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Si fa presto a dire “Pescara Città dannunziana”

Tra Seneca e il facèto, alla ricerca della “città dannunziana”.

pescara-dannunziana1Al Comune di Pescara, per due soldi, ogni sindaco che arriva compra un logo da apporre su carta intestata, lettere, sito istituzionale, manifesti e quant’altro. E venne Alessandrini, che tolse il logo “Pescara Città Dannunziana” voluto da Albore Mascia, che spazzò “Pescara Città Vicina” che Luciano D’Alfonso per due soldi comprò.

Cari concittadini, ormai lo sapete, il nuovo sindaco Alessandrini, attraverso una circolare recapitata a dirigenti e dipendenti comunali, ha deciso di togliere il logo con l’immagine del Vate e la scritta “Pescara Città Dannunziana”, per far posto al vecchio simbolo della nostra città che raffigura l’unificazione di Pescara e Castellammare. Motivazione del cambio di logo? Un semplice richiamo alla «sobrietà istituzionale», fa sapere Alessandrini; in effetti i problemi sono tanti, lo sappiamo, e cambiare il logo è un chiaro segnale di efficienza e morigeratezza. A rifletterci bene, già “Pescara Città vicina” suonava un po’ promiscuo. Ma vicina a “che”, a “chi”? Di questi tempi, si sa, non ti puoi fidare tanto. Un turista che arrivi nella nostra città, e dovunque si giri trovi la scritta “Pescara Città vicina”, fa pure bene a pensare: “Pescara, siamo appena arrivati, e che è tutta ‘sta vicinanza?” Hanno visto alcuni turisti, si dice, aggirarsi con fare circospetto stringendo borsetta e figli. Se poi mi appioppi “Pescara Città Dannunziana”, altro che promiscuità: carichi la città di vera e propria ‘ansia da prestazione’! In una “città dannunziana”, che ne so, ti aspetti di trovare combriccole di esteti decadenti fuori da caffè letterari; di intercettare scambi di volantini, tra focosi interventisti che sgattaiolano nel cuore della notte; di vedere qualcuno, al centro di una piazza stile architettura futurista, che vada gridando: «A tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia arte rinovellata, amo la mia casa donata. Nulla d’estraneo mi tocca, e d’ogni giudizio altrui mi rido» [G. D’Annunzio, La provincia di Brescia, 5 novembre 1925]. Sì, te lo aspetti, anche il quindici agosto; se sei “città dannunziana”, a ferragosto non puoi far trovare fuori da bar chiusi combriccole di anziani decadenti, che scambiano focosi volantini con l’orario degli autobus in servizio, mentre uno, al centro di una rotatoria, schivando schizzi di fontane, grida: «A tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia [badante] rinovellata, amo la mia casa [a lei] donata. Nulla d’estraneo mi tocca, e d’ogni giudizio altrui mi rido [perché tanto stanno tutti al mare]».

quel che ho donato cornucopiaPer quanto detto, pensiamo possa andare bene il ripristino del logo che rappresenta l’unificazione di Pescara e Castellamare, perchè in fondo il ‘logo sobrio’ sta bene in ogni occasione come il tubino nero. Tuttavia vogliamo immaginare, solo a mo’ di divertissement, cosa potrebbe rispondere Gabriele D’Annunzio all’iniziativa del sindaco Alessandrini. Per non peccare di presunzione, ci limiteremo a immaginare solo quel che di (quasi) certo sappiamo: il Vate scriverebbe qualsivoglia risposta su carta da lettere con impresso il motto Io ho quel che ho donato, racchiuso in un tondo recante la figura di una cornucopia, simbolo dell’abbondanza, o impresso al centro di due cornucopie. Io ho quel che ho donato, infatti, dei vari motti dannunziani, fu il favorito dal Vate tanto da apporlo sui sigilli, sulla carta da lettere, su tutte le opere pubblicate dall’Istituto Nazionale e dall’Oleandro; fino a volerlo inciso sul frontone all’ingresso della Villa Cargnacco, dal Vate ribattezzata “Vittoriale degli Italiani”, divenuta sua dimora dal 1921 al 1938, anno della morte. Egli spiegava il motto dicendo che ogni cosa che percepì economicamente fu sempre il frutto del suo lavoro letterario, quindi di ciò che ebbe prima donato artisticamente. Legata a questa idea di generosità e munificenza, cui il poeta si ispirò soprattutto negli ultimi anni della sua vita, vi è anche la donazione ufficiale che Egli fece, al momento dell’atto d’acquisto, del Vittoriale e di tutto ciò ivi contenuto (compresi i circa 33000 volumi di proprietà del Poeta) «alla nazione ed al popolo italiano», stabilendo che alla sua morte ogni cosa sarebbe diventata di proprietà dello Stato ed adibita a Museo pubblico. Il Vate, quando si trattava di denaro, amava più donare che ricevere, e questo spiega anche perche fosse sempre al verde e pagasse i debiti con autografi. I creditori si vedevano spesso recapitare invece di banconote “letterine” firmate dal poeta, perché la sua firma valeva più dei Biglietti della Banca d’Italia, e così anche per pagare debiti s’ispirava al motto Io ho quel che ho donato. Il Poeta affermava di aver trovato la frase incisa su una pietra di focolare posta su un camino del Quattrocento. In realtà la frase è la traduzione di un emistichio del poeta latino Rabirio, contemporaneo di Augusto, citato da Seneca nel VI libro del De beneficiis: Hoc habeo quadcumque dedi [lett. Questo ho, quello che ho dato]. Seneca ricorda il verso di Rabirio (che Giusto Lipsio e Gerhard Voss ritenevano tratto da un poema sulla guerra civile tra Antonio e Ottaviano), in cui Marco Antonio, ormai prossimo alla morte, esclamerebbe fiero di non possedere se non quanto avesse per parte sua donato ad altri, quale che ne fosse l’entità. Seneca riprende questo verso perché richiama agevolmente il concetto stoico dell’indifferenza ai beni materiali, espresso da Seneca anche nel De Constantia sapientis e nel De vita beata, dove afferma che solo il saggio è uomo libero, fonte della libertà essendo appunto l’indifferenza ai beni materiali. Dopo essersi richiamato al verso di Rabirio, e alla virtù di Marco Antonio, Seneca mette in guardia quanti, credendo la fortuna risieda nel possesso dei beni materiali, si espongono alla volubilità della sorte umana, illudendosi di possedere cose delle quali momentaneamente «sono solo amministratori»:

«[…] Tutte codeste cose che vi fanno dimenticare la vostra fragilità, tronfi e sprezzanti della umana condizione, tutte codeste cose che voi con le armi in pugno custodite con serrature di ferro, che difendete con il vostro sangue dopo averle strappate ad altri versandone il sangue, per le quali varate flotte che insanguineranno i mari, per le quali squassate le città ignorando con quanti colpi la sorte vi prenderà alle spalle, per le quali, infranti tante volte i legami della parentela, dell’amicizia, di un’associazione, il mondo è stato diviso fra due contendenti, tutte codeste cose non sono vostre; sono presso di voi nella condizione di un deposito, pronte a rivolgersi da un momento all’altro ad un altro padrone; vi piomberà sopra o un nemico o un successore dall’animo nemico. Domandi come tu possa renderle tue? Donandole. Provvedi dunque alle tue cose e procurati un possesso di esse sicuro e inespugnabile e le renderai così più rispettabili non solo più sicure. Questo patrimonio che ammiri, grazie al quale pensi di essere ricco e potente, per tutto il tempo che lo possiedi, è oppresso da nomi volgari: questi nomi sono “casa”, schiavo”, “soldi”; ma quando ne hai fatto dono, il nome è beneficio».   [ Seneca De beneficiis 6, 3]

Scrive Seneca, in un passaggio: «Perché risparmi come se si trattasse di un patrimonio tuo? Tu ne sei l’amministratore». Donare è fonte di ricchezza sicura se innesca un circolo virtuoso, perché lo stesso donatore originario finirà per ricevere un nuovo e potenziato beneficio. Io ho quel che ho donato significa che chi è generoso finisce per possedere sotto altra veste ciò che ha donato. Chissà se ci sarà mai un sindaco che vorrà proporre di incidere sul frontone del Comune di Pescara, o di apporre su sigilli, carta intestata, lettere, sito istituzionale, manifesti e quant’altro, il motto Io ho quel che ho donato. Niente ‘Utopìa’ né ‘Comune no profit’, intendiamoci. Piuttosto un Comune dove gli eletti si sentano letteralmente “amministratori”, più che gestori di un patrimonio personale; un Comune nel quale gli amministratori guadagnino, ci mancherebbe, ma solo nella misura in cui sappiano ben amministrare; un Comune dove gli amministratori percepiscano economicamente il frutto di quanto abbiano precedentemente donato agli elettori, sotto forma di beni, servizi, iniziative culturali religiose e sociali.

Insomma, una vera “città dannunziana”. Anche a ferragosto.