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Educazione sentimentale (I)

Lettura guidata a «I quattro amori» di C.S. Lewis. Affetto, Amicizia, Eros, Carità.

L’animo umano – nella sua unità – è un meccanismo di alta precisione, ma i sentimenti non sono in sé e per sé ingranaggi perfetti. “Provo qualcosa per te!” -“E’ un sentimento cui non so dare un nome” possono essere trappole nel cuore, tanto quanto “Sono sicuro, è amore!”-“Saremo amici per sempre!”. Se non ci soddisfa l’in-fondatezza delle prime affermazioni, spesso è destinata a deludere la certezza auto-fondata delle seconde. Gli affetti umani, lo sperimentiamo, non sono sempre uguali a se stessi: a volte cessano di essere gli affetti che erano e si trasformano in affetti diversi; altre volte, lasciati in balia di se stessi, possono perfino cessare di essere affetti – diventando letali per l’animo umano del quale dovrebbero essere, invece, nutrimento e nutriente. Quando si provano degli affetti, c’è solo una cosa da sperare: «Che i nostri affetti non uccidano noi, né muoiano essi» (citato in prefazione a Clive Staples Lewis, I quattro amori, Jaca Book, 2011).

E’ possibile decifrare bene l’animo umano, per non restare intrappolati in certi ingorghi del cuore? C.S. Lewis ci è riuscito, in un modo tutto suo, nel saggio The Four Loves – scritto nel 1960 e giunto in inglese alla ventesima ristampa. Pubblicato in Italia per la prima volta nel maggio del 1982, dopo la seconda edizione del 1990, è stato ristampato da Jaca Book nel giugno 2011.

I quattro amori che l’Autore distingue nell’animo umano – con un approccio rigoroso, più che lirico – sono l’affetto, l’amicizia, l’eros e la carità. Il metodo analitico adottato da Lewis ci sembra sintetizzabile in tre punti. Per prima cosa, considera i «quattro amori» da un punto di vista sincronico e diacronico: indica ciò che necessariamente e sostanzialmente differenzia i singoli affetti, ma senza dimenticare l’osmosi che questi esercitano l’uno sull’altro, le loro evoluzioni o degenerazioni, fino ad individuare quell’unità che li sostiene e sola rende l’animo umano un meccanismo di alta precisione. Lewis, poi, raccomanda a se stesso e al lettore di non lasciarsi mai sfuggire giudizi morali, o di valore, avventati: «La mente umana, si sa, è in genere molto più incline a lodare, e a criticare, che non a descrivere o definire; essa mira a fare di ogni distinzione una discriminazione in termini di valore» (p.20). Questo atteggiamento diffuso è da evitare perché semplifica e mistifica la complessità del reale. Infine, da questa volontà di aderire alla realtà, l’Autore fa conseguire la scelta di iniziare l’analisi da ciò che sta più in basso, perché «ciò che è in alto – ­dice l’Imitazione– non si regge senza ciò che sta in basso» (p.13).

A tale metodo di analisi, così articolato, Lewis ci arrivò dopo aver sperimentato su se stesso quanto sia inadeguato semplificare se si parla dell’animo umano. Quando provò a scrivere per la prima volta un libro sull’amore – rivela nel Capitolo Primo del libro –, la via maestra da seguire era sembrata facile e già ben tracciata: se «Dio è amore», gli affetti umani dovrebbero meritare di essere definiti tali solo nella misura in cui essi riproducano l’amore divino, che può essere solo dono perché «Egli non manca di nulla». Da questo assunto, la prima distinzione da farsi, pensò Lewis, parrebbe essere quella tra «amore dono» e «amore bisogno»: «l’amore bisogno» verso una donna dice “Non posso vivere senza di lei”; «l’amore dono» desidera ardentemente renderla felice, darle conforto, protezione – se possibile, farla vivere negli agi (p.24). Tra queste due forme di amore, sembrerebbe facile scegliere quale somigli di più al modo di amare di Colui che è l’Amore stesso e, quindi, meriti a tutti gli effetti la qualifica di vero amore. Per un cristiano scrivere un libro sull’amore, in fondo, dovrebbe essere cosa facile: basta fare un panegirico dell’«amore dono», insieme ad una critica degli aspetti negativi dell’«amore bisogno».

È veramente così semplice? Secondo Lewis, no. Egli stesso, ci dice, aveva presto verificato come dal suddetto modo di ragionare emergessero una serie di interrogativi e contraddizioni rivelativi di come la realtà sia molto più complessa di una categorizzazione che distingua tra «amore dono» e «amore bisogno», e poi deduca che il primo sia migliore del secondo perché più simile al modo di amare di Dio.

A ben guardare, infatti, è ingiusto negare all’«amore bisogno» la qualifica di amore perché tutto il nostro essere si risolve, in realtà e per sua stessa natura, in un unico ed enorme bisogno di altro da noi. Sta scritto «Non è bene che l’uomo sia solo» proprio perché il nostro bisogno degli altri è costitutivo e reale: l’uomo, ciascun uomo, è bisogno fisico, emotivo, intellettuale degli altri. Il nostro amore è meschino e mediocre se si risolve esclusivamente in un desiderio di ricevere, peggio possedere, ma nella nostra esperienza quotidiana non chiamiamo certo egoista il bambino quando si rifugia nelle braccia della madre per essere consolato, o l’adulto che cerca la compagnia di un amico per non sentirsi solo; anzi, siamo propensi a considerare come freddo egoista proprio chi ci sembra privo dell’«amore bisogno», e chi ostenta la convinzione, ingannevole, che sia un bene per noi stare da soli.

Ulteriore e suprema prova di quanto la nostra natura sia «figlia dell’indigenza», e il bisogno d’amore non sia un male, ci viene dal constatare quanto l’amore che ogni cristiano provi per Dio sia per buona parte, se non principalmente, proprio un «amore bisogno». Dio stesso vuole che sia così, e si rivolge al nostro «amore bisogno» quando dice: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi». Questo non vuol dire che l’uomo possa o debba provare per Dio solo un «amore bisogno», ma «solo uno sciocco o sfrontato avrebbe l’ardire di presentarsi davanti al suo creatore con questa pretesa: “Io non vengo qui a mendicare; ti amo disinteressatamente”» (p.13).

In base a quest’analisi tutta fenomenologica dell’amore, appare chiaro –secondo Lewis– come sia insufficiente e ingannevole l’approccio di chi, volendo parlare o scrivere sull’amore, fosse portato a squalificare l’«amore bisogno» come non amore: l’uomo è strutturalmente, per natura, bisognoso dell’Altro e degli altri. Ancora più pericolosa e ingannevole è per Lewis, però, la convinzione che l’«amore bisogno» sia da squalificare perché risiederebbe esclusivamente nella capacità di «amore dono» la nostra somiglianza con Dio.

È vero, dice Lewis, «le creature sono fatte in vario grado ad immagine di Dio senza collaborazione né consenso da parte loro; ma non è così che esse diventano figlie di Dio». Dobbiamo distinguere tra una «vicinanza per somiglianza» e una «vicinanza per accostamento». Quando siamo capaci di «amore dono», sicuramente mostriamo di avere dei doni che costituiscono, nel momento in cui si manifestano nella vita dell’uomo, dei fattori di somiglianza e quindi di vicinanza a Dio. «Non per questo, però, noi siamo autorizzati ad affermare che il solo possesso di questi doni favorisca automaticamente la nostra santificazione: non esistono ricchezze sufficienti ad assicurarci il lasciapassare per il regno dei cieli». La «vicinanza per somiglianza» non genera per virtù la «vicinanza per accostamento», cioè quel progressivo avvicinamento che, per quanto sostenuto dalla grazia, è nostro compito realizzare in vita (pp.14-16).

Ad esempio – tra l’«amore bisogno» che ci fa dire “Non posso vivere senza di te” e l’«amore dono» “Farò di tutto per farti felice”– saremmo portati a dire che l’«amore dono» è migliore perché è quello più simile al modo di amare di Dio. In realtà, è vero che l’«amore dono» esprime la nostra «vicinanza per somiglianza» a Dio ma non è detto che sia la via esclusiva e preferenziale per realizzare un’autentica «vicinanza per accostamento» a Lui. Infatti, secondo Lewis, sia l’«amore dono» sia l’«amore bisogno» sono esposti alla stessa possibilità di degenerazione, che è ciò che ci allontana veramente da Dio. La degenerazione consegue dal fatto che ciascun affetto umano, al suo apice, tende a rivendicare un’autorità divina, e a pretendere la venerazione dovuta unicamente a Dio; tutti gli affetti, quando diventano sregolati, cessano di essere affetti: si trasformano in demoni, finendo per distruggere noi stessi e la nostra possibilità di avvicinamento Dio.

Se tutti gli affetti umani sono esposti a questo rischio, a ben vedere, l’«amore dono» lo è anche più dell’«amore bisogno»: proprio perché più vicino a Dio, in quanto a somiglianza, l’«amore dono» è quello che rischia maggiormente di ergersi alla statura degli dèi per degenerare in quella di idoli. I nostri «amore bisogno» potranno, sì, essere avidi, egoisti, e anticamera di molti vizi; tuttavia, è più probabile che sia proprio una “madre e sposa devota” a rischiare di far diventare il proprio “vivere per la famiglia” l’oggetto di un’incondizionata devozione che è dovuta solo a Dio: «una passione autentica e sinceramente disposta al sacrificio parlerà dentro di noi con una voce che ci sarà facile scambiare per quella di Dio; non così un frivolo appetito dei sensi, o una passione brutale» (p.16).

Tutti gli affetti umani –sia l’«amore bisogno» che l’«amore dono» – possono essere immagini dell’amore divino, perché entrambi derivano dalla nostra somiglianza con Dio; tuttavia, se per un verso essi possono favorire, per l’altro possono ugualmente impedire il nostro progressivo e volontario avvicinamento a Dio, che non è altro che la nostra imitazione di Cristo su questa terra: il Cristo del Calvario («amore dono») e il Cristo dell’Incarnazione («amore bisogno»).

«Dio è amore» ma bisogna vigilare affinché questa verità non si trasformi nell’affermazione opposta, che l’amore umano –anche il più spitituale, oblativo e casto – sia il nostro Dio.

Perché, e come, gli affetti umani possono trasformarsi in dèì e demoni? È possibile evitarlo? A questo cercheremo di rispondere nella seconda parte, continuando la lettura de I quattro amori.

(continua…)

 

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