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Il Sinodo, l’occhio di Sauron e la cataratta

Un appunto, un promemoria, una meditazione sul Sinodo e sui (cattivi) media

 

Va bene: che la misericordia possa (giustamente) far paura è il più banale dei paradossi di cui è impastato l’uomo (cf. Mt 20, 1-16). Credo però che sia solo il curioso rovescio di quell’altro paradosso – tragico! – per cui i vignaioli cattivi immaginano di diventare eredi uccidendo il figlio del padrone (cf. Mt 21, 33-44; Mc 12, 1-11; Lc 20, 9-18). Non a caso Matteo, l’unico che racconta la parabola dei vignaioli invidiosi, la pone nel capitolo immediatamente precedente quella degli omicidi.

E forse non è un caso neppure che Papa Francesco (il quale è per l’appunto il Papa, se qualche lettore nutrisse dubbî in merito) abbia recentemente richiamato quei versetti del Vangelo (Lc 7, 31-35) che riportano l’amara ironia di Gesù verso “la classe dirigente del suo tempo”: «Ma, io non vi capisco! Voi siete come quei bambini: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. Ma cosa volete?». E la risposta la dà, il Papa: «Vogliamo fare la salvezza a modo nostro».

E come non ripensare a quella bellissima pagina di Nikos Kazantzakis ne L’ultima tentazione di Cristo (chi ha visto solo il film, o magari neanche quello, non perda tempo a dire che si tratta di un’opera immorale e/o empia), lì dove l’umanità del Figlio di Dio si trova in crisi davanti alla prescienza di cosa accadrà ai suoi discepoli – quelli che non ballano sui flauti e non piangono ai lamenti – quando lui non sarà più fisicamente presente? [la pagina è riportata in calce]*

Quello che avviene, infatti, è che in una “febbre intellettuale e teologica” [è il Papa che parla!] si approntino attente pianificazioni per supplire il carisma divino, dal momento che si giunge praticamente a negare o escludere la libera azione di Dio dalla nostra vita. «Loro – continua Francesco – non credono nella misericordia e nel perdono: credono nei sacrificî. […] Credono in tutto sistemato, […] tutto chiaro. Questo è il dramma della resistenza alla salvezza».

Parole forti e dure, ma chi sono “loro”?

Anche noi – risponde Francesco –, ognuno di noi ha questo dramma dentro. Ma ci farà bene domandarci: come voglio io essere salvato? A modo mio? Al modo di una spiritualità, che è buona, che mi fa bene ma che è fissa, ha tutto chiaro e non c’è rischio? O al modo divino, cioè sulla strada di Gesù che sempre ci sorprende, che sempre ci apre le porte a quel mistero dell’Onnipotenza di Dio, che è la misericordia e il perdono?

Si facciano le debite tare alle ripetizioni e ai solecismi della lingua parlata, ma si ritenga al netto di tutto ciò l’accorato invito a lasciare che Dio sia sempre altro e sempre maggiore della nostra idea di Dio, a non “resistere alla salvezza”.

Ora, si noterà come le parole del Papa si prestino a essere lette in più sensi – a chi si riferiva, in particolare, quando parlava di gente presa da “febbre intellettuale e teologica” e che tuttavia “non crede nella misericordia e nel perdono”?

È fin troppo facile pensare al contesto del Sinodo straordinario dei Vescovi, che sarebbe cominciato a giorni quando il Papa diceva queste cose e ora è già avviato. I giornalisti che lo seguono lanciano breaking news o twittano una frase, uno slogan, un motto – e siccome la novità è il mestiere del giornalista, l’impressione che perlopiù ne risulta è quella di un mini-super-concilio in cui si stanno sovvertendo i pilastri della dottrina e della morale. «Il matrimonio non è più indissolubile!», «Apertura alle “nozze gay”», «Estensione del concetto di famiglia a ogni tipo di unione»… E qui entrano in scena “loro”, che come il Grande Inquisitore si preoccupano soprattutto che l’iniziativa divina non venga ad alterare la tabella di marcia (con cui hanno già risolto i problemi dichiarando quali non sono tali).

«Eh, però pure il Papa dovrebbe stare più attento quando si espone…»

Sto diventando allergico a questa frase, che sempre più spesso sento dalle bocche di ottime persone: essa indica una sostanziale sfiducia nell’adeguatezza del Santo Padre alla situazione, nonché (cosa ben più grave) una cupa diffidenza nei confronti di Chi dovrebbe guidare il Santo Padre e i Vescovi.

Da un lato, quindi, abbiamo i soliti “conciliaristi”, i quali ritengono che un sinodo sia una specie di consultazione parlamentare tra vescovi, dove un ipotetico Presidente avrebbe poco più che il compito di dare e togliere la parola. Dall’altro abbiamo i papisti, per i quali un sinodo sarebbe un formale colloquio di ratifica parlamentare di decisioni prese dal Papa.

Vale la pena, dunque, di ricordare (seppure in estrema sintesi) che cos’è un sinodo.

Si tratta di un organo di governo straordinario della Chiesa universale, con il quale il Santo Padre decide di affrontare e trattare ampiamente una o più tematiche speciali. La sua autorità viene dal Santo Padre, che lo convoca e lo approva, e dallo stesso Santo Padre, che ne tira le somme come ritiene in una esortazione apostolica postsinodale (CIC 342-345). Da un lato, dunque, nulla ha vero e proprio valore, in un sinodo, senza l’approvazione del Vescovo di Roma (il Codice di Diritto Canonico chiama sempre il Papa “Vescovo di Roma”); dall’altro, un Papa che facesse di testa sua senza cercare di operare una sintesi di quanto emerso nei dibattiti, o di tenerne considerazione, sarebbe grandemente imprudente.

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Se dunque è il Papa che convoca e imposta un sinodo, potremo forse capirne qualcosa in più riflettendo su ciò che egli consiglia e richiede: «Bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza […] pavidità». La collegialità non è nemica del primato, ma lo presuppone e lo sostiene: il primo può essere tale solo se non è l’unico, e il con-legio può essere tale solo se l’autorità lo con-voca. Per questo il sinodo si svolge “con Pietro e sotto Pietro” (lo ha ricordato Francesco, e quelli che amano calunniarlo dicendo che rinuncerebbe ai titoli primaziali sono pregati di annotarselo).

C’è ora da chiedersi: che cosa si sta dicendo al sinodo? Sì, perché uno torna a casa la sera, guarda il telegiornale o legge le agenzie e scopre che mentre era al lavoro i Vescovi cattolici avrebbero fatto falò del Catechismo: scopre che gli intrighi cardinalizî che ha imparato a immaginare grazie a serie tv come “I Borgia” e “I Tudor” stanno avendo luogo sul serio, e che i famosi cinque cardinali che avrebbero fatto testuggine “attorno alla dottrina” sono messi alle strette e, a colpi di maggioranza, stanno per capitolare. Come se il governo della Chiesa fosse democratico (e di quella democrazia tisica che sperimentiamo nelle nostre Repubblichette)…

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Non se ne abbiano a male gli sceneggiatori de “I Borgia”, ma la realtà è probabilmente molto meno scontata e prevedibile… e perciò tanto più eccitante: da qualche parte si è anche criticata la scelta di non comunicare in tempo reale i dettaglî di tutti i pronunciamenti – perché questo avrebbe dato modo ai media di processare le sintetiche dichiarazioni della Sala Stampa negli ingranaggî di quelle macchine prodigiose che trasformano l’aria in opinione. Pure senza dettaglî, ciò sta effettivamente avvenendo, come era doveroso aspettarsi. Sarebbe stato dunque meglio, per il Sinodo, lavorare con l’occhio del Grande Fratello puntato addosso? Se davvero i Padri sinodali stanno facendo un’esperienza di Chiesa – e non v’è motivo di dubitarne – non v’ha bisogno che l’occhio di Sauron sia in vista, tanto non riuscirebbe a vedere niente.

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Un’“informazione” dettagliata circa le una discussione delicata in casa propria nessuno la darebbe, se non eventualmente a cose fatte, per non compromettere l’esito della stessa – ovvero ciò che gli sta a cuore. Con quale ingenuità si può rivendicare che l’immensa ed espertissima famiglia della Chiesa si comporti diversamente?

Ma tornando a quel poco che già si sa, che cosa stanno dicendo i Vescovi, una buona volta? Alcune cose che si dicono da un pezzo, come che una condizione “imperfetta” (significativo il bel cambiamento da “irregolare”) non toglie che si sia e si resti figlî della Chiesa, e che dunque questa conservi una responsabilità materna verso tutti. Altre cose che qualcuno (tipo Benedetto XVI) ha variamente provato a far passare, come che proprio perché il matrimonio è una cosa seria e indissolubile non ci si può permettere di celebrarlo “alla carlona”, anche a costo di veder diminuire i numeri delle celebrazioni in Chiesa. Ancora cose scontate da sempre, come che la rivelazione divina (in greco οἰκονομία, oikonomìa) può ben concedere qualcosa o molto alla debolezza umana (la “durezza del cuore”), senza che ne risulti intaccata la purezza della verità su Dio e sull’uomo. Pare che il primo ad essersi appellato a un simile argomento sia stato Cristo (Mt 19, 8; Mc 10, 5-9), e che uno dei suoi ultimi vicarî (recentemente innalzato agli onori degli altari) si sia più volte diffuso sul concetto, osservando che

la cosiddetta “legge della gradualità”, o cammino graduale, non può identificarsi con la “gradualità della legge”, come se ci fossero varî gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse.

Era l’omelia a conclusione di un Sinodo, nel 1980, e l’avrebbe ripresa un anno dopo, nella Familiaris Consortio, per chiosare che le persone

non possono guardare alla legge solo come ad un puro ideale da raggiungere in futuro, ma debbono considerarla come un comando di Cristo Signore a superare con impegno le difficoltà (FC 34).

Camminare verso una meta, dunque, non toglie che si possa mettersi in cammino solo dal punto in cui effettivamente si è – e viceversa. Una simile ovvietà risulta però incomprensibile all’occhio di Sauron, che in un caso o nell’altro omette quel virtuoso “viceversa” proprio delle cose vive, e vede il Sinodo e la Chiesa deformarsi in una sorta di Gattopardo, per cui nella migliore delle ipotesi «tutto cambia perché tutto resti com’è».

Si capisce dunque che l’occhio di Sauron (ossia di certa stampa) ha un problema, e questo problema è l’in-vidia (perciò guarda ma non vede). Guarda caso l’invidia è il problema che il padrone della vigna della parabola di Mt 20 accusa ai lavoratori della prima ora, quelli che avevano sgobbato l’intera giornata e a cui, con santo sadismo, egli aveva dato la paga per ultimi per dar loro modo di vedere che la paga era uguale per tutti. Ma quel padrone buono, che può fare delle sue cose ciò che vuole e vuole darle via con larghezza, è lo stesso che nel capitolo successivo manda a esigere indietro, con giusta severità, ciò che gli spetta. E la vigna è la stessa della parabola precedente… e anche gli operaî. Difatti, proprio perché invidiosi, si illudono di fare il colpaccio quando uccidono il figlio del padrone.

La cosa è tremendamente semplice, e la profezia è lucida: quelli che sono invidiosi della misericordia e del perdono diventano fatalmente degli assassini, e parteggiare per gli operaî invidiosi o per quelli beneficati non aiuta a cogliere il problema centrale – il punto di vista del Padrone, la Sua prospettiva.

Per questo fare proiezioni ed estrapolazioni sul Sinodo non è solo stupido, ma è pure inutile e perfino pericoloso, e le considerazioni più sensate che ho letto finora sono quelle che giustamente raccolgono l’invito del Papa alla preghiera e attendono fiduciose ciò che la sapienza e la bontà di Dio suggeriranno ai pastori della Chiesa.

 


 

 

 

*: da Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione di Cristo, ed. Kindle 2012, pos. 7875 ss.

 

«Sono io», disse pacatamente, «è di me che parla il profeta Isaia, sono io l’agnello; mi portano al mattatoio e io non aprirò bocca».

Tacque, poi dopo qualche istante aggiunse: «Dal giorno in cui sono nato mi portano al mattatoio».

Confusi, sgomenti, i discepoli lo guardavano. Si sforzavano di comprendere più di quanto avesse detto. E a un tratto, tutti assieme, piegarono la testa sulla tavola e si misero a lamentarsi.

Per un momento anche il cuore di Gesù tremò. Come poteva lasciare i suoi compagni piangenti e andarsene? Alzò gli occhi, vide Giuda. Ma quello mantenne per un lungo momento gli occhi azzurri e duri fissi su Gesù. Aveva indovinato quello che succedeva dentro di lui, aveva capito che l’amore poteva paralizzare la sua forza. Lo spazio di un lampo, i due sguardi si incontrarono e lottarono. Uno era severo, spietato; l’altro supplice e desolato. Lo spazio di un lampo, e subito Gesù scosse la testa, fece un sorriso amaro e si girò nuovamente verso i discepoli.

«Perché piangete?» disse. «Perché temete il più compassionevole degli arcangeli di Dio, quello che ama più gli uomini, la morte? È necessario che io sia martirizzato, crocifisso, che discenda tra i morti. Ma dopo tre giorni mi leverò dal mio sepolcro, salirò al cielo e siederò alla destra del Padre».

«Ci lascerai ancora?» gridò Giovanni in lacrime. «Portami con te tra i morti e in cielo, Maestro».

«Il compito è pesante anche sulla terra, Giovanni diletto, bisogna che restiate per rimanere qui sulla terra. Combattete nel mondo, amate, attendete, e io tornerò!».

Ma Giacomo s’era già familiarizzato con l’idea della morte del Maestro e pensava a quello che avrebbero dovuto fare quando fossero rimasti sulla terra senza di lui.

«Non possiamo opporci alla volontà di Dio, né alla volontà del Maestro. È tuo dovere, Maestro, morire come dicono i profeti, il dovere nostro è vivere. Perché le parole che tu hai pronunciato non vadano perdute, occorre che le fissiamo in Sacre Scritture nuove, che facciamo delle leggi, che costruiamo le nostre sinagoghe, che scegliamo i nostri sommi sacerdoti, i nostri Scribi e i nostri Farisei».

Gesù si sentì sgomento.

«Tu crocifiggi lo spirito, Giacomo», esclamò. «No, non voglio!».

«Solo così potremo impedire allo spirito di farsi vento e di andarsene», rispose Giacomo.

«Ma non sarà più libero, non sarà più spirito!».

«Non importa. Somiglierà allo spirito. Per il nostro lavoro è sufficiente, Maestro».

Un sudore freddo inondò Gesù. Lanciò un rapido sguardo ai discepoli, ma nessuno alzò la testa per partecipare alla discussione. Pietro guardò il figlio di Zebedeo con ammirazione. «Lui sì che ha la testa sulle spalle, lui ha preso il suo verso sulle barche del padre, che comandava. Ora vedrete, metterà in riga anche il Maestro…».

Disperato, Gesù tese le mani come per chiedere aiuto.

«Vi manderò lo Spirito Santo», disse, «lo spirito di verità. Lui vi guiderà».

«Mandaci presto lo Spirito Santo», gridò Giovanni, «perché non ci smarriamo, perché non ti perdiamo, Maestro».

«Giacomo scosse la testa, duro e ostinato.

«Questo spirito di verità di cui parli, anche questo spirito sarà crocifisso. Finché esisteranno gli uomini, Maestro, lo spirito sarà crocifisso, sappilo. Ma non importa. Resta sempre qualcosa e quel poco ci basta, te l’ho detto».

«Non basta a me!» esclamò Gesù disperato.

«Giacomo fu sconvolto nell’udire quel grido doloroso. Si avvicinò e prese la mano del Maestro: «Non ti basta, ed è per questo che ti crocifiggono. Perdonami se ti ho contraddetto».

Gesù posò la mano su quella testa ostinata.

«Se è volontà di Dio che eternamente lo spirito sia crocifisso sulla terra, sia benedetta la croce. Portiamola sulle spalle con amore, con pazienza, con fiducia. Un giorno, sulle nostre spalle, si tramuterà in un paio di ali».

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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