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«Libertà va cercando, ch’è sì cara…»

La tragedia giornalistica di una riluttante Antigone e di una rampante Ismene

Non è la prima volta che la sapiente (e cruda) ironia della storia avvicina i volti e i destini di due donne – di due giovani donne, quasi coetanee, abbastanza da poter essere sorelle – così da proporcele come in una specie di dittico. La “civiltà dei media”, in cui scorrono i giorni dei nostri anni, ha poi il formidabile potere di accostare (fino alla sovrapposizione) i volti e le storie – chiede solo, perché il magico incantesimo della cronaca faccia il proprio dovere, che al pigro lettore non venga chiesto di raccogliere nella memoria eventi, parole o pensieri risalenti a troppe ore prima del momento presente. Non è però questo il caso che si dà: così l’altro ieri comparivano le due sorelle – una sulle pagine di Avvenire, con parola di oltretomba, l’altra con voce squillante sul blog di MicroMega.

Solo la violenta insistenza della coincidenza temporale spinge a superare il pudore di accostare i nomi di Reyhaneh Jabbari (ventisei anni) e di Valentina Nappi (ventiquattro) – il tempo e la storia, però, sono due amanti ciechi, e dalla loro unione possono ben darsi due figlie simili, dissimillime sorelle. La seconda si presenta come una giovane pornostar versata nell’emissione di sentenze – e ci si sbaglierebbe se ci si attendessero da lei argomenti e toni da “rubrica rosa” –; la prima è stata impiccata a Teheran all’alba dello scorso 25 ottobre per aver accoltellato l’uomo che tentò di stuprarla.

Lo iato è tanto marcato che le figure sembrano disegnate l’una sull’altra – proprio come quelle di due sorelle – ma vogliamo provare a non indulgere a facili e scontate partigianerie moralistiche… Benché la sua vicenda sia sconvolgente per l’inaudito spregio della più grossa concezione di una “legittima difesa” (per non parlare di una qualsivoglia forma di “pietà” per il debole), non avrebbe senso fare di Reyhaneh una novella Maria Goretti. Questa può forse essere, semmai, una buona occasione per osservare tacitamente che, in una medesima situazione di sopruso e andando comunque incontro alla morte, c’è modo e modo di essere uccise (uno stupratore è certamente meno lucido di una corte di Tribunale), e c’è modo e modo di morire. Ma morire d’onore per fedeltà a un Dio che l’onore l’ha dato in dote e, di più, morire perdonando l’assassino e pregando per lui è cosa storicamente inconcepibile fuori dal cristianesimo. Dunque non ha senso esaltare in tal senso la virtù di Reyhaneh (che tuttavia un Agostino riconoscerebbe probabilmente superiore a quella dell’antica Lucrezia, a suo dire ispirata da uno “splendido vizio”).

Allo stesso modo, non è denigrando il suo “mestiere” che si può pretendere di venire a capo del personaggio della Nappi. Personaggio “misterioso” (benché «se cerchi il mistero – diceva al collega l’impiegata del Sexy Shop in Le fabuleux destin d’Amélie Poulain – non è qui che lo troverai») per quanto manifestamente sospettabile di voler forzosamente ribaltare lo stereotipo della pornodiva: l’ingranaggio sembrerebbe, almeno di primo acchito, quello che contrappone alla donnaccia di malaffare la donna intelligente e spregiudicata, e (implicitamente – ma neanche troppo) quest’ultima a quella sempliciotta e avvinta dai laccî di un’ipocrita mediocrità quotidiana e borghese. Può forse sorprendere, da un altro punto di vista, come la spocchiosa ed autoreferenziale casta dell’intellighenzia scalfariana abbia potuto recepire nel proprio tiaso una giovane etera illetterata (perlomeno “sulla carta”), ma un’occhiata alla storia torna di conforto: era addirittura il 1793, quando gli antesignani di MicroMega (che a quelli si richiamano fin dal titolo della rivista) intronizzavano sull’altare di Notre Dame una donna discinta additandola come “dea della Ragione” e “della Libertà”. Vale la pena riportare qualcuna delle parole di George Lillie Craik e Charles MacFarlane, con cui dei quasi-contemporanei (1843) raccontavano il finale della processione cittadina che intronizzava la donna:

[Fatto questo], Chaumette disse ai legislatori che il fanatismo aveva perso la sua presa nelle menti degli uomini; che il suo sguardo strabico non poteva sostenere il fulgore della luce; che gli antichi templî sarebbero stati ora purificati e rigenerati; che in quel giorno un’immensa folla sarebbe entrata sotto i soffitti gotici, i quali per la prima volta avrebbero sentito riecheggiare la verità – ciò che la Francia aveva riconosciuto essere l’unico vero atto di culto. “Sì – continuò – abbiamo abbandonato i nostri inanimati idoli per la Ragione, per quest’immagine animata, questo capolavoro della natura!”. Additava la dea sulle spalle dei cittadini, e la dea della Ragione – alias la sig.ra Momoro – sorrise ostentatamente come fanno le divinità delle opere. Chaumette domandò allora che l’antistante chiesa di Notre Dame venisse da quel momento in poi consacrata unicamente al culto della Ragione.

La processione torna a formarsi ed entra (ir-)religiosamente in Notre Dame: «“Adesso – diceva il Giornale di Parigi – possiamo tranquillamente dire di esserci affrancati dalla superstizione, e che le decadi repubblicane hanno ucciso il Sabbath cristiano”!».

Il resoconto è senz’altro ricco di interesse, ma il suo valore è implementato dalla chiosa degli eccessi che accompagnarono le emulazioni di questa iniziale scimmiottatura parareligiosa (fin negli stilemi retorici):

Celebrazioni di medesimo tipo si sono presto susseguite in altre chiese a Parigi, e in tutti i dipartimenti circostanti. In alcune delle chiese l’installazione della dea della Ragione era accompagnata dalle più rivoltanti oscenità – festini, sbronze, fumo, giri di carmagnola nelle | navate, e poi orge tra le colonne e nelle cappelle laterali dietro alle tele – cose che possono essere immaginate, ma non descritte [The pictoral History of England during the Reign of George the Third, III, II, 1, 380-381].

Si sia indulgenti con la lunghezza della citazione: più che per evidenziare la forte continuità tra gli argomenti di Momoro e Chaumette e quelli di MicroMega (i redattori ne andranno fieri!) essa era intesa a esaltare il nesso tra la mistica della Ragione e quella della “liberté”.

Quale sia il legame tra “ragione” e “libertà” tale da poter sfociare in dissolute sregolatezze, ciò costituisce se si vuole la filigrana di questo scritto: se Reyhaneh e la Nappi sono due tragiche sorelle lo si deve alla sovrapposizione, nei loro scritti pubblicati l’altro ieri, delle suddette tematiche (sovrapposizione forse fortuita ma nondimeno fortunata, come per le costellazioni).

Così la Nappi:

Non si capisce, poi, a che tipo di libertà dovrebbe condurci la pseudoliberazione dal presunto apparato perverso della tecnica, impersonale e anonima, che ci controllerebbe. È lecito sospettare che non libererebbe altro che un’umanità reazionaria neo-premoderna (tradizionalista, comunitarista, identitarista, ecc.). Per chi, come me, auspica un potenziamento del modello occidentale contemporaneo di libertà, in virtù del quale i ragazzi a scuola mettono i piedi sul banco e fanno scoppiare le gomme da masticare in faccia agli insegnanti, tale presunta liberazione sarebbe un incubo. Forse è per questa mia indole che Fusaro mi insulta in un suo articolo, paragonandomi tra le altre cose a un verme. Probabilmente lui dirà che la vera libertà non è pisciare (metaforicamente e non) sul maestro, ma comportarsi da docili allievi (si vedano certi suoi video stucchevoli con Costanzo Preve).

La maîtresse à penser (irresistibile polisemia del francese!) polemizza col giovane professore di filosofia Diego Fusaro in merito a certe quérelles di “ortodossia marxiana”, da lui disputate nientemeno che con Massimo Cacciari: una montagna di paroloni vuoti, per i non iniziati; ma neppure a chi qualcosa di filosofia capisce è dato consolarsi di grandi verità. Si discuteva, in estrema sintesi, se Marx avesse inteso il progresso del Capitale come determinato da un previo infinito progresso dell’umanità o no, e se quindi le metamorfosi contemporanee del capitalismo finanziario potessero costituire una qualche forma apicale dello stesso o no, ovvero se si potesse/dovesse porre un argine alle conseguenze sociali e antropologiche delle suddette derive (o no).

Per circostanziare meglio la discussione, si può forse ricapitolare così la posizione di Fusaro (se ne trova un buon saggio qui – è l’articolo della quale da Nappi dice di esservi stata insultata): il presente momento storico sarebbe caratterizzato, almeno in Occidente, da una distinzione politica solo virtuale di “destra” e di “sinistra”. Stante infatti l’egemonia mondiale dei poteri forti della finanza, la “destra del denaro” (così Fusaro) si trova asservita al capitalismo finanziario giunto al suo più cinico stadio; la “sinistra del costume”, da parte sua, opererebbe le sue battaglie dissolutorie e demitizzanti ai danni delle entità che la “destra del denaro” soffoca. Due concretissimi esempî: mentre misure economiche “di destra” minano i diritti dei lavoratori, campagne sociali “di sinistra” diffondono l’idea che “il posto fisso” sia “un retaggio borghese”; mentre le stesse costrizioni economiche “di destra” scoraggiano le persone dall’avviare un progetto famigliare, analoghe pressioni socio-politiche “di sinistra” denunciano l’istituto famigliare come una chimera borghese e un’entità sociale per sua natura reazionaria.

Per questo la Nappi scrive di “un’umanità reazionaria neo-premoderna”, apertamente contrapposta a chi approva (iperbolicamente?) che “i ragazzi a scuola mettano i piedi sul banco e facciano scoppiare le gomme da masticare in faccia agli insegnanti”.

Per difendere la libertà di scoppiare le cicche in faccia ai docenti, infatti, la Nappi fa roteare pomposamente (e con una certa larghezza negli accostamenti) complesse categorie idealistiche. C’è da chiedersi cosa ne avrebbe detto Leopardi, nato un anno prima della Révolution, coevo del giovane Marx e congenitamente irridente ai dogmi delle “magnifiche sorti e progressive”, ma il Recanatese è personaggio di un’altra tragedia. Restando alle sorelle, e passando alla maggiore, si deve anzitutto rilevare che – benché non parli d’altro – la parola “libertà” non trapela neppure una volta. Così Reyhaneh alla madre, nell’ultimo messaggio che le lascia:

Mi hai insegnato che veniamo al mondo per fare esperienza e per imparare una lezione, e che ogni nascita porta con sé una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna combattere. Mi ricordo quando mi dicesti che l’uomo che conduceva la vettura aveva protestato contro l’uomo che mi stava frustando, ma quest’ultimo ha colpito l’altro con la frusta sulla testa e sul volto, causandone alla fine la morte. Sei stata tu a insegnarmi che bisogna perseverare, anche fino alla morte, per i valori. Ci hai insegnato andando a scuola ad essere delle signore di fronte alle liti e alle lamentele. Ti ricordi quanto hai influenzato il modo in cui ci comportiamo? La tua esperienza però è sbagliata. Quando l’incidente è avvenuto, le cose che avevo imparato non mi sono servite. Quando sono apparsa in corte, agli occhi della gente sembravo un’assassina a sangue freddo e una criminale senza scrupoli. Non ho versato lacrime, non ho supplicato nessuno.  Non ho cercato di piangere fino a perdere la testa, perché confidavo nella legge.

Facendo dell’accademia con una regista di uno dei suoi film, la Nappi osservava a sua volta che non basta “fare il porno che ci piace” (così la regista), ma

che dobbiamo anche chiederci perché ci piace. Il principio del non discutere sui gusti è un pessimo principio: i gusti sono importanti, poiché dipendono da strutture oggettive. A un numero non trascurabile di miei coetanei piacciono i vecchi film di Mario Salieri: perché? perché piacciono quei contesti cupi, quel sesso visto come coercizione, sopraffazione, violenza? Rispondere che “sono gusti” vuol dire deporre il problema. Io con Salieri ho provato a collaborare, ma a un certo punto ho capito che siamo incompatibili. È però importante chiedersi perché i suoi film a molti ragazzi piacciano, e la risposta è da ricercarsi, banalmente, nel fatto che fra i portati della nostra storia evolutiva – e sottolineo: evolutiva, perché è vero che incidono anche fattori storici, ma c’è un nocciolo duro, genetico, il cui peso eziologico non può essere trascurato – vi è una significativa prossimità fra la dimensione sessuale e quella della coercizione, della sopraffazione e della violenza. Dietro quello che ci piace, magari dietro il piacere di alcune ragazze nel farsi prendere per i capelli durante l’amplesso, si nasconde il volto agghiacciante dell’evoluzione, di una storia ancestrale atroce.

Si sia indulgenti con il violento stacco di contenuti e di forma – d’altronde una scrive su MicroMega (!) e l’altra parla a voce con la madre… – e non ci si soffermi troppo sulle (improponibili) assonanze tra le frustate prese da Reyhaneh e le tirate di capelli cui allude l’attrice: le prime sono tragedia (di tono biblico-sofocleo, perfino), le seconde commedia. Si prenda invece atto del che la Nappi sembra conservare in qualche modo una memoria del dramma – di “una storia ancestrale atroce”, dice – salvo poi declinarla unicamente in eziologia, ossia con lo sguardo rivolto al passato alla ricerca di condizionamenti. Sottolinea il concetto di “evoluzione”, la filosofa del boudoir, per parlare di uno “zoccolo duro” genetico di cui non vuole trascurare il peso. E sarà bene prenderla sul serio, la Nappi, trascurando magari il bizzarro accostamento lamarckiano tra patrimonio storico e patrimonio genetico: a dispetto infatti della sua apologia liberista (e libertina), il grave peso con cui rimarca questo concetto la rivela per una sfiduciata nei confronti della libertà umana. Tanto basta a farla entrare di diritto nell’albo tragico di Sofocle. Altra questione cosa intenda Fusaro per libertà – risponderà lui per sé: del resto in questo dramma non gli si può riservare altra parte che quella dell’indovino tanto inerme contro il fato da lasciare lo spettatore nel dubbio circa la verità di ciò che dice.

Lo sguardo di sua sorella, di Reyhaneh, si raccoglie nel passato recente, non in quello remoto (fuori controllo per definizione), e lo fa per accogliere una consegna riguardo al futuro, assimilandone i contenuti e testandoli al banco di prova della realtà: il testamento di Reyhaneh alla sua madre dolorosa è la testimonianza di un’effettiva partecipazione a una tradizione, dal momento che nel portato del passato si riceve non uno sterile mito eziologico (sterile non in sé, ma solo in quanto si presenti come totalmente deterministico), bensì un indirizzo etico fondamentale, capace di costruire un progetto di vita. Persino il momento della contraddizione nei confronti di quei contenuti, allora, fa parte della partecipazione attiva alla tradizione, tanto che nelle parole di Reyhaneh le mani del padre e della madre (ossia quelle che le hanno consegnato il mondo e lo scopo della vita) restano quelle di cui si rimpiange il non averle baciate un’ultima volta.

Sono due sorelle, Reyhaneh e la Nappi, alle prese con le tragiche esigenze della libertà umana, di cui declinano le due inconciliabili possibilità fondamentali. Come nella suprema tragedia di Antigone, anche qui gli uomini sono personaggî-chiave ma tutto sommato secondarî: una teoreta del porno non offre molti appiglî alle lagne di certo femminismo, né lo fa una che si fa impiccare senza versare una parola sulla malvagità dell’universo maschile. Il sesso c’entra, ovviamente, nelle vite e nelle scelte di entrambe, ma anche in quelle di Reyhaneh la sfera sessuale non arriva a imporsi come l’orizzonte ultimo – difatti lei non fa rimostranze in tal senso, analogamente a come nella tragedia sofoclea lo scontro tra Creonte e Antigone non comporta l’oscuramento dell’amore tra lei ed Emone, il figlio di lui (amore de-finitivo).

La tragedia sta proprio nel fatto che al di là della morte di una sorella e della sopravvivenza dell’altra, non è dato di sciogliere fino in fondo il nodo che sostiene ogni narrazione – dov’è la verità? – perché quella delle due che sopravvive lo fa negando la propria libertà (malgrado affermi il contrario), quella che alla libertà ha creduto, affidandosi alla verità e alla giustizia, è morta.

Così sembrano avverarsi le parole di Creonte:

E Averno

invochi quivi, il Dio ch’ella sol venera.

Forse otterrà così di non morire;

o forse apprenderà quanto è superflua

pena onorare quei che in Ade giacciono.

Pare l’abbia preso in parola, Reyhaneh, che avverte la madre: «E adesso sto cedendo e sto abbracciando la morte. Perché nel tribunale di Dio incriminerò gli ispettori, l’ispettore Shamlou, il giudice, i giudici della Corte suprema che mi hanno colpita quando ero sveglia e non hanno smesso di abusare di me. Nel tribunale del creatore accuserò il dottor Farvandi, e Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza o menzogna mi hanno tradita e hanno calpestato i miei diritti.
Cara Shole dal cuore d’oro, nell’altro mondo siamo io e te gli accusatori e loro sono gli imputati. Vediamo quel che vuole Dio. Io avrei voluto abbracciarti fino alla morte».

Così Antigone, prima di lei:

Ch’io morir dovessi,

ben lo sapevo, e come no?, pur senza

l’annuncio tuo. Ma se prima del tempo

morrò, guadagno questo io lo considero:

per chi vive, com’io vivo, fra tante

pene, un guadagno non sarà la morte?

Per me, dunque, affrontar tale destino,

doglia è da nulla.

Gustavo Zagrebelsky riassumeva così “i tre volti di Antigone”, le tre grandi categorie le possibilità di lettura della tragedia:

La prima è quella classica, da liceo, che potremmo definire della dicotomia radicale, ripresa in quasi tutte le riletture teatrali: Creonte è un tiranno, Antigone un’eroina che lotta per la libertà. Una tesi non giustificata storicamente […]. [La seconda lettura] è quella della divisione, enunciata da Hegel: entrambi i protagonisti perseguono la loro legittima e irrinunciabile ragion d’essere. Lei, la donna, rappresenta la tradizione; lui, l’uomo, l’innovazione. Un’interpretazione ripresa da Heidegger, che però collega Creonte allo sviluppo della tecnica fine a se stessa: a suo giudizio la tragedia contiene in sé i germi del tramonto della civiltà occidentale. [La terza possibilità] è quella del confronto negato. […]: sia Antigone che Creonte hanno torto, perché nessuno dei due intreccia un dialogo con l’altro. Sono entrambi fanatici. In questo senso, andrebbe rivalutata un’altra figura della tragedia, quella di Ismene, […] descritta spesso come pavida e sottomessa. E invece è l’unica a cercare una soluzione di compromesso.

Si vede subito come “i tre volti di Antigone” secondo Zagrebelsky sembrino comunque imperniarsi tutti “sul collo di Creonte”, ovvero sopravvalutando (sicuramente più di quanto faccia la protagonista) il peso del tiranno nella tragedia e svalutando il confronto tra le sorelle, che invece è indiscutibilmente e in tutti i sensi il la del testo di Sofocle. Quando lo studioso, poi, a Claudia Morgoglione – che lo intervistava sull’attualità di Ismene come “simbolo del valore femminile in politica” – risponde trattarsi effettivamente di una dimensione che «parla al nostro presente», si offre una conferma del carattere Sofocleo della Nappi, oltre che di quello di Reyhaneh. Malgrado le accademie che si possano fare sul libero arbitrio e sui condizionamenti del genoma, sta di fatto che proprio nella vita quotidiana non si dà scampo al dramma del dover scegliere come usare della propria libertà. E che questo sia il campo della tragedia, non della morale, si vede dal fatto che il “finale” è tutto fuorché edificante e costruttivo. Dunque delle due una: o il “finale” non è tale, oppure la sua critica distruttiva è capace di sollevare nei cuori la nostalgia atavica della giustizia e della verità – che rendono liberi anche da morti. Perché – dice Vigilio presentando Dante a Catone – che quanto sia cara la libertà lo sa bene «chi per lei vita rifiuta».

 Save Reyhaneh

I.:

[…]

Ed anche a ciò convien pensare: femmine

siamo, e non tali da lottar con gli uomini;

e assai più forti son quelli che imperano;

e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini,

e se fosser più duri. Io dunque, ai morti

chiedo perdono, poi che son costretta,

ed ai potenti obbedirò: ché ardire

oltre le proprie forze, è cosa stolta.

A.:

Più non ti prego; né se ancor tu l’opera

partecipar volessi, io di buon grado

t’accetterei: sii tu quale esser brami.

Sepolcro io gli darò; bella, se l’opera

avrò compiuta, mi parrà la morte.

E cara giacerò presso a lui caro,

d’un pio misfatto rea: poiché piacere

più lungo tempo a quelli di laggiù

debbo, che a quelli che qui sono. Là

giacer debbo in eterno. E tu, se credi,

disprezza pure ciò che i Numi pregiano.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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