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Decalogo di Kieslowski: “Non rubare”

DECALOGO di Krzysztof Kieslowski. I membri di una famiglia vivono legati da un segreto patto infernale, fino a quando qualcuno si ribella.

DECALOGO

di Krzysztof Kieslowski

Decalogo è una serie di dieci film brevi (ogni episodio dura circa 55 minuti), realizzati dal regista Krzysztof Kieslowski per la televisione polacca tra il 1988 e il 1989. Ogni episodio è indipendente dagli altri e narra una storia che richiama, di volta in volta, uno dei dieci comandamenti biblici. È un’opera complessa, dalle molteplici letture. Ci limitiamo a spiegare la ragione per cui vorremmo commentare alcuni dei film che compongono l’opera. Il linguaggio e la prospettiva adottati dal regista non sono confessionali – non si tratta di un’“epopea” delle Tavole della Legge – ma non per questo sono privi di un certo senso religioso. Tutte le storie, infatti, richiamano implicitamente la necessità strutturale dell’uomo di cercare e sperare in un Altrove – in un ordine metafisico e trascendente – capace di rendere ragione di questa esistenza, che spesso sembra simile ad una matassa aggrovigliata senza senso di paradossi ed interrogativi inquietanti. Alla fine di ogni film, lo spettatore, al di là che sia credente o non lo sia, si chiederà: “Cosa significa per me?”; “Cosa avrei fatto, io, in quella situazione?”; “Chi o cosa avrebbe determinato il mio agire, e perchè?”. Abbiamo scelto il Decalogo, in buona sostanza, perché dai film emana quel senso religioso capace di riaccendere la «curiosità metafisica», quella domanda di Altrove senza la quale la religione è una risposta morta. Il linguaggio e la prospettiva laica – non confessionale e dogmatica – rendono il Decalogo un valido strumento per confrontarsi anche con i pagani del mondo contemporaneo.

 DECALOGO VII

 NON RUBARE 

«Il settimo comandamento: Non rubare» «Il settimo comandamento, Non rubare!», è citato sia sul bordo superiore della tavola sia sul cartiglio dell'angelo. Da un lato, la dimensione positiva del comandamento è rappresenta- ta da un uomo ricco e da altre persone semplici e lavoratori che vivono in armonia. D'altro lato, si consumano alcuni furti: c'è chi ruba un vestito e una grossa collana e c'è chi sta fa- cendo man bassa di vasellame prezioso da un forziere, mentre il diavolo sarcasticamente os- serva che «il mantello (rubato) non è male, ma è meglio prendere piuttosto cento marchi». Sullo sfondo, però, si intravede un patibolo con due impiccati.

«Il settimo comandamento: Non rubare»
«Il settimo comandamento, Non rubare!», è citato sia sul bordo superiore della tavola sia sul cartiglio dell’angelo. Da un lato, la dimensione positiva del comandamento è rappresentata da un uomo ricco e da altre persone semplici e lavoratori che vivono in armonia. D’altro lato, si consumano alcuni furti: c’è chi ruba un vestito e una grossa collana e c’è chi sta facendo man bassa di vasellame prezioso da un forziere, mentre il diavolo sarcasticamente osserva che «il mantello (rubato) non è male, ma è meglio prendere piuttosto cento marchi». Sullo sfondo, però, si intravede un patibolo con due impiccati.

TRAMA: I membri di una famiglia hanno vissuto per anni legati da un segreto patto di “carne e sangue”, fino a quando il piano salta richiamando tutti i coinvolti alle rispettive responsabilità.

A 16 anni Majka scopre di aspettare un figlio da un insegnante della scuola che frequenta, la cui direttrice è proprio la madre della ragazza – Ewa. Lo scandalo provocato dalla figlia adolescente, pur mettendo in imbarazzo la “buona famiglia” polacca, diventa per Ewa – che non può più avere gravidanze – un’occasione per tornare ad essere “mamma” come desidera fortemente. Allontanata dal fidanzato, Majka partorisce a condizione di accettare un vero “passaggio di proprietà” tra sé e la madre. La neonata Anka sarà ufficialmente e legalmente riconosciuta come sorella di chi l’ha concepita e partorita, e figlia di chi ha avuto il potere di garantirle un posto nel mondo: i genitori di Majka –Ewa e Stefan. Il marchingegno genealogico di una simile maternità clandestina regge per sei anni, fino a quando Majka, diventata una giovane donna irrequieta, decide di ribellarsi al segreto che tiene debolmente avvinti i componenti della famiglia. Nel corso di una rappresentazione teatrale di bambini, Majka decide di portare via con l’inganno Anka, la “sorellina” partorita da lei, volendo mettere in atto un altro “passaggio di proprietà”: questa volta dalla madre Ewa a sé. Con l’idea di restituire Anka non solo alla “vera madre” ma anche al “vero padre”, Majka, insieme alla piccola, va a cercare Wojtek, il giovane uomo con cui l’aveva concepita. Ma lui vive ormai da solo, lontano da tutti tanto più dalla possibilità di diventare padre a comando. Una serie fitta di rancori e vendette avvilupperà tutti gli adulti della storia, lasciando gli spettatori con l’unica domanda sensata: “Quale sarà il futuro della piccola Anka?”.

COMMENTO: Cosa associa la storia della famiglia al settimo comandamento: “non rubare”? Si converrà sul fatto che è rubato tutto ciò di cui ci si impadronisce senza che l’altro riconosca di avercelo dato. E allora è lecito chiedersi: “In una storia come questa, chi ruba a chi?”. Il film si apre con il grido lancinante della piccola Anka: da sei anni, tutte le notti, grida atterrita da un incubo. La madre/nonna e la madre/sorella accorrono, accerchiando la bambina con la loro violenta rivalità materna. Ewa scaccia Majka e sveglia bruscamente Anka dicendo: «Non bisogna aver paura dei lupi, non ci sono i lupi. Hai sognato i lupi, eh? E invece i lupi non ci sono». Né l’una né l’altra chiedono ad Anka cosa agiti il suo sonno e cosa la faccia gridare, non sono abituate ad ascoltarla, ma le piombano addosso con la loro maternità famelica e prepotente. I lupi esistono, al contrario di quanto dica Ewa, e probabilmente sono proprio le due donne: affamate, guardinghe, sgattaiolano nel buio per proteggere il segreto di una maternità clandestina, che regge su un artificioso patto siglato con un certificato anagrafico. Anka, la bambina di questa storia, è nata e cresciuta tra adulti che hanno coltivato un segreto; entrambe le donne sequestrano Anka e le impongono la pretesa violenta della loro maternità: la bambina è una clandestina, figlia di una maternità clandestina. Nel tentativo di riprendersi ciò di cui è stata rapinata, Majka ripercorre la strada verso il bosco fino all’abitazione dell’uomo con cui ha concepito la bambina, Wojtek, come a ricostruire a ritroso una maternità che per sei anni non ha mai avuto. «Le ho portato via Anka e non gliela ridarò più» – asserisce Majka – e intanto incalza la bambina rapita con l’imperativo categorico: «Devi dirmi “mamma”. Sei mia». Ewa per riprendersi ciò che è “suo” ricatta Majka con qualche briciola di maternità: «Potrai vedere Anka tutte le volte che vorrai. Anka sarà mia e tua. Finché io vivrò. Poi sarà solo tua». Un vero e lercio mercanteggiamento di proprietà. Dunque, una madre vale l’altra. Sono entrambe ladre.

Maternità significa generare un’alterità, e staccarla da sé perché trovi la propria identità; non è generare un’alterità, e tenerla attaccata a sé perché affermi la nostra identità. Le due madri sono entrambe ladre di essere: incapaci di smettere di essere per far nascere l’altro da sé.

RIFLESSIONI: Ci appare superfluo evidenziare ulteriormente come il film sia un affresco di tutte le possibili distorsioni prepotenti della maternità; il film si presta a guidare riflessioni anche su pratiche quali l’“utero in affitto”, la “maternità surrogata”, la “fecondazione eterologa” – chi ha più definizioni le aggiunga –, sulla cui legittimità la civiltà e la cultura civile si divide. Vorremmo aggiungere, invece, una breve considerazione su due figure che si muovono sullo sfondo di Decalogo 7, Stefan e Wojtek: due padri bambini che permettono alla “maternità” prepotente di fagocitare tutto, incapaci di assumere le proprie responsabilità perché non sanno quali siano. Le figure dei due padri non sono secondarie nell’analisi proposta dal film. Kieslovski non ha pena per loro più che per le povere donne ladre. Ne osserva l’inconsistenza egoista, simboleggiata dalle attività artigiane in cui si rifugiano cercando di non sapere, di non capire e di non ascoltare. L’uno, ormai, è dedito soltanto al bricolage; l’altro, a costruire orsetti di pezza. Anche loro sono ladri, perchè con la loro incapacità di essere padri rendono le proprie donne mezze donne e mezze madri. Attraverso un acuto simbolismo, con chiari riferimenti alla psicanalisi – al complesso di Edipo quanto a quello di Medea –, il maestro Kieslovski suggerisce uno spunto di riflessione che riteniamo fondamentale. Che cos’è un desiderio di maternità, come quello di entrambe le donne, senza il desiderio di un uomo e di un figlio generato con lui?

Il film di Kieslovski ci ricorda una cosa evidente, destinata, come tutte le cose evidenti, oggi giorno, all’obnubilamento: la maternità senza il desiderio di un uomo e di un figlio generato da lui è “astratta”, una sorta di maternità a priori imposta in sé e per sé; fare un bambino come un idolo da consacrare alla propria insoddisfazione, al desiderio di affermare la propria identità. E i bambini che nascono così, assorbendo fin dal concepimento la richiesta di accettare una normalità che normalità non è, forse non sognano le fate ma urlano nella notte:

Majka: − «Strilla così quasi tutte le notti. Sogna… Non so di che cosa ha paura…».

Wojtek: − «Di ciò che sarà. Un domani…».

Majka: − «O di ciò che è stato. Ho letto che i bambini possono gridare nel sonno per la paura di nascere. Sognano di essere ancora dentro, nella pancia».

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* L’immagine inserita nell’articolo è tratta da una Tavola lignea, opera di un artista attivo in Danzica (Gdansk) nel 1480-1490 ed esposta al Museo Nazionale di Varsavia. Il commento delle singole illustrazioni è tratto dal libro di padre Gianfranco Ravasi, I Comandamenti (edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002).

Per comune ammissione di Krzystof Kieslowski e del suo sceneggiatore congiunto Krzystof Piesiewicz, la Tavola lignea è stata la prima fonte ispiratrice del progetto Decalogo. [Cfr.: Da un’intervista a Krzystof Piesiewicz di Tadeus Sobolewski, in Kieslowski, Museo Nazionale del Cinema, Torino 1989].

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