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Nuova evangelizzazione

A chi si rivolge, in che consiste, per quali ragioni è così importante

La scorsa settimana ci siamo chiesti quali fossero le «armi della conversione», cioè gli strumenti che resero tanto efficace la predicazione degli apostoli (link); abbiamo sostenuto in quella sede che in fondo quegli strumenti sono universalmente validi ed applicabili con successo in ogni tempo e in ogni luogo. Perché dunque si parla oggi – e con tanta insistenza – di una «nuova evangelizzazione»? E perché nel 2010 papa Benedetto XVI ha sentito l’esigenza di istituire persino un Pontificio Consiglio per la promozione
della nuova evangelizzazione
?

La Lettera Apostolica Ubicumque et semper, con la quale il pontefice istituiva il nuovo Consiglio, si apriva solennemente con queste parole: «La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo». La missione evangelizzatrice, voluta e comandata dal Risorto prima della sua Ascensione («Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato», Mt 28,19-20), è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, «espressione della sua stessa natura». Tale missione si è continuamente e instancabilmente rinnovata nelle forme e nelle modalità, a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici: il momento attuale sembra richiedere un nuovo sforzo di rinnovamento. Con lucidità, il pontefice additava come problema più urgente in questo nostro tempo il fenomeno del distacco dalla fede, lo stesso che lo avrebbe indotto, di lì a poco, a indire un «anno della fede» con l’obiettivo di ridare vigore ed entusiasmo a un dono del quale progressivamente molti tra quanti si definiscono cristiani si sono trovati a fruire in maniera tiepida e poco convinta (dell’anno della fede abbiamo già detto qualcosa). Le trasformazioni sociali, politiche ed economiche, i progressi della scienza e della tecnica, l’ampliarsi delle prospettive, l’incontro tra etnie e culture diverse, hanno portato importanti conseguenze anche nella dimensione religiosa della vita. A seguito di tali mutamenti, il cristianesimo da una parte ha trovato benefici e stimoli, dall’altra si è imbattuto nella necessità (nuova dopo tanti secoli) di rendere ragione del proprio messaggio, delle proprie speranze, oserei dire persino della propria esistenza, nei confronti di un mondo che sembra ruotare attorno ad altre priorità e convinzioni. E questo non solo nei confronti di quanti non conoscono la religione cristiana, ma anche – e soprattutto – nei confronti di chi la conosce e la rifiuta. La Lettera parla di «preoccupante perdita del senso del sacro», a causa della quale si giunge «persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale».

In riferimento al nostro tempo, già papa Paolo VI utilizzava un’espressione pregnante e tremenda: «scristianizzazione». Con questo termine, il lungimirante pontefice si riferiva alle «moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana», alla «gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti», agli «intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia», e a «molti altri» (Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, n. 52). Le categorie indicate dal papa rappresentano alcune delle molteplici realtà con le quali abbiamo a che fare ogni giorno. In esse credo si possa includere la maggior parte dei fedeli di oggi, in special modo quelli che vivono nel Primo Mondo, dove l’esistenza di ognuno ruota (quasi) totalmente attorno al lavoro, agli impegni, ai bisogni fisici, e poco o niente resta in fondo per le profondità dello spirito. Alla noncuranza si alterna sempre più spesso il disprezzo nei confronti nel Vangelo, che inevitabilmente costringe a rivedere le proprie priorità e a «riscrivere» la propria vita. A volte penso che il non-credere (o, se volete, il fingere-di-non-credere, perseguito a volte anche con un certo sforzo) sia la soluzione più comoda per evitare problemi, per non rischiare di dover cambiare vita, modo di pensare, modo di comportarsi e di vedere il mondo, in una parola tutto.

Sempre Paolo VI affermava la necessità di «cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre ai lontani dalla fede la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo» (n. 56). Ma fu Giovanni Paolo II a parlare per primo di «nuova evangelizzazione», ereditando le preoccupazioni che già i suoi predecessori, Paolo VI in primis, avevano manifestato. Da quanto abbiamo seppur sommariamente ricostruito, emergono in maniera abbastanza chiara alcuni concetti fondanti la nuova evangelizzazione. Innanzitutto, il fatto che essa si rivolga a persone cristiane – per così dire – «per tradizione»: persone cioè che, inserite in maniera più o meno consapevole, da bambini, nella Chiesa, ne sono venute fuori in maniera più o meno convinta, sviluppando una maggiore o minore ostilità o repulsione verso la Chiesa stessa e gli insegnamenti di cui essa si fa portavoce. Per queste persone non basta una prima evangelizzazione – che tra l’altro in qualche misura hanno già ricevuto – ma se ne rende necessaria una seconda. «Nuova evangelizzazione», dunque, nel senso di «secondo approccio alla fede», ri-proposizione di qualcosa che in certa misura è già noto, ma che richiede di essere scoperto e sperimentato con maggiore profondità, interesse e coinvolgimento. In secondo luogo, il fatto che la nuova evangelizzazione richieda, come diceva Paolo VI, «mezzi e linguaggi adeguati», rinnovati, adatti a persone che hanno avuto un primo incontro – direi – fallimentare con la fede ed hanno bisogno di ri-provare, di fare un secondo tentativo, con mezzi e strumenti diversi dai primi – che hanno fallito – ma adatti a trasmettere uno stesso, immutabile, messaggio. «Nuova evangelizzazione», dunque, nel senso di «rinnovata», nella forma, non nel contenuto, per risultare più efficace e convincente laddove nella prima qualcosa non ha funzionato. Nel documento già citato si legge a questo proposito che «solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda» (n. 34).

Con la lucidità che lo contraddistingue, Benedetto XVI, nella Lettera Apostolica, chiariva che non è possibile studiare a tavolino una sola nuova evangelizzazione, una sola strategia valida per ogni luogo e realtà: «la diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze». Lascia dunque libera l’iniziativa di tutti coloro – individui, associazioni, istituzioni – che sono coinvolti in questo sforzo evangelizzatore, pur riconoscendo che, andando al succo della questione, «ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani è un rinnovato slancio missionario». Come alla base dell’essere cristiano è l’incontro con il Risorto (lo abbiamo visto per gli apostoli – link – e lo affermava a chiare lettere il papa nell’Enciclica Deus caritas est), così alla base della nuova evangelizzazione non può esservi altro che l’esperienza di un Amore che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7) e che non può essere taciuto.

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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