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Gesù il sovversivo

Condannare a morte un innocente per salvaguardare il pubblico (privato) interesse

Nelle ultime settimane ci siamo soffermati sulla figura del sadduceo, cercando di metterne in luce i caratteri e la sua attuale sopravvivenza in ambienti più o meno sospetti (link articoli: Ritratto di un sadduceo e Una profonda ingiustizia). Sul versante storico, al ritratto che abbiamo precedentemente tracciato (link articolo: Sadduceo … chi era (è) costui?) bisogna aggiungere un aspetto affatto marginale nella fisionomia del sadduceo: la sua posizione socio-economica e il suo rapporto con il potere. Lasciamo ad altri, se vorranno, la facoltà di trovare anche su questo punto qualche somiglianza con l’attualità, e a ciascun lettore la possibilità di sfruttare queste brevi riflessioni per condurre un accurato e personale esame di coscienza.

Cominciamo col dire che, secondo l’ipotesi attualmente più seguita, il nome sadduceo deriverebbe da Sadoc, costituto sommo sacerdote ai tempi del re Salomone (cf. 1Re 2,35). Nelle visioni di Ezechiele relative al Regno messianico, i sacerdoti discendenti di Sadoc sarebbero stati gli unici ammessi nel Santuario come ministri del culto, perché, a differenza dei leviti, «si erano mantenuti fedeli alle osservanze del Tempio, quando i figli di Israele traviarono lontano dal Signore» (cf. Ez 44,15ss.). I sadducei conservarono per secoli i loro privilegi, non solo sul piano cultuale, ma anche su quello sociale, economico e giuridico. Il testo profetico già citato prevedeva che essi, pur non potendo godere di beni terreni ed eredità, tuttavia ricevessero «il meglio» di ogni genere di prodotti (Ez 44,28-30) e fungessero da maestri e giudici al di sopra del popolo (Ez 44,23-24); essi avrebbero inoltre dovuto rispettare una serie di prescrizioni finalizzate a conservare la propria purezza, anche evitando il contagio del volgo (Ez 44,17-20).

Nel primo secolo, i sadducei occupavano i primi posti e sedevano numerosi nel Sinedrio (che giudicava qualsiasi causa, religiosa o civile, attinente alla legge giudaica) in qualità di sommi sacerdoti, anziani e dottori della Legge (anche se questi erano in prevalenza farisei). Ciò fa supporre che essi siano stati i principali responsabili della morte di Gesù. E in effetti i Vangeli sono implacabili nel far risaltare il ruolo che i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo rivestirono nella cospirazione contro di Lui (cf. Mt 26,3-4: «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire») e nel processo avvenuto prima in casa di Caifa e davanti al Sinedrio (cf. Lc 22,54.66) e trasferito poi presso Pilato.

Ma quale poteva essere la ragione di tanto accanimento? I Vangeli non ricordano che pochi episodi nei quali Gesù si oppose apertamente alle dottrine dei sadducei, per lo più stuzzicato da loro stessi. Certamente ciò che Gesù insegnava e la fama che circolava su di Lui non collimavano con le loro convinzioni: si pensi alle notizie circa la risurrezione dei morti (in cui i sadducei non credevano, cf. Mt 22,23ss.; Mc 12,18ss.; ne abbiamo accennato in Sadduceo … chi era (è) costui?); le affermazioni circa la fine imminente del Tempio (cf. Mt. 24,1-2, e soprattutto Gv. 2,18-22: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», che gli accusatori tentarono di sfruttare come argomento nel processo, per cui cf. Mc. 14,58); il gesto eclatante della cacciata dei mercanti dal Tempio (cf. Mt. 21,12ss.), che rappresentava in fondo una critica violenta a come i sacerdoti gestivano la Casa di Dio. Inoltre, non poco offensivi dovevano suonare alle loro superbe orecchie i rimproveri per il trattamento da loro riservato ai profeti e agli inviati del Signore e per la loro religiosità falsa ed esteriore (cf. per es. le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e degli invitati alle nozze in Mt. 21 e 22: secondo l’evangelista «i sommi sacerdoti e i farisei capirono che si riferivano a loro», Mt. 21,46); senza contare quanto potesse erodere la loro autostima l’idea stessa di un vangelo rivolto ai poveri e ai peccatori come fossero più vicini al Regno di Dio rispetto a quanti si ritenevano da secoli superiori e privilegiati (cf. Mt 21,31: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio»). Ma la figura di Gesù, oltre a essere scomoda per le coscienze, nascondeva un che di pernicioso che doveva essere messo a tacere con forza e ridicolizzato agli occhi del popolo, perché fosse ristabilita la corretta visione delle cose e conservato lo status quo, dal quale appunto i sadducei ricavavano i maggiori vantaggi.

Qual era dunque questo status che Gesù con il suo comportamento e le sue parole metteva in pericolo e che invece bisognava conservare a tutti i costi? Fin dai tempi di Giovanni Ircano (II a.C.), quando la nazione giudaica aveva raggiunto una notevole estensione e si era aperta ai popoli vicini già ampiamente ellenizzati, i sadducei manifestarono una certa apertura verso l’ellenismo. Durante l’occupazione romana, mentre in vasti strati della popolazione (farisei e zeloti in primis) cresceva l’insofferenza verso gli occupanti pagani e si accendevano focolai di ribellione e di protesta, l’aristocrazia conservatrice praticò una politica di conciliazione – se non di collaborazione – con l’Impero e i suoi rappresentanti. Ciò portò ulteriori notevoli vantaggi per i sadducei; anche il Sinedrio aveva visto riconosciuto il proprio potere esecutivo, potendo applicare le sentenze con ricorso alle forze di polizia sia giudaica sia romana (eccetto in caso di pena capitale, che, a quanto pare, poteva essere eseguita solo con l’autorizzazione di un magistrato romano: è per questo che i sommi sacerdoti si rivolsero a Pilato per vedere applicata la pena di morte emessa contro Gesù, cf. Gv. 18,31).

Si può affermare senza troppi indugi che l’interesse principale dei sadducei, in quanto casta di aristocratici privilegiati e conservatori, fosse quello di mantenere tranquillità e ordine, di conservare sul piano sociale e politico le cose così come stavano, perché da tale stato di cose essi ricavavano sicurezza e vantaggi. Per questo cercavano di nascondere i movimenti di rivolta contro i Romani e di evitare situazioni in certo modo imbarazzanti. Certi aspetti della figura di Gesù rischiavano di mettere in moto nella popolazione pericolose speranze di libertà. L’evangelista Giovanni, assai prezioso e utile ai fini della ricostruzione storica, riferisce che, vedendo i segni compiuti da Gesù e la gran quantità di persone che lo seguiva, «i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il Sinedrio e dicevano: “ Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui, e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”» (Gv. 11,47-48). I miracoli compiuti da Gesù attestavano che Egli era il Messia atteso, il discendente di Davide che avrebbe restaurato l’antico Regno; in Lui molti Israeliti vedevano il liberatore che si sarebbe messo a capo del popolo per guidare una vittoriosa ribellione contro i Romani conquistatori (simili speranze trapelano anche da certe affermazioni che i Vangeli mettono sulla bocca di alcuni discepoli, che sembrano attendere un Regno più terreno che celeste, e che il Maestro è costretto a emendare in vario modo; cf. per es. la richiesta di primato avanzata dai figli di Zebedeo e la correzione di prospettiva operata da Gesù: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi … », Mt. 20,20ss). L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, con la folla che lo accoglieva e lo acclamava Figlio di Davide e «inviato del Signore» (cf. Mt. 21,1-11), era un segnale indiscutibile della fondatezza dei timori della casta.

Le speranze accese dall’arrivo di un Messia, unite all’errata concezione che si era affermata su di Lui e sulla sua missione, avrebbero acceso nuovi pericolosi focolai di rivolta, che i Romani non avrebbero tollerato. Ecco la soluzione: «Uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse di suo, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv. 11,49-53).

Gesù doveva dunque morire per la nazione. Morendo Lui, il popolo avrebbe abbandonato ogni speranza si ribellarsi all’Impero, i Romani non avrebbero imposto con la forza il proprio potere, tutto sarebbe rimasto così com’era: Israele sarebbe stato salvo e i potenti sarebbero rimasti potenti. Ora, a ben vedere, l’unico reato emerso dall’interrogatorio svoltosi davanti al Sinedrio era la bestemmia di un uomo che si spacciava per Dio (cf. Mt. 26,57-68; e soprattutto Gv. 19,7: «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio»); ma per applicare la pena di morte – come abbiamo detto – il Sinedrio aveva bisogno dell’autorizzazione di un magistrato romano. E un magistrato romano difficilmente si sarebbe scandalizzato per un folle che parlava di misericordia e pace e di un Regno Celeste che nessuna minaccia avrebbe potuto costituire per l’Impero di Roma (cf. Gv. 18,33-38). Per questa ragione bisognava convertire l’accusa di bestemmia in quella di sovversione: «abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo e impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo Re» (Lc. 23,2). Accuse infondate, a quanto narrano i Vangeli (per il tributo a Cesare cf. Mt. 22,15-22), tanto che neppure Pilato ed Erode sentono di dover condannare Gesù, «non trovando in Lui nessuna colpa» (cf. Lc. 23); vorrebbero limitarsi a punirlo e a schernirlo per la sua identità di improbabile (e totalmente innocuo) sovrano dei poveri.

Ma i sadducei insistono su questo punto fino a minacciare Pilato di complicità con il ribelle: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Infatti chiunque si fa re, si mette contro Cesare» (Gv. 19,12). E, visto che ci si trovano, i sommi sacerdoti ne approfittano per pronunciare una pubblica dichiarazione di lealtà all’imperatore: «Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare» (Gv. 19,12). Ora, proprio in quegli anni, Pilato aveva attaccato i privilegi della legge e della religione giudaica, e la reazione dei Giudei, che si erano appellati direttamente a Tiberio, aveva portato all’annullamento dei suoi provvedimenti. Il governatore non vorrebbe davvero tornare a irritare l’imperatore a causa di futili questioni religiose, rischiando per di più di apparire come un «nemico di Cesare» che agisce contro i «fedelissimi» dell’Impero. Per quale motivo altrimenti uno come Pilato avrebbe dovuto «spaventarsi» in una situazione come quella (cf. Gv. 19,8)? Pur riconoscendo l’innocenza dell’imputato e la malignità degli accusatori («sapeva bene, infatti, che glielo avevano consegnato per invidia», Mt. 27,18), cede al ricatto e consegna il «Re dei Giudei» ad una morte ignominiosa. La «morte più terribile di tutte», a quanto affermavano gli antichi, sia per la gravità delle sofferenze che essa procurava, sia per la vergogna che ricadeva su chi ne era colpito; anche nella Scrittura è «maledetto colui che pende dal legno» (cf. Deut. 21,23 e la rilettura che ne propone Paolo in Gal. 3,13).

Piano perfettamente riuscito. Il Tempio è salvo e la nazione è fuori pericolo grazie alla «morte di uno solo», proprio come aveva previsto Caifa. Un predicatore scomodo, spacciato per pericoloso ribelle, è stato eliminato e ridicolizzato davanti al popolo. La casta rimane casta ed esibisce tutta la sua leale e fedele sudditanza al potere di Roma. Ci sarebbe, solo per guardare il cavillo, l’incoerenza di far mandare a morte Gesù come ipotetico sovversivo e far rilasciare Barabba, che era invece un ribelle e un assassino accertatoi sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù», Mt. 27,20). Ma questi sono i rischi quando c’è di mezzo il pubblico (= privato) interesse.

 

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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