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Filosofi, “concorsone” e “concertone”

Tra passato e presente, con un po' di ironia, per rispondere alla domanda: come si guadagna davvero la vita un filosofo, nella sua professione o al di fuori di essa?

In pieno svolgimento del “concorsone”, e alla vigilia del “concertone”, è il momento di affrontare nella rubrica “Filosofia per la vita”  la questione del lavoro. Come si guadagna davvero la vita un filosofo, nella sua professione o al di fuori di essa? Con cosa compra il pane, paga l’affitto, i libri, i vestiti, i viaggi, si concede qualche capriccio? Risponderemo dati alla mano, premettendo che su una cosa la storia mostra unanimità: la filosofia non rende ricchi. Ci sono filosofi ricchi, ma nessuno è diventato più ricco con la filosofia.

Se il tema del denaro può apparire prosaico, e il nostro interesse meschino, forse basteranno poche parole di Hegel, riportate in una Lettera a Niethammer del 5 febbraio 1812, per convincervi di quanto il denaro influisca nel lavoro di un filosofo. Facendo riferimento alla Scienza della logica (1816), Hegel scrive: «Io non sono un accademico; per dargli la forma conveniente avrei dovuto impiegare ancora un anno, mentre ho bisogno di denaro per vivere». Siamo nel 1812, a Norimberga. Hegel, impegnato nel duplice incarico di preside e di professore al liceo, non percepisce gli stipendi arretrati e ha contratto debiti. La Scienza della Logica richiederebbe più tempo, lo sa, ma Hegel ha fretta perché ha necessità di disporre dei diritti d’autore. Se la lettura della Scienza della Logica dovesse risultarvi…ostica, tenete a mente le circostanze in cui fu scritta!

Come Hegel molti e illustri filosofi si guadagnarono la vita svolgendo la professione di insegnante, praticamente insegnando la filosofia degli altri. Solo previa valutazione di una tesi, nella fattispecie la Nuova spiegazione dei principi primi della conoscenza metafisica (1755), Kant fu nominato privatdocent – insegnante libero – dell’università di Könisberg per quindici anni (1755-1770). La “libertà”, presumiamo, risiedeva nel fatto che Kant impartiva lezioni a casa, nella stanza da pranzo, da sedici a ventotto ore settimanali, e che i suoi corsi – su geografia, fisica, etica, antropologia, matematica, fisica teorica, meccanica, diritto – erano retribuiti dagli studenti. Comunque, nel 1770 ci fu l’avanzamento di carriera. Sempre dopo aver dimostrato di essere idoneo, dissertando in buon latino Della forma e dei principi del mondo sensibile e del mondo intellegibile, Kant diventò a quarantasei anni professore ordinario di logica e matematica e tale resterà fino al 1797, anno del pensionamento. Faceva nove ore di lezione al giorno, più due ore di dispute, per uno stipendio modestissimo, 166 talleri, tanto da ricorrere ad un secondo lavoro come bibliotecario. Anche Nietzsche fu tra gli insegnanti di professione; sei ore di greco la settimana alle ultime classi del liceo, più otto ore di filologia agli studenti dell’università. Smise a trentun anni per malattia, vivendo della magra pensione di professore, solo 300 franchi l’anno, senza poter contare sui diritti d’autore dei libri: «In effetti, fino al mio quarantesimo anno di età non ho “guadagnato” coi miei numerosi scritti un solo centesimo» (lettera a C. von Gersadorff del 12 febbraio 1855).

Se state pensando che vogliamo buttarla sulla “rivendicazione sindacale”, passiamo subito a parlare dei filosofi che vissero di rendita. Platone apparteneva ad una ricca famiglia di proprietari terrieri e viveva agiatamente di questa risorsa; il gentiluomo Cartesio trovò le proprie risorse nei beni del padre, che lavorava come consigliere al Parlamento di Bretagna, così come Voltaire fece fruttare il patrimonio ereditato dal padre notaio. Pascal osò…scommettere: ereditato dal padre un capitale, investì su un’impresa di «carrozze a cinque soldi» che attraversavano Parigi e pare che l’affare fruttasse bene. Se i suddetti filosofi vi sembrano fortunati, ci furono perfino quelli che camparono di rendita contraendo un “grasso grosso matrimonio”. Ludwig Feuerbach, una volta cacciato dall’università per aver negato l’immortalità individuale, vivrà grazie al felice matrimonio con una ricca ereditiera, Berta Low, scrivendo l’Essenza del Cristianesimo (1841) comodamente nel castello della moglie. Quando si dice l’“alienazione”!

Se state pensando che vogliamo buttarla su uno “spiegone” dal titolo: “Lavoro e casta”, sorvolando sui filosofi religiosi o politici per professione, passiamo subito a parlare dei filosofi lavoratori. Protagora, verso il 464 a.C., secondo Diogene Laerzio, lavorava come «portatore di fasci di legna». Cleante, secondo capo della scuola stoica, attinge acqua e fa anche il pane. Hobbes passa settant’anni della propria vita a servizio della famiglia Cavendish di Parigi, retribuito in qualità di segretario, economo, precettore, una specie di domestico di alto livello. Se Locke fu anche medico, Spinoza guadagnava il pane fabbricando lenti ottiche, microscopi e telescopi. Quando prende la tubercolosi polmonare per via della polvere, rifiuta ogni aiuto seguendo la regola contenuta nel suo Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1677): «Ricercare denaro, o qualsiasi altra cosa del genere, quanto basta a conservare la vita e la salute e a conformarsi agli usi sociali». Tra quelli che disdegnarono il denaro, sicuramente c’è Socrate; definito da Platone, nell’Apologia, come il più libero degli uomini perché non riceveva «da nessuno né doni né paga», ripeteva: «Vivo nella maggiore povertà per ossequio al dio».

Se pensate che stiamo parlando troppo del passato, passiamo a considerare come dal XX secolo i filosofi hanno iniziato a orientarsi verso le professioni della comunicazione, del giornalismo e dell’editoria. Oggi il filosofo, oltre a scrivere libri propri, dirige una collana presso qualche editore, lavora come redattore, critico, editorialista o direttore di rivista. Altro modo di guadagnarsi da vivere, è esporre la filosofia sotto forma di romanzo, autobiografia intellettuale, opera teatrale, oppure renderla più “colloquiale” su riviste per il grande pubblico. Poi c’è il counsellor filosofico e il consulente filosofico d’azienda, per alcuni considerate ancora forme “spurie” di filosofia, e tutti quelli che a vario titolo vagano su internet, on line. Altri, per diffondere la propria filosofia e allo stesso tempo guadagnare, istituiscono corsi privati, scuole indipendenti, ognuna con la propria organizzazione e le proprie finalità; sono allo stesso tempo pionieri di questo secolo e conservatori, perché, in fondo, realizzano oggi quello che Platone fece con l’Accademia, Aristotele con il Liceo, Epicuro con il Giardino, Zenone con il Portico. Il panorama odierno è ricco fertile; anche se non tutto quello che viene venduto per filosofia è filosofia né tutto ciò che fa vivere di filosofia fa vivere la filosofia. La ricchezza dell’offerta si paga con la qualità? Chi può giudicare?

Noi finiamo qui, perché volevamo solo mostrare che chi vive per la filosofia un modo per campare lo trova sempre. Ci saranno anche ora filosofi insegnanti di professione, impegnati a risultare idonei nel “concorsone”; oppure filosofi lavoratori, che portano “fascine di legno”, in attesa del primo maggio per dedicarsi allo studio e alla scrittura. Per gli uni e gli altri, una sola certezza: il filosofo si sazia solo di filosofia, anche se per mangiare fa altro.