluralità del testo sacro giudaico-cristiano – quella che ha fatto sì che il plurale greco “biblìa” venisse traslitterato nel plurale latino “biblia”, diventando presto in tutto il mondo un singolare – questa stessa è l’ingrediente effervescente che ha permesso ed esigito che i testi sacri venissero tradotti. Nulla di tutto questo è accaduto col Corano, i cui testi precedenti (ricostruibili – con buona pace degli imam fondamentalisti – tramite gli strumenti della critica storica) sono stati distrutti dagli immediati successori di Maometto dopo la loro preventiva armonizzazione, e difatti il Corano non può essere tradotto – per un musulmano una traduzione del Corano è semplicemente “un altro libro”, perché Dio avrebbe parlato precisamente in arabo, e non sarebbe in alcun modo lecito tradurre le sue parole pretendendo che esse restino comunque di Dio. Certo, chi ragiona così ha ben capito che tradurre significa sempre anche un po’ tradire, ma anche gli ebrei e i cristiani l’avevano capito (qui avevamo trattato questo argomento, molto tempo fa, quasi aprendo la nostra rubrica): ciò che avevano capito, inoltre – e qui sta la rivoluzione teologica –, è che Dio e la sua Parola non patiscono detrimento, nelle traduzioni.

Bisogna quindi essere quanto più possibile fedeli, nelle traduzioni; bisogna tuttavia sapere che ogni traduzione tradirà necessariamente, per quanto impercettibilmente, il testo di partenza; bisogna nondimeno ritenere saldamente che questo tradimento non tradirà la Parola di Dio, e che essa al contrario continuerà a consegnarsi agli uomini nelle traduzioni come nei “testi originali”.

Più facile a dirsi che a farsi, sembrerebbe. Forse: in effetti, come notavamo, la pluralità dei “testi ispirati” (pluralità che si dà anche in un medesimo gruppo linguistico, l’abbiamo più volte ribadito) s’è prima imposta come dato di fatto che proposta come possibilità teologica. La teologia cristiana, poi, dal momento che lo Spirito (il medesimo che aveva soffiato su tutte le Scritture e su ogni loro singola parte) non le aveva mai fatto mancare gli uomini giusti al momento giusto, ha fatto il resto.

Chi fu l’uomo giusto al momento giusto? Ma naturalmente Origene, l’uomo d’acciaio (un nomignolo che si guadagnò su ogni fronte). Benché la fama di Origene sia purtroppo legata ad alcune sue dottrine condannate come eterodosse, oppure a un metodo esegetico meramente legato allo strumento dell’allegoria, egli fu esegeta dai raffinatissimi strumenti critico-filologici: si ricordi che nell’arco di un lavoro ventennale riuscì a comporre l’Esapla, un’opera (oggi disgraziatamente perduta, in larga parte) in cui componeva sinotticamente su sei colonne affiancate le versioni bibliche di un testo ebraico, di una sua traslitterazione in caratteri greci e di quattro distinte versioni greche, a lui accessibili.

Di nuovo, questo singolare lavorio da un lato distintivo e dall’altro conservativo ci mostra che i credenti in Cristo hanno sempre cercato di “tenere sotto controllo” la pluralità dei testi in cui i loro libri sacri circolavano e, ciononostante, non hanno mai voluto omologare le divergenze: di fatto, si ammetteva che ogni redazione del testo conservasse una lezione veramente sacra perché ispirata.

In ogni pagina dell’opera di Origene brilla indiscusso il primato della Scrittura, eppure essa non diventa mai l’istanza assoluta del giudizio della fede: quando Giulio Africano scrisse all’amico Origene una dottissima lettera per confrontarsi con lui sulle sue osservazioni in merito ad alcuni passi del libro di Daniele – in breve, Giulio Africano pensava che la storia “della casta Susanna” fosse un’aggiunta greca all’originale ebraico, dal momento che nel testo ebraico non se ne trova traccia – l’Alessandrino, che rispondeva però da Nicomedia (intorno al 240), dispiegò la maestà della propria erudizione in difesa dell’ispirazione e della canonicità del testo. Il passaggio cardinale della lettera di Origene sta nel fatto che senza vera Scrittura non c’è vera Chiesa, e quindi quella detenuta da una vera Chiesa è la vera Scrittura, quale che sia.

Scrive, tra l’altro, Origene all’amico Giulio: «In tutto il libro di Giobbe si dànno diversi passaggî, nell’ebraico, che mancano nelle nostre copie – normalmente quattro o tre versetti, ma talvolta, del resto, anche quattordici, diciannove e sedici –, ma perché dovrei enumerare tutte le ricorrenze che ho già raccolto con così tanto lavoro, per provare che la differenza tra le nostre copie e quelle dei Giudei non mi è scappata? In Geremia ho segnalato diverse ricorrenze, e davvero in quel libro ho trovato non poche trasposizioni e variazioni nella lettura delle profezie. […] In realtà, quando ci dilunghiamo in siffatte osservazioni, siamo ben lungi dal rigettare come spurie le copie [ἀντίγραφα] in uso nelle nostre Chiese (spronando così i nostri fratelli a mettere via i libri sacri ricorrenti tra di loro); teniamo però in conto i Giudei e li preghiamo di darci copie pure e scevre di contraffazioni. O vogliamo immaginare che quella sacra Provvidenza, che nelle sacre Scritture è stata amministrata per l’edificazione di tutte le Chiese di Cristo, non abbia pensato a questi, comprati a prezzo della morte di Cristo?» (Origene, Ad Africanum Epistula, 4).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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