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Una moderna chiacchierata pasquale – II

Dopo una decina di giorni, sul finire dell’Ottava di Pasqua del 1444, fra’ Domenico cercò frate Angelico per sfogare i dubbî che da un affresco gli si erano instillati dentro. Giuda è un santo?

– Dopo pranzo avete da fare, mastro Angelico?

– Sentite, non voglio questionare oltre sul nomignolo che mi date, ed accolgo l’affetto con cui me lo affibbiate, ma davvero tengo più al titolo di fratello che a quello di maestro, che pure il Signore ci ha messo in guardia dall’accaparrarci. Del pomeriggio, vi dirò, a dire il vero avrei intenzione di riposare un po’ gli occhî: il lavoro della mattinata me li ha affaticati. Oh, ma non è nulla che non possa rimandare per un buon motivo. Avete bisogno di qualcosa?

– Di nient’altro che di scambiare due parole con voi, se volete usarmene la carità.

– Il piacere, vorrete dire. Ma siamo nell’ottava di Pasqua, è ben lecito togliere qualche tempo al lavoro per concederlo a un’onesta distensione. Di che volete dunque parlarmi?

– Ecco, a dire il vero vorrei riprendere quell’interessante discussione che cominciammo una decina di giorni fa, poco prima di Pasqua. Vi ricordate quando passai a trovarvi mentre lavoravate nella cella 35?

– Me ne ricordo bene, fra’ Domenico, ma questo annuncia la ritrattazione del piacere che ormai mi ripromettevo, se intendete tornare lì dentro a parlare.

– No, non è davvero necessario tornare lì: è di un particolare di quell’affresco che vorrei parlarvi, ma possiamo farlo anche passeggiando nel chiostro, se preferite distendere il vostro sguardo nella luce della primavera.

– Come preferite, ma potremo certo decidere meglio se mi dite qual è dunque il particolare cui vi riferite: se volete pormi dei quesiti di tecnica pittorica sarà probabilmente meglio farlo davanti all’affresco.

– Oh, non oserei fare la minima osservazione sulla vostra arte, frate Angelico: vi sarei certamente ancor meno utile di quanto ad Apelle lo fu il ciabattino che si piccava di offrirgli i suoi pareri! In realtà vorrei riprendere un argomento che voi stesso introduceste, nell’ultima occasione che avemmo di parlarne: Giuda e la sua aureola nera.

– A me pare di ricordare che foste voi ad indugiare sull’argomento, e difatti lo notai: io, da parte mia vi avevo solo chiesto il nero per la sua aureola.

– Avete ragione, frate Angelico, ed in realtà da quel momento sono precipitati su di me pensieri che mi turbano l’anima e mi confondono: cerco in voi al contempo l’amico, il sacerdote e il dottore. Non ho potuto fare a meno di notare come nulla, assolutamente nulla, nella fisionomia del traditore, lo distingua dagli altri apostoli, se non unicamente quell’aureola. Egli sta attendendo di fare la santa Comunione con sembiante di perfetta pietà, addirittura in ginocchio, e per giunta vicino a uno dei due che l’osservatore potrebbe prendere per il Principe degli Apostoli!

– Ebbene?

– Ebbene?! Proprio in quei giorni rileggevo il racconto che il Santo Vangelo fa di quella cena suprema: l’evangelista dall’occhio d’aquila, Giovanni, quello che dal cuore del Signore certamente riusciva a piombare l’occhio al fondo dei cuori degli altri commensali, proprio lui ci dà la certezza che il demonio non prese possesso del traditore se non con quel boccone.

– Che dite mai? Quando ce ne darebbe notizia?

– Ma proprio prima della beata passione del Signore, non ricordate? Laddove dice: «E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui». E aggiunge pure, come se non bastasse, che «Gesù gli disse allora: “Quello che devi fare fallo al più presto”» [Gv 13,27]. Dapprima egli afferma che fu quasi un gesto del Signore ad aprire in Giuda il varco perché il tentatore sanguinario potesse entrarvi e spadroneggiare a suo piacimento; in seguito, come se il gesto non fosse di per sé stato eloquente, fu il Signore stesso a comandargli di fare presto ciò che egli doveva fare.

– Proseguite.

– Ecco, arriviamo alla vostra aureola: spero di non sembrarvi troppo audace – in fin dei conti l’altra volta foste voi a farvi alfiere di dottrine inusitate – ma volevo chiedervi se col vostro rappresentare Giuda prima della santa Comunione, devotamente raccolto al pari degli altri apostoli eppure già marchiato col tristo fuoco dell’aureola nera, non intendeste per caso affermare che egli è in buona sostanza innocente del suo tradimento, quasi come se stesse eseguendo una parte del piano di Dio, per di più su suo esplicito comando…

– Oh, caro frate Domenico, in realtà voi mi confermate che il bel fervore religioso col quale prendeste il nostro sacro abito non è mutato in voi col passare degli anni, e di questo mi rallegro; d’altro canto mi stupisco non poco di quanto una suggestione e il cadenzato martellare di un pensiero ricorrente possano sbalzare la lamina della mente fino a far apparire da un lato tutto il contrario di quello che viene impresso dall’altro. E la colpa è in buona parte, mi confermate anche in quest’opinione, delle cattive traduzioni del testo sacro che sempre più girano. Bisognerebbe fare qualcosa per controllarle meglio, ma senza arrivare a proibirle, ché non si sortirebbe se non l’effetto contrario.

– Ma di che parlate, in nome del Cielo?!

– È presto detto, caro amico: da come avete citato il testo dell’Evangelo mi pare evidente che voi ne teniate a mente una versione volgare, e non quella impreziosita dall’elegante latino di san Girolamo.

– Sì, non avete torto, ma da che ve ne siete accorto?

– Proprio dalla fine della vostra citazione: il testo latino non accenna affatto a una necessità che costringerebbe Giuda a fare alcunché, e neanche il greco. L’originale recita l’equivalente di questo: «Allora Gesù gli disse: “Quello che fai, fallo presto”», e la versione latina è il calco fedele dell’espressione. La traduzione che voi avete sotto mano, forse nella vostra cella, aggiunge quindi – del tutto gratuitamente – il verbo “dovere” al gesto di Giuda come lo indica il Redentore. Una traduzione indicibilmente insidiosa, nella sua scorrettezza, e spero che a simili traduttori venga presto strappata la penna di mano o insegnata la lingua greca.

– Questo mi confonde, frate Angelico, mi spiace molto essermi smarrito in un errore così banale; per quanto però riguarda l’altra parte del versetto…

– Oh, non scusatevi per niente, un errore, grave quanto si voglia, non basta certo a fare un eretico, se a chi sbaglia manca la caparbietà di persistere cocciutamente nell’errore! Del resto, però, l’errore in cui siete incorso è così insidioso che a moltissimi, in ogni epoca fino al presente, non è mancata e non mancherà la caparbietà che non può far di voi, che non l’avete, un eretico.

– Che dite mai!

– Oh, proprio così: già dai tempi di sant’Ireneo si dovette aver notizia, mi pare, di eretici che per motivi mai del tutto ben chiariti ritennero che nessuno abbia concorso all’economia della Redenzione quanto colui senza il quale Cristo non sarebbe stato consegnato ai giudei, e senza il quale di conseguenza egli neppure sarebbe stato crocifisso dai romani. Si chiamavano “Cainiti”, se non sbaglio, e dovettero scrivere – se la memoria mi assiste – un libretto chiamato “vangelo di Giuda”*, che mi risulta smarrito da secoli, nel quale la salvezza del mondo parrebbe dipendere tutta dal traditore. Iddio ci scampi da una simile follia, ma tanto è forte negli uomini la sete ardente di cari inganni, quanto a una materia tanto delicata, che facilmente si potrà giungere a comporre canzoni e balletti su questo canovaccio.

– Francamente, frate Angelico, la vostra immaginazione mi sembra molto più feconda e produttiva quando si applica alla calce fresca che quando si misura con le cose degli uomini.

– Spero anch’io vivamente che la morte m’impedisca che mi si vengano a dare di simili notizie, ma non riesco a convincermi che gli uomini potranno smettere di addossare ad altri di ogni tipo e grado le responsabilità della propria infelicità. Finché ci saranno siffatti uomini capiterà sempre, credetemi, di sentire lo starnazzare di dottori e professori impegnate a dimostrare come Dio sia il massimo debitore del mondo e l’uomo, meglio se peccatore, il solo filantropo dell’universo.

– Passi pure, ma effettivamente il Vangelo dice che il demonio entrò in Giuda solo dopo quel boccone, quasi come se il Signore avesse spalancato, dalla bocca al cuore di quell’uomo, la porta al demonio.

– Affatto, il Vangelo dice tutt’altro, a leggerlo per intero. Intanto, senza andare troppo lontano dal passo che avete citato, lo stesso Giovanni aveva già detto, una manciata di frasi sopra, che durante la cena «il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo» [Gv 13,2]. Lo stesso dicono anche gli altri Evangelisti, ma la questione importante non è quando il diavolo gli abbia messo in cuore il tradimento, bensì se egli, Giuda, ne fu responsabile. Nel racconto che fanno Matteo, Marco e Luca, ad esempio, si vede benissimo che Giuda agisce già ben prima che Gesù – nella sua onniscienza divina – riveli ciò che egli sta facendo [Mt 26,14-16; Mc 14,10-11; Lc 22,3-6], e questo è della massima importanza, senza contare che il Signore stesso ci ha insegnato che il male non entra dalla bocca al cuore, semmai per la bocca esce dal cuore.

– Eppure il Redentore dice a riguardo del traditore una delle frasi più orribili contenute nel Vangelo!

– Sì, «sarebbe stato meglio per quell’uomo se non fosse mai nato» [Mt 26,24]. Ma proprio questa frase possiamo stare sicuri: Dio non è ingiusto, e se dice di un uomo una cosa così orribile è evidente che non la desidera e non la causa.

– Non so, è vero che mi state sciogliendo molti dubbî, e che mi vergogno un po’ di rivolgervi queste domande da novizio: sono rimasto inviluppato da pensieri aberranti, ma tanto superficiali quanto tenaci, e ce n’è ancora qualcuno che non mi avete sciolto.

– Che cosa dunque? Dite pure, e se posso vi aiuterò con tutto il cuore: voi, del resto, non fareste di meno per me, se un giorno dei dubbî simili affiorassero alla superficie della mia anima.

– Ecco, frate Angelico: il Cristo ha detto che quel calice che in quella notte veniva offerto sulla mensa, lo stesso che il giorno dopo sarebbe stato versato dalla santa croce, quel calice insomma veniva offerto per la salvezza di molti uomini – quindi non di tutti – ma certamente di tutti i presenti alla cena. Come si spiega, dunque, che Giuda poi fu perduto? Oppure dobbiamo ritenere che il cibo che egli mangiò non era il sacramento della salvezza? E se le cose stanno così, con tanta più forza torno a chiedervi ragione del vostro affresco: perché Giuda stava lì in ginocchio, forse perfino accanto a Pietro, se poi non mangiò del convito celeste? E se ne mangiò, come poi poté non salvarsi, mentre Cristo disse che il suo sangue veniva versato «per loro e per molti» [cf. Lc 22,19-20]

– Oh, sì che ne mangiò, ma probabilmente ricorderete come questo difficile argomento sia stato affrontato in varî modi dai santi dottori che hanno illustrato la dottrina di Cristo. Intanto non sentitevi in colpa per il non aver capito questioni così sottili: è vero che le abbiamo studiate entrambi ai corsi di teologia, ma il grande Agostino raccomandava caldamente ai monaci di Adrumeto di non abbassare mai la guardia, su argomenti così delicati, perché in essi è sempre facilissimo deviare a destra o a sinistra.

– Ma non c’era qualche santo dottore, mi pare sant’Ilario, che scrisse non aver Giuda preso parte al banchetto della salvezza, o altrimenti si sarebbe salvato?

– È vero, sant’Ilario scrisse qualcosa del genere, ma la sua opinione non è stata accolta dagli altri grandi dottori, come Dionigi, Girolamo ed Agostino, e il nostro Tommaso ci ha insistentemente ricordato che il consenso non fa la verità… nondimeno spesso lo splendore della verità si riconosce dal consenso che crea tra molti uomini buoni, dotti e pii. Sant’Agostino aveva insistito nel ricordare che è sbagliato leggere nel versetto di Giovanni sul boccone intinto per Giuda un’allusione alla sua santa Comunione, ma non perché Giuda non abbia partecipato al banchetto di Cristo: ciò che non si deve credere è che in quel momento Cristo abbia distinto appositamente una santa Eucaristia particolare per lui.

– Potevo pensarci da solo, frate Angelico, a tornare alle pagine dell’altro grande Angelico del nostro ordine, e mi scuso di farvi perdere così il vostro tempo: voi per caso vi ricordate cosa scrisse san Tommaso a riguardo?

– Non per mia scienza particolare, sia chiaro: è piuttosto che rileggevo quelle pagine proprio mentre studiavo la composizione dell’affresco di cui stiamo parlando. Tommaso scrisse specificamente di questo argomento nelle ultime pagine della sua vita#, e in quel frangente si rifece più volte all’autorità di sant’Agostino, che non a caso veneriamo come “il dottore della Grazia”. Il grande vescovo di Ippona diceva che probabilmente quel gesto che racconta Giovanni stava solo come spia per segnalare al discepolo amato l’identità del traditore, mentre la cena – che Giovanni non racconta – doveva aver avuto già luogo. L’intinzione, poi, significa in particolare la grazia di Dio, perché per quella il pane viene reso più saporito come per questa la vita dell’uomo corona il suo bene naturale. Proprio per questa ragione, ossia per il fatto che il boccone, pur essendo una spia per Giovanni, indicasse e ricordasse il bene che Cristo ancora offriva a Giuda, la sua condanna è giusta e meritata.

– E non pensate che tutto questo possa turbare l’anima di un novizio?

– E secondo voi un soldato può essere preparato alla guerra nell’ignoranza dei principî e dei rischî dell’arte marziale? In verità, poi, voi stesso ricordate e dimostrate a entrambi che non smettiamo mai di essere novizî, e ciò è senz’altro utile a mitigare il nostro tendenzialmente smisurato amor proprio. L’immagine di Giuda, dal volto sereno ma dal cuore torbido riflesso nell’aureola, è utile a chiunque, perché chiunque può sciupare la grazia di Dio che gli è stata data, e ciò con tanto maggior danno quanto migliore era la qualità della sua chiamata.

 

 

 

 

* In effetti Ireneo parla di questi eretici, in relazione al libro (peraltro recentemente rinvenuto) citato nel dialogo (Iren., Adv. Haer. I, 30,1).

# Tommaso, Summa Theologiae p. III, q. 81 a. 2.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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