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Tra Montini e Giussani c’è il “senso religioso”

Sull’utilità della «riabilitazione razionale» del senso religioso, inteso come esperienza elementare propria di ogni uomo.

Commentando la lettera di san Paolo ai Romani, san Tommaso conclude così: «Fuit in eis quantum ad aliquid vera cognitio Dei» «[I pagani] ebbero, in una certa misura, una vera conoscenza di Dio». Nell’articolo Se Dio è buono, perché c’è il male? avevamo mostrato come il concetto di “bontà e provvidenza di Dio” fosse già presente nei filosofi pre-cristiani come verità di ragione, prima ancora che di fede; infatti, alla ricerca dell’Uno, dell’Arché, i filosofi avevano sempre identificato il Principio ed il Fine, in quanto tale, come Bene. E gli studi di storia delle religioni hanno rilevato come le religioni pagane, che non hanno origine dalla Rivelazione divina, come è invece per l’ebraismo e il cristianesimo, non ignorano la provvidenza e bontà del Dio, il «Dio di benedizione» della tradizione di Israele. Infine, la stessa Sacra Scrittura – come evidenzia Daniélou in Santi pagani dell’Antico Testamento – attesta che uomini che non appartenevano né alla razza né alla religione di Israele, ed erano quindi coloro che oggi definiremmo pagani, conobbero e adorarono il vero Dio. Tra essi Noè, Melchisedech, Loth, la regina di Saba. E Giobbe, il vecchio saggio indumeo che non appartiene al popolo eletto, e che ha saputo conservare anche nella più grande disgrazia la fiducia nell’Altissimo, non è forse tra gli esempi più perfetti di sottomissione a Dio proposti dalla Bibbia?

Come è possibile che certi uomini pagani abbiano avuto, in parte, una vera conoscenza di Dio? Che rapporto intercorre tra le religioni pagane e quelle che hanno origine nella Rivelazione divina, come l’ebraismo e il cristianesimo? Un’articolata risposta a queste domande, e molto altro, si trova in due testi ancora attualissimi, scritti dall’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini e da don Luigi Giussani, sul tema del “senso religioso”. Il primo è la Lettera Pastorale per la Quaresima del 1957 dell’arcivescovo di Milano. Il secondo, uscito poco dopo, è la prima stesura, fortemente debitrice al testo di Montini, di quel Senso religioso che – ripubblicato nel 1966 e ampliato nel 1986 – sarà uno dei testi più rappresentativi dell’insegnamento di Giussani. Perché due personalità così differenti, in quegli anni, riflettevano sul tema del “senso religioso”? Negli anni Cinquanta, dopo il tramonto della “religione dei miti” della seconda guerra mondiale – popolo, razza, Stato, nazione, si respirava aria di disillusione. L’uomo è una «passione inutile» aveva già da qualche tempo sentenziato Sartre, quindi anche la religione è solo una passione inutile: non c’è alcun Dio che ci attende, né in cielo né in terra. Solidale con l’esistenzialismo borghese, solamente nell’avversione al cattolicesimo, l’ateismo comunista presentava la dimensione religiosa come il “passato”, destinato a dissolversi con l’avvento della tecnologia e del progresso: l’homo faber avrebbe emancipato l’homo religiosus dal bisogno di un Dio protettore. Per rispondere a queste posizioni, il futuro Paolo VI e don Giussani pensarono fosse utile riportare all’attenzione il tema del “senso religioso”, caposaldo dell’antropologia cristiana che considera l’uomo come strutturalmente orientato al senso e alla ricerca di Dio. Ma Montini e Giussani non erano i soli ad aver intuito la necessità di una riflessione sul tema del “senso religioso”, per reggere la sfida della secolarizzazione e dell’ateismo. Un riferimento importante, soprattutto per Don Giussani, erano stati gli studi in materia di Jean Daniélou, uno dei protagonisti, con padre Henri de Lubac, della Nouvelle théologie e fondatore delle Sources Chrétiennes tanto care anche a Joseph Ratzinger. Un altro era il teologo domenicano Cornelio Fabro, che rifletteva sul fondamento razionale della «dimensione religiosa come dimensione pre-filosofica, originaria dell’uomo». Insomma, il cattolicesimo di allora trovava nel “senso religioso” – riconosciuto come esperienza strutturale propria di ogni uomo – una valida strada per confrontarsi con i pagani del mondo moderno. Diversamente da allora, oggi la secolarizzazione procede non tanto con la negazione di Dio quanto con forme altrettanto pericolose di soggettivismo religioso da una parte, di sincretismo o relativismo religioso dall’altra parte. Eppure una riflessione nuova e razionale sul tema del “senso religioso”, superando le cadute del razionalismo e del fideismo, non potrebbe rappresentare per il cattolicesimo ancora una buona strada, per confrontarsi con l’orizzonte contemporaneo pagano?

Sulla scia di questa domanda, proviamo a definire cosa sia il senso religioso e come si attui.

Che cos’è il “senso religioso”? – Sia nel testo di Montini che in quello di Giussani la premessa di tutta l’argomentazione sta nel Fecisti nos ad Te di Agostino, tradotto nel Tu sei fatto per Dio (Conf. I,I). Che significa che l’uomo è fatto per qualcosa? Significa che in noi, proprio dentro la struttura del nostro essere c’è un’energia che ci spinge verso quella cosa, che ce la fa desiderare, in una parola significa che in noi c’è la capacita di quella cosa. Come Montini, anche Giussani ricorda che «i filosofi scolastici chiamavano tale dote o disposizione viva della nostra persona vis appetitiva – forza di aspirazione». L’uomo è capax Dei (cfr. Agostino, Enarrationes in Psalmos LXVI,3), ha nel suo intimo una certa capacità di Dio, e proprio questa capacità di entrare in relazione con il divino è il senso religioso. Al pari di Montini, che parla di «essenziale struttura», anche per Giussani il senso religioso «nasce con noi, come una parte della nostra struttura originale». Il senso religioso, scrive Giussani, è qualcosa che è dato con la nostra stessa esistenza, ancora di più «esso è una vocazione, esso è la vocazione della nostra vita». Noi siamo come di fronte ad una voce che chiama. Possiamo non rispondere, ma non possiamo impedire che chiami. Tra tutte le capacità della nostra natura quella del senso religioso è evidentemente la fondamentale. Perché tutte le altre si rivolgono a dei beni particolari, mentre questa si rivolge al bene finale e conclusivo. In breve, il senso religioso è «sintesi dello spirito» (Montini), «suprema categoria della ragione» (Giussani) che si manifesta nella «capacità della nostra natura di domandarsi il significato esauriente della realtà». Questa attitudine è naturale, secondo Montini, ma diviene operativa se si pone in esercizio. Allo stesso modo, per Giussani, il senso religioso deve attuarsi, per esprimere la sua capacità. Come per i cinque sensi, anche il senso religioso non è autonomo: deve essere sollecitato, curato, educato. La possibile non attuazione è il motivo per cui, in taluni, la disposizione religiosa rimane nello stato di potenzialità, nascosta, non attiva. Quando passa dalla potenza all’atto, il senso religioso diventa sentimento religioso, cioè cor-rispondenza intima con la verità che si cerca; tuttavia, si badi bene, esso continua ad esprimere sempre un «bisogno di verità» in atto, mai «un criterio di verità». Il senso religioso non è la religione, scrive Montini, «piuttosto ne costituisce la base soggettiva, senza la quale o la religione rimane esteriore, formalista, inoperosa e fragile – pericolo di ieri e di sempre –, ovvero essa cade addirittura – pericolo di oggi».

Come si attua il senso religioso? – Per spiegare come il senso religioso si attui, Montini e Giussani accolgono l’ottica del realismo: «Occorre innanzitutto una riabilitazione razionale del senso religioso», scrive Montini. Il senso religioso non si mette in moto da sé, come vorrebbero i modernisti – già colpiti dall’Enciclica Pascendi di Pio X (1907), come un vago sentimento cui non corrisponde una realtà oggettiva; neppure coincide con la posizione degli ontologisti, «quasi che lo spirito umano intuisca Dio come l’occhio vede le cose, sia pur più confusamente». Scrive Giussani: «Il richiamo che mette in moto il senso religioso dello spirito umano viene da Dio attraverso la realtà creata», perché il mondo rende testimonianza a chi lo crea (cfr. Lettera ai Romani 1, 19-20). Esiste una rivelazione naturale che passa attraverso momenti e gradi diversi: l’esistenza delle cose; il cosmo; l’ordine del mondo (giorno/notte, ritmo delle stagioni); il movimento dei popoli e delle nazioni; la realtà del soggetto come «io sono fatto»; la coscienza del bene e del male. Il mondo è segno di Dio che interpella la libertà e l’intelligenza dell’uomo e, per questo, «mentre rivela, vela. Perchè Dio si propone, non si impone. Dio è discreto». Posta la natura umana come capax e il mondo come segno, la prima espressione dell’incontro di Dio con l’uomo, è la religione naturale, nella quale rientrano tutte quelle religioni dette pagane, che non hanno origine dalla Rivelazione divina, come l’Ebraismo e il Cristianesimo. Su questo punto, per Giussani, diventa preziosa la posizione di Daniélou che, sopratutto in Dio e noi, senza disconoscere i limiti del paganesimo (politeismo, panteismo, antropomorfismo), mostrava di apprezzare il positivo presente nella religione naturale. L’uomo pagano è capace di risalire fino al Dio dei miti e al Dio dei filosofi, ma, come dice San Paolo, la sua ricerca procede «a tastoni» e il dialogo con Dio rimane incerto: «Ciò che Egli è ci resta sconosciuto» (cit. di Gilson in Daniélou). Nella religione naturale il rischio costante è quello che lo spirito umano si erga a misura del divino, riducendo Dio ad un idolo. Nella religione che non è illuminata dalla Rivelazione l’uomo tende ad attribuire a Dio la sua misura, a concepirlo come realizzazione dei suoi valori. I primi capitoli della Bibbia (Gen 1-11) sono la narrazione di questa aberrazione del senso di Dio, conseguenza del peccato d’origine che rinnova nel tempo sempre la stessa tentazione «Tu sarai come Dio». L’uomo pagano procede faticosamente, «a tastoni», ma rimane il valore della sua ricerca insopprimibile di Dio, perché iscritta nella sua natura. L’uomo pagano può uscire dalla morsa di questa ricerca autosufficiente e autoreferenziale, quindi incerta, solo se Dio prende l’iniziativa e interviene nella storia umana. Questo l’aveva capito, nello stesso mondo pagano, un genio religioso come Platone: è bene «accogliere, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su di esso, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita; a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su una più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina» (Platone, Fedone, 85 cd). Dio, con la Sua rivelazione, educa il Suo popolo ad un nuovo senso religioso. «Due virtù intende inculcare questa pedagogia divina: la capacità di ascoltare e di credere». Se l’interpretazione del segno è affidata soltanto all’iniziativa dell’uomo, alla ricerca umana, questa procede faticosamente, e con tante deviazioni, verso Dio. Con la Rivelazione, invece, l’uomo diventa degno di Dio perché assume davanti a Lui l’unica posizione vera: la disponibilità assoluta. Ascoltare e accettare ciò che un altro dice che tipo di dipendenza è se non la fede? Questa pedagogia introduce e si perfeziona con Cristo, il “Dio con noi. Scrive Giussani: «Qui l’amore realizza la dipendenza assoluta nella piena libertà dell’io». «Non più l’incerta ed errante ricerca, non più il rapporto del servitore con il padrone che lo tiene ai margini della sua vita, ma l’adesione intima e totale nell’amore. La dipendenza totale è solo nell’amore. Nel rapporto di amore la volontà dell’altro non mi viene dettata, ma è come se fosse la mia: la volontà dell’altro è mia volontà. “Non sono più io che vivo; Cristo vive in me”». Ricerca «a tastoni», dipendenza del servo, amore filiale sono i tre momenti possibili del senso religioso nella storia umana e nella storia individuale. Ma soltanto l’ultimo modo è quello che Dio oggi desidera: quello per cui è venuto Cristo. Per questo, i gradi del senso religioso devono preparare al senso di Cristo non opporsi o sovrapporsi a Lui. Giussani, a riguardo, ripete una citazione di Guardini: «Buddha, Zoroastro, Confucio, possono essere considerati come precursori di Cristo. Ma la caratteristica del precursore è di cancellarsi quando appare chi egli ha la missione di introdurre. Ché se non lo fa diventa avversario».

Al di là delle prese di posizioni – perché tali sono – del laicismo e dell’ateismo, resta una evidenza incontrovertibile: a nessun uomo manca la ricerca di un significato esauriente dell’esistenza; così come a nessun popolo è mai mancata la pratica della religione. L’uomo senza religione non è emancipato, piuttosto è mortificato nella propria capax Dei, cioè nell’innata e insopprimibile necessità di trovare una spiegazione intellegibile ed esauriente dell’uomo e del cosmo. Senza Dio, come ricorda Giussani citando Shakespeare, la vita e il mondo sembrerebbero «una favola raccontata da un idiota in un eccesso di furore». Da questo punto di vista, propriamente non esiste l’ateismo ma l’idolatria. Qualunque principio o valore che si ponga come risposta alla necessità di trovare una spiegazione intellegibile all’uomo e al cosmo, «è una religiosità che si esprime ed è un dio che si afferma; e infatti a quel principio, qualunque esso sia, l’uomo dà incondizionata devozione». Tutte le religioni, e la stessa teologia filosofica, sono giuste in quanto ricerca di una risposta all’esigenza di senso assoluto iscritta nella natura umana. Tuttavia, è solo nella Rivelazione che Dio stesso si comunica all’intelligenza, alla volontà, al sentimento degli uomini, oltre quanto essi possano pensare, volere, sentire; e Cristo rappresenta il culmine dell’attuazione del senso religioso: «Non più l’incerta ed errante ricerca, non più il rapporto del servitore e del padrone, ma l’adesione intima e totale nell’amore».

Per quanto detto, ci pare sensato riproporre «una riabilitazione razionale del senso religioso» come orizzonte di confronto con il mondo pagano: imparare a considerare il positivo che c’è in tutte le religioni e nei percorsi di ricerca di Dio, senza dimenticare la differenza sostanziale che c’è tra la religione e la rivelazione. Scrive Giussani: «C’è una grandissima differenza tra le grandi anime religiose, a seconda che conoscano o no il Cristo. Queste confidano interamente nel loro genio religioso: «Sono apostoli di se stessi, ma non hanno altra verità da annunciare che quella misurata della loro capacità umana, mancano di “mistero” (Mons. Montini)». «Quelle sono unicamente al servizio della Parola divina. Buddha o Maometto possono aver avuto genialità e iniziativa molto maggiori di san Pietro o del Curato d’Ars. Ma alla salvezza non si giunge attraverso l’esperienza religiosa, bensì attraverso la fede nella parola di Dio» (Cf. R. Guardini, cit. in Daniélou, Dio e noi).

Se il senso religioso «nasce con noi, come una parte della nostra struttura originale», perché in alcuni uomini non si attua restando latente? Come può essere sollecitato, educato, curato? Per rispondere, se vorrete, continueremo il viaggio in compagnia di G.B. Montini e L. Giussani.

 

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  1. Il senso religioso è filo lanciato nel vento

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