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Concilio Vaticano II: il rebus dell’inizio

Un mistero che lo Spirito ha segregato nel cuore del “Papa Buono”

Come è noto, l’11 ottobre 2011 Benedetto XVI ha emanato, in forma di motu proprio, la lettera apostolica Porta fidei, con la quale s’indice l’“anno della fede” che ha avuto «inizio l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il 24 novembre 2013» (PF 4). Insieme con questa chiara nota sull’anniversario giubilare dell’ultimo concilio ecumenico, Benedetto XVI ha inteso ricordare che nella medesima data ricorreranno anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, definito “autentico frutto del Concilio Vaticano II”: esso era stato «auspicato dal Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985 come strumento al servizio della catechesi e venne realizzato mediante la collaborazione di tutto l’Episcopato della Chiesa cattolica» (ivi). Frutto del Concilio, dunque, nei contenuti e nel metodo, nella sostanza e nella forma.

L’anno della fede è stato indetto, poi, sulla traccia di quello del 1967, voluto da Paolo VI – il “timoniere del Concilio” – il quale lo vide come una «conseguenza ed esigenza postconciliare», e volle celebrarlo rifacendosi alla ricorrenza del diciannovesimo centenario dei martirî di Pietro e Paolo. Dietro le dichiarazioni smaglianti, tuttavia, si celano le forti tensioni di cui un concilio è, nella storia, non effetto, ma senz’altro sintomo e a sua volta causa.

Ci siamo già chiesti, sulle nostre pagine, che cosa sia stato e che cosa abbia comportato il Concilio. Il Concilio Vaticano II rappresenta un caso molto singolare, nella storia della Chiesa, non soltanto per alcune (rimarchevoli) novità formali, ma anche perché, a dispetto della massima prossimità cronologica, dell’inusitato risalto mediatico e dell’inedita mole di fonti, la questione della sua genesi è avvolta in un mistero, che le diverse storiografie (invano?) si contendono. Fu, il Concilio Vaticano II, un’improvvisa ed inattesa ispirazione di Giovanni XXIII, oppure – come taluni hanno sospettato e scritto – esso era stato addirittura richiesto, da alcuni cardinali elettori del Roncalli, quale conclusione ufficiale del Concilio Vaticano I (lasciato in sospeso a causa della presa di Roma da parte degli Italiani e poi non più ripreso, tra la temperie modernista, gli sforzi della Conciliazione, le angosce della prima e della seconda guerra mondiale)?

Certo, bisogna ammettere che i dati sono in parte oscurati e confusi direttamente alla fonte: che valore bisogna dare, ad esempio, al fatto che – mentre la stampa di tutto il mondo reagiva variamente alla notizia – L’Osservatore Romano non riportò una riga del discorso del 25 gennaio 1959 ai Cardinali? Bisogna intendere che l’ambiente curiale fu compattamente avverso all’iniziativa del “Papa di transizione”? Ma allora che valore bisogna dare all’impressione espressa dal Pontefice, secondo la quale i cardinali avrebbero accolto «in commosso silenzio» il pronunciamento papale? Ironia o ingenuità, in quella frase? Se si opta per l’ironia, ovvero per la linea del “papa capobranco” che conosce i suoi polli e sa come restare a guida del gruppo, come bisogna valutare il fatto che la commissione ante-preparatoria del Concilio fu composta esclusivamente di cardinali curiali e italiani, e che fu posta sotto la direzione del Segretario di Stato, con l’aiuto del segretario Pericle Felici? Se invece si opta per l’ingenuità, ossia per il facilior canovaccio da fiction della pecorella smarrita tra un branco di cinici lupi, come giustificare la disinvoltura con cui il Bergamasco operò più volte colpi di mano “contro” gli organi essenzialmente curiali da lui costituiti?

Si può raccontare qui un aneddoto, il cui racconto chi scrive ha avuto la fortuna e il privilegio di raccogliere in via orale: un’informazione “di terza mano”, sì, ma è difficile avere fonti più dirette per notizie provenienti dall’appartamento pontificio del Palazzo Apostolico vaticano (risalenti, per giunta, a cinquant’anni fa). Più di cinquant’anni fa, per l’esattezza, perché correva l’anno 1958, e Roncalli era diventato Papa da neanche due mesi, quando arrivò il primo Natale del suo pontificato. Una di quelle mattine di dicembre, monsignor Domenico Tardini – che era stato fatto Segretario di Stato da colui che, da Nunzio Apostolico a Parigi, subiva le sue rampogne sull’essenzialità del portamento diplomatico, e che il 15 del mese aveva o avrebbe ricevuto dall’ex-Nunzio (Roncalli, appunto) la porpora cardinalizia! – si recò a rapporto dal Santo Padre, come del resto avveniva (e avviene, mutatis personis) ogni mattina. In coda alla rassegna stampa, il Segretario di Stato lasciò «una cosa divertente, una boutade di qualche agenzia di stampa», quasi per regalare un sorriso al Papa all’inizio della giornata: «Il Patriarca scismatico di Costantinopoli, Bartolomeo, avrebbe ringraziato pubblicamente per un augurio natalizio indirizzatogli dalla Vostra Santità, addirittura dichiarando: “Venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni”». Tardini accompagnò la notizia con un risolino, cui però non si accompagnò il Papa, freddo e calmo: «Ebbene?». Tardini sbiancò: «Ma… ma Vostra Santità non gli ha mandato alcun messaggio, non può averlo fatto…». «E lo sa lei?», fu la risposta di Giovanni XXIII. Il povero Segretario di Stato stava per esalare l’anima: «Ma… Santità… mi scusi… come ha fatto?». «Ma che domande fa, Monsignore? Ho preso carta e penna e gli ho scritto una lettera: poi durante la passeggiata nel giardino l’ho imbucata in una cassetta, come voleva che facessi?». Silenzio imbarazzatissimo di Tardini. Il Papa riprese: «Che vuol dire? Non posso scrivere a chi mi pare?». «Vostra Santità può certamente scrivere quando vuole e a chi vuole, ma per queste cose c’è la Segreteria di Stato, per evitare che la Santità Vostra si affatichi…».

Insomma, anche solo il quadretto di questo aneddoto mostra che a Giovanni XXIII non si addice né lo stereotipo del sempliciotto né quello dello squalo di Curia: il suo stile era profondamente personale e, in qualche misura, inimitabile, indefinibile.

Di questo passo, e nella solita superba ignoranza delle fonti, si procede rapidamente nella costruzione di una grottesca trama di intrighi e curialismi, in cui Giovanni XXIII diventa “il Papa dell’aggiornamento”, mentre la Curia (capitanata dal povero Alfredo Ottaviani, cui certa storiografia da operetta affibbia il brutto ruolo del cattivo) si preoccupa essenzialmente di conservare un ottuso status quo. “Aggiornamento” era effettivamente la parola-chiave del Concilio, nella mens del Papa che lo indisse, ma il termine fu ed è strattonato da una parte all’altra come la barra del timone su una barca di ammutinati. Alla morte di Giovanni XXIII, Marie-Dominique Chenu ha con buon equilibrio osservato che «aggiornamento non significa solo qualche modifica di parole in un linguaggio stereotipato […]; indica invece la sostanza permanente e autentica della fede [corsivo nostro, n.d.r.], un’interiore invenzione di concetti, di categorie, di simboli, che siano omogenei alla mentalità, alla cultura, alla lingua, all’estetica degli uomini di oggi» (Un pontificat entré dans l’histoire, 1963).

Per questo motivo Giovanni XXIII ebbe l’ardire di interpellare l’episcopato mondiale prima di costituire degli schemi preparatorî dei documenti conciliari, e per la medesima ispirazione ebbe pure la profetica costanza di lasciare che i Vescovi respingessero gli schemi proposti e si mettessero al lavoro. Contraddiceva, con questo provvedimento, l’autorità della Pastor Æternus del Vaticano I e le prerogative che quella costituzione riconosceva alla Cattedra Petrina? O non stava piuttosto esercitando sublimemente il magistero petrino, che è ministero sommo dell’unità della Chiesa? Il padre Roberto Tucci, osservando da vicino la pazienza con cui il Papa malato seguiva silente le commissioni, che lavoravano nella Basilica Vaticana come delle api in un’arnia, annotava: «Nella prima sessione, il Papa ha preferito non intervenire ai dibattiti per lasciare ai Padri la libertà di discussione e la possibilità di trovare la giusta via da sé; d’altra parte egli, non avendo la necessaria competenza nelle varie questioni, con qualche suo intervento avrebbe potuto creare più disturbo che aiuto; i vescovi dovevano imparare da sé e lo hanno fatto» (Archivio della Civiltà Cattolica, Carte del p. Roberto Tucci).

Un concilio si forma e si definisce nel suo autentico significato e nella sua rilevanza per la Chiesa solo nell’assimilazione dei suoi documenti, che avviene in un lasso di tempo variabilmente lungo, ma resta innegabile che la mens di chi lo convoca vi conferisca un’impressione particolare. Ebbene, alla luce di questo è senz’altro singolare che nella communis opinio (sapientemente disinformata dall’opera dei nemici della Chiesa e dalla tardezza dei suoi membri) il Concilio Vaticano II sia “il Concilio che ha tradotto la Messa nelle lingue vive”, quando invece la traduzione è stata solo una parte di un’ampia riforma liturgica, strettamente dipendente dal Concilio, sì, ma come il Catechismo e il Codice di Diritto Canonico non identificabile con esso. La Costituzione Dogmatica Sacrosanctum Concilium auspica, è vero, che alla lingua vernacola sia concessa «una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti» (SC 36 § 2), ma lo fa appena dopo aver ammonito doversi l’uso della lingua latina conservare nei riti latini (§ 1).

L’attualità delle (talvolta dolenti) problematiche legate ai postumi della riforma liturgica postconciliare è una chiarissima spia delle tensioni e dei conflitti che tuttora agitano la stagione conciliare, ma la lingua è solo il più epidermico – ossia evidente e, al contempo, superficiale – dei fattori in gioco.

Insomma, tradisce Giovanni XXIII il Papa che promulga, sempre come motu proprio, la Lettera Apostolica Summorum Pontificum? O non c’è piuttosto un sottile ma ininterrotto filo, tra questa lettera e la mens del Papa bergamasco come la si vede, ad esempio, nella sua ultima Costituzione Apostolica, del 1962, Veterum Sapientia? Occultata dalla furia iconoclasta dell’immediato postconcilio (ma Benedetto XVI se ne ricorda bene…), questa lettera chiedeva a gran voce che – «dal momento che la lingua latina è la lingua viva della Chiesa» (VS 11 § 6) – essa venisse particolarmente curata, in particolar modo nei seminarî e nelle Università pontificie (questo anche in revoca di alcune licenze concesse in materia da Pio XII). L’ultimo paragrafo è volto a confermare e a ribadire la gravità delle disposizioni della lettera: «Quanto in questa nostra Costituzione abbiamo stabilito, decretato, bandito, disposto, vogliamo e comandiamo che sia applicato e che permanga stabile, a dispetto di quanto vi si opponesse, fossero anche argomenti degni di particolare menzione» (12).

Insomma, il mistero dell’indizione del Vaticano II coincide in parte col mistero del cuore di Giovanni XXIII, che volle un concilio caratterizzato da un afflato schiettamente pastorale, ma che nell’aprirlo si propone «di riaffermare ancora una volta il Magistero Ecclesiastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi» (Gaudet Mater Ecclesia, 2); che volle che in esso i Vescovi prendessero coscienza dell’unità costitutiva dell’ordine sacro e del Corpus Mysticum, e che nell’affidare loro questa traccia parlava di sé in terza persona come del «più recente e umile Successore del Principe degli Apostoli» e del «Vicario di Cristo».

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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