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L’inferno è la dis-umanità

Per la Cassazione meglio l’aborto che nascere disabile. L’Enciclica Humanae Vitae non è d’accordo.

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Così scriveva Italo Calvino ne «Le città invisibili», per ricordare che non esiste una “città umana” ideale, perfetta, senza difetti, in quanto la “città reale” è sempre l’espressione diretta degli uomini che la abitano. La “città ideale” va perciò ricercata e costruita modificando la nostra “città reale” nel concreto di ciò che è migliorabile in essa: non «accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più». L’inferno non è l’umanità: l’inferno è la dis-umanità.

Vedo e, come cittadina italiana, non voglio prendere parte all’“inferno” della sentenza n. 16754 del 2 ottobre 2012; la Corte di Cassazione ha riconosciuto il “diritto” al risarcimento del danno per la “nascita indesiderata” di una bambina down ai genitori, ai fratelli e, per la prima volta nell’ordinamento italiano – contraddicendo due precedenti sentenze del 2004 e del 2009, alla stessa interessata.

La Cassazione si è pronunciata sul caso di una madre di Castelfranco veneto che aveva chiesto ad un medico tutti gli accertamenti necessari per escludere patologie gravi del feto. Il medico, invece di prescrivere l’amniocentesi che avrebbe permesso di scoprire la sindrome di Down, l’ha sottoposta unicamente al Tritest rivelatosi inattendibile. Secondo la sentenza della Cassazione, la responsabilità del medico non discende dall’omessa diagnosi, ma dall’aver impedito alla madre la possibilità di esercitare il suo diritto all’interruzione della gravidanza qualora fosse stata informata delle malformazioni fetali. Dal primo “diritto” negato alla madre, per estensione, consegue che siano risarciti anche: il padre del concepito, perché si trova costretto a crescere un figlio con disabilità; i fratelli del «nato malformato», perché il danno per loro consisterebbe nell’inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo dedicato necessariamente al figlio disabile, e nella diminuita possibilità di godere di un rapporto familiare caratterizzato da «serenità e distensione»; lo stesso «nato malformato», per «alleviare la sua esistenza diversamente abile» resa necessaria dall’impossibilità per la madre di abortire.

Da notare: «Alleviare la sua esistenza diversamente abile» è un’acrobazia concettuale dell’ipocrisia, tipo “maternità responsabile”. Traduzione: se la madre avesse potuto uccidere la bambina tutto sarebbe stato apposto, invece la disabilità segna inevitabilmente in senso negativo sia l’esistenza della persona con handicap sia quella dei suoi familiari. A prescindere.

La sentenza, formalmente, è “solo” il risultato dell’applicazione della legge sull’aborto della quale, infatti, condivide l’“esprit des lois”: riconoscere il risarcimento allo stesso bambino down – per una disabilità necessitata dall’impossibilita della madre ad abortire, equivale a considerare preferibile la non-vita rispetto ad un’esistenza segnata dalla disabilità.

Insomma, secondo la Cassazione, quella del disabile è un’esistenza inevitabilmente dannosa per tutti, e quindi è meglio non nascere. Questa sentenza è l’inferno, è la dis-umanità. L’abbiamo vista e non la vogliamo accettare; così, come scriveva Calvino, proviamo a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Non è inferno l’umanità. L’umanità è la stragrande maggioranza dei genitori che accudiscono con amore i loro figli disabili; dei fratelli che imparano ad amare con i genitori e, dopo la morte di questi, continuano a prendersi cura dei congiunti disabili con dedizione. L’umanità è il rilevante numero di bambini disabili che, ogni giorno, studia, si sottopone alle terapie supplementari, ha amici, voglia di crescere e realizzarsi come tutti. L’umanità è chi s’impegna – o dovrebbe impegnarsi – a «far durare e dare spazio» a queste famiglie: insegnanti qualificati, personale medico e paramedico preparato, strutture adeguate, politici impegnati, leggi giuste, un sistema culturale propositivo e positivo. L’umanità riconosce la presenza di bambini affetti da disabilità come fonte di difficoltà e di disagi di ordine medico, scolastico, lavorativo, culturale, ma non si tira indietro: i problemi di un bambino non fanno di un bambino un problema. Sono i problemi che vanno eliminati per quanto è possibile, non il bambino. C’è sicuramente un residuo di problemi che non può essere risolto ma con cui l’umanità deve riappacificarsi, accettando che non esiste un’umanità perfetta, sana, senza difetti, e che la morte di chi non è percepito perfetto non è certo l’approssimazione dell’umanità alla perfezione.

Nella dis-umanità dei pochi, splende l’umanità dei molti. La dis-umanità è solo la via più semplice, percorsa da coloro che chiamano “libertà” e “autodeterminazione” la debolezza di non saper accettare ciò che è «rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui», come ricordava Calvino.  La dis-umanità è debole e superficiale: si arrende al “conveniente” e al “semplice”.

Non arrendersi alla disumanità, accettando il rischio di difendere e promuovere sempre il vero bene dell’uomo, è da sempre compito del magistero della chiesa. Sulla sacralità della vita, innumerevoli sono i documenti della chiesa cattolica; scegliamo di affidarci all’Enciclica Humanæ Vitæ, per chiarire in cosa la sentenza della Cassazione ci pare sovvertire tutta la legge morale, non solo quella evangelica ma anche quella naturale.

Nell’Humanæ Vitæ, innanzitutto, viene ribadito che: a) «la vita umana è sacra perché fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio»; b) è inscindibile la connessione – che Dio ha voluto e l’uomo non può rompere – tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale; c) sono dichiarate vie illecite – per la regolazione della natalità nello specifico, e per la morale cattolica in assoluto – la contraccezione artificiale e chimica, la sterilizzazione diretta, e l’aborto diretto anche per ragioni terapeutiche; d) è ammessa solo la regolazione delle nascite fondata sull’osservanza dei ritmi naturali. (I, 2-6; II, 7-16)

Se quanto fin ora esposto può sembrare rigorosamente attinente alla sola legge morale evangelica, in altri passaggi si sottolinea con fermezza quanto le vie del magistero non solo non siano contrarie alla legge morale naturale ma abbiano a cuore «l’instaurazione di una civiltà veramente umana». (II, 18)

L’Enciclica, con materna cura, vuole rispondere alle domande degli uomini che, nell’epoca contemporanea, «pensano sia venuto il momento di affidare alla ragione e alla volontà dell’uomo, più che ai ritmi biologici del suo organismo, il compito di trasmettere la vita» (I, 3); inoltre, mostrare come ritenere l’uomo libero di procedere a proprio arbitrio, nel compito di trasmettere la vita, sia contrario tanto alla legge morale naturale quanto pericoloso per la stabilità dell’ordine civile. A tal riguardo, viene detto che mai si può addurre come valida giustificazione al ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione e all’aborto diretto, «la ragione che in alcuni casi bisogna scegliere quel male che sembri meno grave». Infatti, «se è lecito talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male affinché venga il bene, cioè scegliere ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di promuovere e salvaguardare beni individuali, familiari e sociali» (II, 14). Alla luce di questa verità di ragione, ci chiediamo: è corrispondente all’ordine naturale e rispettoso della dignità umana che una madre uccida un figlio, prevedendo che la sua disabilità potrebbe compromettere il benessere individuale della madre e della famiglia? Può la madre sostituirsi al figlio concepito nel decidere che una non-vita sia migliore di una vita disabile?

Ogni qual volta l’uomo, nella trasmissione della vita, pensa di essere libero di procedere a proprio arbitrio, non solo sovverte la legge morale tutta – evangelica e naturale – ma contribuisce anche al declino dell’ordine civile. Si legge nell’Enciclica: «Si rifletta sull’arma pericolosa che si verrebbe a mettere così tra le mani delle autorità pubbliche, incuranti delle esigenze morali. Chi potrà rimproverare ad un governo di applicare alla soluzione dei problemi della collettività ciò che fosse ritenuto lecito ai coniugi per la soluzione di un problema familiare? Chi impedirà ai governati di favorire e persino imporre ai loro popoli, ogni qual volta lo ritenessero necessario il metodo di contraccezione da essi giudicato più efficace? In tal modo gli uomini volendo evitare difficoltà individuali, familiari o sociali che s’incontrano nell’osservanza della legge divina, arriverebbero a lasciare in balia dell’intervento delle autorità pubbliche il settore più personale e più riservato dell’intimità coniugale» (II, 17). A ben guardare, infatti, cos’altro è la sentenza che conclude sia meglio non nascere che essere disabile, se non una delle estreme conseguenze della legge sull’aborto, cioè di una legge che riconosce all’uomo di poter disporre a proprio arbitrio della possibilità di generare la vita? Se non si riconoscono limiti alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni, chi potrà più limitare la possibilità dell’uomo di disporre a proprio arbitrio della vita umana altrui, dal concepimento alla morte?

L’Enciclica si chiude esprimendo la consapevolezza che «la dottrina della chiesa apparirà a molti difficile o addirittura di impossibile attuazione, perché essa richiede impegno e molti sforzi individuali, familiari e sociali, anzi non è attuabile senza l’aiuto di Dio, ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana» (III, 20).

Non abituiamoci alla dis-umanità, fino a prenderne parte e a non riconoscerla più. Con fede e ragione, impegno personale e sforzo collettivo, cerchiamo “chi” e “cosa” promuove l’umanità, «facciamolo durare e diamogli spazio».

 

 

 

 

1 Comment on L’inferno è la dis-umanità

  1. Il linguaggio già rappresenta il nostro modo di vedere la società ed il mondo, anzi, fa parte della costruzione dell’inferno, della dis-umanità…

    C’è una gravidanza di cui parla tutto il mondo – “il bambino reale” del principe William e della principessa Kate. Anche se il bambino ha solo 12 settimane tutti giornali e giornalisti lo chiamano “bambino” quando allo stesso tempo milioni di donne abortiscono “il feto”. Perché questa differenza? Solo perché il primo è voluto dai genitori e l’altro no?

    Certamente meglio usare il termine “feto”, perché “abortire il bambino” avrebbe già suggerito un…

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