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Il villaggio di cartone

La rubrica Terzaweb ospiterà settimanalmente uno spazio intitolato Un film per il week-end. Tra films (italiani e stranieri) di non recente produzione, pescheremo storie ritenute adatte ad approfondire tematiche attuali o di interesse generale. Ben graditi saranno eventuali suggerimenti da parte dei lettori, su film o argomenti da trattare. Questa settimana, iniziamo con un film del Maestro Olmi dal titolo Il villaggio di cartone (2011), sperando offra diversi spunti di riflessione su due temi di stretta attualità: l’immigrazione; il significato dell’accoglienza degli immigrati nelle nostre parrocchie.

 Film – Il villaggio di cartone

DATA USCITA: 07 ottobre

GENERE: Drammatico

ANNO: 2011

REGIA: Ermanno Olmi

SCENEGGIATURA: Ermanno Olmi

ATTORI:Michael Londsdale (Vecchio prete), Rutger Hauer (Sacrestano), Massimo De Francovich (Medico), Alessandro Haber (Graduato)

immTRAMA: Un vecchio prete assiste incredulo allo sgombero della chiesa, di cui è stato parroco per tanti anni, perché, non servendo più agli scopi del clero, viene sconsacrata. Senza riguardo alcuno irrompono operai nella chiesa, spogliandola di tutto l’arredamento sacro sino all’ultima straziante deposizione del Crocifisso sopra l’altare. Un lungo braccio meccanico stacca il Christus patiens a grandezza d’uomo, appeso alla cuspide, per calarlo a terra come morto. Il vecchio prete sembra non rassegnarsi a quella espropriazione in atto; indossa quasi a formare uno scudo i paramenti sacri e, rifugiatosi in sagrestia, continua a ripetere tra le lacrime – “Kirie eleison” –, perché così un prete combatte una profanazione. Quando il saccheggio è terminato, resta un vuoto doloroso, con le pareti nude e l’altare maggiore spoglio come un sepolcro. Restano solo le panche alle quali il prete rivolge la sua ultima omelia: «Fratelli e sorelle che non siete più qui… questi muri non udranno più parole di vita eterna. Cristo tace». Mentre tutto emana un forte odore di morte e stanchezza, e, lasciato nella canonica, il vecchio prete parla da solo a voce alta per farsi compagnia, assalito da dubbi sulla sua stessa vocazione, arriva inaspettata la risurrezione della chiesa e della missione sacerdotale del vecchio prete. Un forte temporale notturno spinge un gruppo di clandestini in fuga a ripararsi all’interno di quella stessa chiesa ormai sconsacrata. I clandestini prendono tutto quello che trovano; alcuni cartelloni, utilizzati per ricordare ai fedeli delle occasioni di festa, divengono sostegni per teli adagiati sui banconi della chiesa. La chiesa è diventata un villaggio di cartoni: un luogo di accoglienza e fratellanza per un gruppo di extracomunitari africani senza permesso di soggiorno, incarnazione degli esclusi ed emarginati dalla nostra società. Da questo momento, il vecchio prete consumerà fino alla fine la propria missione sacerdotale proteggendo «i clandestini che dalla chiesa sono considerati ospiti»; abbraccerà nuove vie della carità e troverà il coraggio per opporsi agli uomini di legge, che vorrebbero sgomberare i clandestini, ricordando ai primi che verrà il giorno in cui saranno giudicati per quanto hanno fatto ai fratelli bisognosi.

COMMENTO: Il Mastro Olmi realizzò questo film nel 2011, quando il fenomeno dell’immigrazione era già presente in Italia ma certo non nelle proporzioni assunte negli ultimi mesi. Il Maestro, che aveva annunciato si sarebbe dedicato solo ai documentari, tornava a sorpresa con un film sull’immigrazione, evidentemente perché sentiva l’urgenza di offrire spunti di riflessione sul tema.

Ad un certo punto del film, il sagrestano chiede al prete: «Perché lasciate entrare quella gente nella nostra Chiesa?»; il prete, risponde: «Perché è una Chiesa»; allora il sagrestano replica: «Quella è gente diversa, avere a che fare con loro è un rischio per tutti». Questo scambio di battute è significativo, perchè riassume le posizioni opposte di accoglienza o “scarto” che tutti – cristiani compresi – assumono di fronte al problema dell’immigrazione: c’è chi approva una politica di accoglienza nei confronti dell’altro; c’è chi, invece, preferisce disinteressarsi e accettare le leggi dello Stato oggi in vigore. Il Maestro Olmi non edulcora la realtà e non si sottrae a raccontare anche l’altra faccia del fenomeno, perché sappiamo che clandestinità e immigrazione possono accompagnarsi anche ad episodi di terrorismo e violenza. Una giovane ospite, incarnazione appunto di quanti scelgono la via della vendetta e del terrorismo, preparando una bomba, afferma: «La ricchezza di pochi ha prodotto la miseria di molti. Ma la nostra miseria è l’inizio della loro fine». Queste parole, pronunciate in un film del 2011, suonano profetiche e inquietanti se pensiamo al momento di disordine mondiale e di incertezza che stiamo vivendo. Al termine del film, sullo schermo vengono proiettate queste parole: «O siamo noi a cambiare il corso della Storia/o sarà la Storia a cambiare noi», evidente monito di Olmi a non trascurare il problema: sentiamo parlare da anni di “urgenza immigrazione”, ma si rimanda sempre la soluzione politica dei conflitti e delle ingiustizie che sono le vere cause dell’immigrazione.

«Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede». Pronunciata dal vecchio prete, questa è la frase de Il villaggio di cartone che merita maggiore riflessione perché passibile di dubbia interpretazione. Ad una prima lettura, infatti, la frase sembrerebbe inneggiare ad una “Religione dell’Umanità”. Per Olmi, parrebbe, la chiesa del futuro dovrebbe essere una chiesa senza Cristo come quella del film: dove il battistero diventa un abbeveratoio e le candele votive servono a scaldare i rifugiati; dove non si celebra più l’eucaristia ma si accolgono i clandestini e i poveri; non si celebrano più i sacramenti ma la fratellanza, e questo basta perché il «bene è più della fede». Senza dubbio il vecchio prete vicino alla morte, provato e affaticato, è assalito da dubbi tanto da rivolgersi al vecchio crocifisso posto sul comodino con queste parole: «non riesco a provare pietà per Te, sei troppo lontano nel tempo». Secondo la nostra lettura, tuttavia, i dubbi del prete appaiono indirizzati non verso Dio ma verso sé, come se fossero il mea culpa di un uomo di Dio che fa il bilancio della propria missione sacerdotale, interrogandosi su quanto la propria fede abbia saputo sposare la carità, perché la fede senza le opere è niente. Condividendo le proprie giornate con gli immigrati in carne ed ossa, il prete comincia a sentire lontano il “Cristo immagine”, un Cristo venerato come un idolo ma che i cristiani non sanno più riconoscere incarnato negli occhi dei fratelli soprattutto bisognosi. Così, anche con la frase «il bene è più della fede», Olmi non ci sembra inneggiare tanto ad una religione dell’umanesimo, quanto ricordarci che la filantropia e la pietas umana fanno del bene anche di più di una fede di facciata e di vuoti riti. Questo vecchio prete non ci sembra lontano da Cristo, quasi il profeta di una chiesa senza Cristo: quando nasce un bambino, sente l’esigenza di buttarsi in ginocchio sull’altare sconsacrato e intonare tra le lacrime “Adeste fideles”; dialogando con un medico razionalista che dice di aver rinunciato a capire Dio, risponde: «hai provato a pregare?». Insomma non ci sembra un vecchio prete annientato dai dubbi, che abdica alla missione sacerdotale in favore di un sacerdozio dell’umanesimo, piuttosto un vecchio prete che si sottopone ad autocritica: «Quando sono stato capace di vedere Cristo nei miei fratelli?». Nella sua vita avviene una “Diabasis”, come indica il sottotitolo del film: un “passaggio oltre” che, in realtà, è un tornare indietro al cuore del cristianesimo perché Deus caritas est.

DIBATTITO: Papa Francesco ha invitato tutte le parrocchie, non solo i parroci, ad ospitare gli immigrati. In Vaticano è stata ospitata una famiglia di profughi siriani. Un chiaro invito del Papa a riappropriarci della nostra autentica identità di cristiani, perchè la fede è accompagnata dalle opere. Nel film, il vecchio prete ad un certo punto afferma: «Quando la carità è un rischio, quello è il momento della carità». Tuttavia, più volte, lo stesso Papa Francesco ha sottolineato come la chiesa non sia una Onlus, un ente benefico dedito alla solidarietà. Se non c’è fede senza carità, è pur vero che la carità è altra cosa dalla semplice pietas umana. Il cristiano non è chiamato solo a fare del bene, perché per quello non è necessaria la fede, ma è chiamato ad esercitare la Carità: vedere in ogni fratello, soprattutto bisognoso, il volto di Cristo incarnato . La Carità non ha come fine il “fare del bene”, ma raggiungere la perfezione dell’Amore: «Amatevi, come io ho amato voi».

E noi, nelle nostre parrocchie, come ci comporteremo? Come ci prepariamo a compiere opere che non siano esercizio di sola filantropia ma di vera carità cristiana?

 

TRAILER Il Villaggio di cartone